Dioniso |
Euripide,
le Baccanti. Un assaggio di critica
Presenterò
questa tragedia a Faenza il 7 marzo, poi a Perugia il 15
marzo).
Dodds:
“To
ask whether Euripides ‘believed in’ this Aphrodite is a
meaningless as to ask whether he ‘believed’ in sex. It is not
otherwise with Dionysus. As the “moral” of the Hippolytus is that
sex is a thing about which you cannot afford to make mistakes, so the
‘moral’ of the Bacchae is that we ignore at our peril the demand
of the human spirit for Dionysiac experience. For those who do not
close their minds against it, such experience can be a deep source of
spiritual power and eujdaimoniva.
But those who repress the demand in themselves or refuse their
satisfaction to others transform it by their act into a power of
disintegration and destruction, a blind natural force that sweeps
away the innocent with the guilty. When that has happened, it is too
late to reason or to plead: in man’ s justice there is room for
pity, but there is none in the justice of Nature(…) If this, or
something like it, is the thought underlying the play, it follows
that the flat-footed question posed by the nineteenth-century
critics-was Euripides ‘for’ Dionysus or ‘against’ him?-admits
no answer in those therms. In himself, Dionysus is beyond good and
evil; for us, as Teiresias says (314-318[1]),
he is what we make of him (…) His favourite method is to take a
one-sided point of view, a noble half-truth, to exhibit its nobility,
and then to exhibit the disaster to which it leads its blind
adherents because it is after all only part of the truth[2].
It
is thus that he shows us in the Hippolytus the beauty and the narrow
insufficiency of the ascetic ideal, in the Heracles the splendour
of bodily strength and courage and its toppling over into
megalomania an ruin; it is thus that in his revenge plays-Medea,
Hecuba, Electra –the
spectator’ s sympathy is first enlisted for the avenger and then
made to extend to the avenger’s victims. The Bacchae is constructed
on the same principle: the poet has neither belittled the joyful
release of vitality which Dionysiac experience brings nor softened
the animal horror of ‘black’ maenadism; deliberatly he leads his
audience through the whole gamut of emotions, from sympathy with the
persecuted god, through the excitement of the palace miracles and the
gruesome tragi-comedy of the toilet scene, to share in the end the
revulsion of Cadmus against this inhuman jiustice. It is a mistake to
ask what he is trying to ‘prove’: his concern in this as in all
his major plays is not to prove anything but to enlarge our
sensibility-which is, as Dr. Johnson said, the proper concern of a
poet” [3],
chiedere se Euripide ‘credeva in’ questa Afrodite
è una domanda senza senso, come chiedere se egli ‘credeva nel’
sesso. Non è diverso con Dioniso. Come la ‘morale’
dell’Ippolito è
che il sesso è una cosa sulla quale non ci si può permettere di
fare errori, così la ‘morale’ delle Baccanti è
che noi ignoriamo a nostro pericolo l’esigenza dello spirito umano
di esperienza dionisiaca[4].
Per quelli che non le oppongono una barriera mentale, tale esperienza
può essere una sorgente profonda di potenza spirituale e di
felicità. Ma quelli che reprimono l’esigenza in se stessi o ne
rifiutano l’appagamento in altri, la trasformano con il loro atto
in una potenza che disintegra e distrugge, una forza cieca e naturale
che spazza via l’innocente con il colpevole. Quando questo è
accaduto, è troppo tardi per ragionare o perorare: nella giustizia
dell’uomo c’è spazio per la pietà, ma non ce n’è nella
giustizia di Natura [5](…)
Se
questo pensiero, o uno del genere, è quello che si trova alla base
del dramma, ne consegue che la questione di lana caprina - Euripide
stava ‘per’ Dioniso o era ‘contro’ di lui? - non ammette
risposta in questi termini. In sé Dioniso è al di là del bene e
del male; per noi, come dice Tiresia (314-318[6]),
egli è quello che noi facciamo di lui…Il metodo
favorito di Euripide è prendere un punto di vista unilaterale, una
nobile mezza-verità, mettere in mostra la sua nobiltà, poi mettere
in mostra il disastro al quale essa conduce i suoi ciechi seguaci-
poiché è dopo tutto solo una parte della verità[7].
E’ così che egli ci mostra nell’Ippolito la
bellezza e la stretta insufficienza dell’ideale ascetico,
nell’Eracle lo
splendore della forza corporea e del coraggio e il suo inciampare
nella megalomania e rovina; ed è così che nei suoi drammi della
vendetta- Medea,
Ecuba, Elettra-
la simpatia dello spettatore è prima associata al vendicatore, poi
fatta passare alle vittime del vendicatore. Le Baccanti sono
costruite sullo stesso principio: il poeta non ha né sminuito la
gioiosa liberazione di vitalità che l’esperienza dionisiaca
comporta, né attenuato l’orrore bestiale del menadismo ‘nero’;
deliberatamente egli conduce il suo pubblico attraverso tutta la
gamma di emozioni, dalla simpatia con il dio perseguitato, attraverso
l’agitazione dei miracoli del palazzo e la spaventosa tragicommedia
della scena del travestimento, per condividere alla fine la reazione
di Cadmo contro la non umana giustizia. E’ un errore chiedersi che
cosa egli stia tentando di ‘provare’: il suo interesse in questo
come in tutte le sue tragedie maggiori non è provare qualcosa ma
allargare la nostra sensibilità-che è, come ha detto il Dottor
Johnson, l’interesse proprio del poeta.
Murray: Euripide
è un indagatore e rappresenta tanto il razionalismo quanto
l’irrazionalismo:“Euripides
was both a reasoner and a poet. The two sides of his nature
sometimes clashed and sometimes blended”[8],
Euripide fu sia un ragionatore, sia un poeta. I due lati della
sua natura talvolta si scontrarono e talora si armonizzarono.
Secondo
me le Baccanti di
Euripide costituiscono, nell