NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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martedì 5 marzo 2019

Sulle "Baccanti" di Euripide

Dioniso

Euripide, le Baccanti. Un assaggio di critica

 Presenterò questa tragedia a Faenza il  7 marzo, poi a Perugia il 15 marzo).
Dodds: “To ask whether Euripides ‘believed in’ this Aphrodite is a meaningless as to ask whether he ‘believed’ in sex. It is not otherwise with Dionysus. As the “moral” of the Hippolytus is that sex is a thing about which you cannot afford to make mistakes, so the ‘moral’ of the Bacchae is that we ignore at our peril the demand of the human spirit for Dionysiac experience. For those who do not close their minds against it, such experience can be a deep source of spiritual power and eujdaimoniva. But those who repress the demand in themselves or refuse their satisfaction to others transform it by their act into a power of disintegration and destruction, a blind natural force that sweeps away the innocent with the guilty. When that has happened, it is too late to reason or to plead: in man’ s justice there is room for pity, but there is none in the justice of Nature(…) If this, or something like it, is the thought underlying the play, it follows that the flat-footed question posed by the nineteenth-century critics-was Euripides ‘for’ Dionysus or ‘against’ him?-admits no answer in those therms. In himself, Dionysus is beyond good and evil; for us, as Teiresias says (314-318[1]), he is what we make of him (…) His favourite method is to take a one-sided point of view, a noble half-truth, to exhibit its nobility, and then to exhibit the disaster to which it leads its blind adherents because it is after all only part of the truth[2].
 It is thus that he shows us in the Hippolytus the beauty and the narrow insufficiency of the ascetic ideal, in the Heracles the splendour of  bodily strength and courage and its toppling over into megalomania an ruin; it is thus that in his revenge plays-Medea, Hecuba, Electra –the spectator’ s sympathy is first enlisted for the avenger and then made to extend to the avenger’s victims. The Bacchae is constructed on the same principle: the poet has neither belittled the joyful release of vitality which Dionysiac experience brings nor softened the animal horror of ‘black’ maenadism; deliberatly he leads his audience through the whole gamut of emotions, from sympathy with the persecuted god, through the excitement of the palace miracles and the gruesome tragi-comedy of the toilet scene, to share in the end the revulsion of Cadmus against this inhuman jiustice. It is a mistake to ask what he is trying to ‘prove’: his concern in this as in all his major plays is not to prove anything but to enlarge our sensibility-which is, as Dr. Johnson said, the proper concern of a poet” [3], chiedere se Euripide ‘credeva in’ questa Afrodite è una domanda senza senso, come chiedere se egli ‘credeva nel’ sesso. Non è diverso con Dioniso. Come la ‘morale’ dell’Ippolito è che il sesso è una cosa sulla quale non ci si può permettere di fare errori, così la ‘morale’ delle Baccanti è che noi ignoriamo a nostro pericolo l’esigenza dello spirito umano di esperienza dionisiaca[4]. Per quelli che non le oppongono una barriera mentale, tale esperienza può essere una sorgente profonda di potenza spirituale e di felicità. Ma quelli che reprimono l’esigenza in se stessi o ne rifiutano l’appagamento in altri, la trasformano con il loro atto in una potenza che disintegra e distrugge, una forza cieca e naturale che spazza via l’innocente con il colpevole. Quando questo è accaduto, è troppo tardi per ragionare o perorare: nella giustizia dell’uomo c’è spazio per la pietà, ma non ce n’è nella giustizia di Natura [5](…)
Se questo pensiero, o uno del genere, è quello che si trova alla base del dramma, ne consegue che la questione di lana caprina - Euripide stava ‘per’ Dioniso o era ‘contro’ di lui? - non ammette risposta in questi termini. In sé Dioniso è al di là del bene e del male; per noi, come dice Tiresia (314-318[6]), egli è quello che noi facciamo di lui…Il  metodo favorito di Euripide è prendere un punto di vista unilaterale, una nobile mezza-verità, mettere in mostra la sua nobiltà, poi mettere in mostra il disastro al quale essa conduce i suoi ciechi seguaci- poiché è dopo tutto solo una parte della verità[7]. E’ così che egli ci mostra nell’Ippolito la bellezza e la stretta insufficienza dell’ideale ascetico, nell’Eracle lo splendore della forza corporea e del coraggio e il suo inciampare nella megalomania e rovina; ed è così che nei suoi drammi della vendetta- Medea, Ecuba, Elettra- la simpatia dello spettatore è prima associata al vendicatore, poi fatta passare alle vittime del vendicatore. Le Baccanti sono costruite sullo stesso principio: il poeta non ha né sminuito la gioiosa liberazione di vitalità che l’esperienza dionisiaca comporta, né attenuato l’orrore bestiale del menadismo ‘nero’; deliberatamente egli conduce il suo pubblico attraverso tutta la gamma di emozioni, dalla simpatia con il dio perseguitato, attraverso l’agitazione dei miracoli del palazzo e la spaventosa tragicommedia della scena del travestimento, per condividere alla fine la reazione di Cadmo contro la non umana giustizia. E’ un errore chiedersi che cosa egli stia tentando di ‘provare’: il suo interesse in questo come in tutte le sue tragedie maggiori non è provare qualcosa ma allargare la nostra sensibilità-che è, come ha detto il Dottor Johnson, l’interesse proprio del poeta.     

Murray: Euripide è un indagatore e rappresenta tanto il razionalismo quanto l’irrazionalismo:“Euripides was both a reasoner and a poet. The two sides of his nature sometimes clashed and sometimes blended[8], Euripide fu sia un ragionatore, sia un poeta. I due lati della sua natura talvolta si scontrarono e talora si armonizzarono.

Secondo me le Baccanti di Euripide costituiscono, nell’intenzione dell’autore, anche un’accusa integrale e assoluta della città empia e marcia di Tebe, acerrima nemica di Atene. Niente si salva in questo “paese guasto”: non la politica, non la religione, non la famiglia. Agave che, invasata da Dioniso, ha ucciso il proprio figliolo, ed esce di scena maledicendo il Citerone contaminato (miarov~, v. 1385) dal sangue di Penteo, dà voce all’orrore di Euripide e al risentimento di tutti gli Ateniesi per il comportamento dei Tebani durante le guerre persiane e le guerre tra i Greci. Si pensi al processo di Platea[9].  
Si ricordi per giunta che dopo la battaglia di Egospotami, il tebano Erianto suggerì di radere al suolo Atene e abbandonare la campagna come pascolo alle pecore. Ma Euripide, che pure era già morto da un paio di anni,  salvò la sua città; durante un convito un focese cantò alcuni versi della parodo dell’Elettra (167ss. “Figlia di Agamennone, sono giunta nella tua rustica casa”). A sentire questa poesia, tutti i comandanti si intenerirono e sembrò troppo crudele distruggere una polis così illustre che produceva uomini tanto grandi (Plutarco, Vita di Lisandro, 15).

Pasolini: “Egli (Dioniso) è venuto in forma umana a Tebe per portare amore (ma mica quello sentimentale e benedetto dalle convenzioni!), e invece porta il dissesto e la carneficina. Egli è l’irrazionalità che cangia, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dalla dolcezza all’orrore. Attraverso essa non c’è soluzione di continuità tra Dio e il Diavolo, tra il bene e il male (Dioniso si trasforma, appunto, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dal giovane pieno di grazia che era al suo primo apparire in un giovane amorale e criminale. Sia come apparizione “benigna” che come apparizione “maledetta”, la società, fondata sulla ragione e sul buon senso-che sono il contrario di Dioniso, cioè dell’irrazionalità-non lo comprende. Ma è la sua stessa incomprensione di questa irrazionalità che la porta irrazionalmente alla rovina, alla più orrenda carneficina mai descritta in un’opera d’arte. Sono gli I. M., per citare Elsa Morante, gli Infelici Molti, ossia la maggioranza, o la media, fondata sulla razionalità e sul buon senso, che non comprendono la grazia di Dioniso, la sua libertà, e, perciò, finiscono atrocemente nella strage: di cui peraltro la irrazionalità stessa è patrona. Quanti Péntei, nella nostra società…I Pentéi italiani sono dei mediocri, dei meschini imbecilli, neanche degni di essere dilaniati dalle Menadi ” (P. P. Pasolini, saggi sulla politica e sulla società).


Le Baccanti e Bernard Shaw (il maggiore Barbara) 

Baccanti  di Euripide, seconda antistrofe della Parodo

Ant b. O sede riposta dei Cureti
e sacrosanta dimora
di Creta dove nacque Zeus,
dove i Coribanti dal triplice cimiero
negli antri inventarono per me                                                               125
questo cerchio di pelle tesa;
e nell’orgia bacchica lo mescolarono
al soffio concorde dal dolce suono
dei flauti frigi, e lo misero in mano
della madre Rea, strepito adatto alle grida delle menadi;
e Satiri pazzi                                                                                  130
lo ottennero dalla dea madre
e lo adattarono alle danze
delle feste biennali,
delle quali gioisce Dioniso

Il suono del tamburello è considerato centrale anche dal professore di greco Adolph Cusins, il fidanzato di Barbara, maggiore dell’esercito della salvezza nella commedia di Bernard Shaw. Egli dice al futuro suocero, il padre di Barbara, ricchissimo fabbricante di armi: “You do not understand the Salvation Army. It is te army of joy, of love, of courage…It takes the poor professor of Greek, the most artificial and self-suppressed of human creatures, from his meal of roots, and lets loose the rhapsodist in him; reveals the true worship of Dionysos to him; sends him down the public street drumming dithyrambs[10], Tu non capisci l’Esercito della Salvezza. E’ l’esercito della gioia, dell’amore, del coraggio… Porta via il povero professore di Greco, la più artificiale e autorepressa delle creature dal suo pasto di radici, e libera il rapsodo che è in lui; rivela in lui il vero cultore di Dioniso; lo manda nella pubblica strada a tambureggiare ditirambi.   





[1] Non sarà Dioniso a costringere le donne a essere
caste nei confronti di Cipride, ma nel temperamento 315
(sta sempre l’essere casto in tutte le occasioni sempre)
a questo bisogna pensare: e infatti anche nei baccanali
quella che è casta non si guasterà.
[2] Cf. Murray, Euripides and His Age, 187.
[3] E. R. Dodds, Euripides Bacchae, pp. xlv-xlvii.
[4] La componente istintiva, prima repressa, poi scatenata verso la distruzione, mai applicata all'incremento della vita, porta Gustav Aschenbach  alla morte, preannunciata da una fantasia onirica  memore dei riti orgiastici delle Baccanti:" Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello vorticava; ira accecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme, ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti, singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e carezze lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni, leccando il sangue che colava sulle membra". T. Mann, La morte a Venezia  (del 1913)  p. 139. Ndr.
[5]" La natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società feudale basata sulle caste"   Schopenhauer, Parerga e paralipomena (del 1851), Tomo I, p. 275.
[6] Non sarà Dioniso a costringere le donne a essere/caste nei confronti di Cipride, ma nel temperamento/(sta sempre l'essere casto in tutte le occasioni sempre)/a questo bisogna pensare: e infatti anche nei baccanali/quella che è casta non si guasterà (Baccanti, 314 318) ndr.
[7] Cf. Murray,  Euripide e i suoi tempi, , trad. it. Laterza, Bari, 1932.
[8] G. Murray, Euripides and his age, p. 197.
[9] L'episodio di Platea nella storia di Tucidide. Nell'estate del 427 Platea, fedele alleata storica di Atene, ridotta allo stremo delle forze, si arrese ai Peloponnesiaci. Sparta inviò cinque giudici e istruì un processo. Si vede che già all'epoca i vincitori giudicavano i vinti: i “santi di guerra” punivano   i “criminali di guerra”. I Plateesi devono illustrare le proprie benemerenze per cavarsela: ricordano innanzitutto la loro partecipazione alle guerre persiane, soli tra i Beoti ("movnoi Boiwtw'n", III, 54, 3). Sostengono che se nella guerra in corso, minacciati dai Tebani e respinti dagli Spartani, non hanno tradito gli Ateniesi i quali li hanno soccorsi, non hanno commesso ingiustizia. I Tebani, che li odiano, all'epoca parteggiarono per i barbari. I Plateesi dunque si appellano, nobilmente, all'onore degli Spartani che rimarebbe macchiato da un eccidio tanto ingiusto: "bracu; ga;r to; ta; hJmevtera swvmata diafqei'rai, ejpivponon de; th; duvskleian aujtou' ajfanivsai", III, 58, 2), è un attimo distruggere i nostri corpi, ma sarà faticoso cancellarne il disonore. Viene ancora impiegato il linguaggio aristocratico dell'onore e quello religioso della pietas  tradizionale che ingiungeva di non ammazzare i supplici:" oj de; novmo" toi'"   {Ellhsi mh; kteivnein touvtou" ( III, 58, 3). Quindi parlarono i Tebani perorando lo sterminio dei Plateesi con l'argomento che essi sono sempre stati complici degli Ateniesi oppressori dei Greci. Dei Plateesi soltanto ammazzarono non meno di duecento uomini ("dievfqeiran de; Plataiw'n me;n aujtw'n oujk ejlavssou" diakosivwn", III, 68, 3), degli Ateniesi venticinque, quelli che erano rimasti con loro nell'assedio. Le donne vennero fatte schiave.


[10] Major Barbara, Act II.

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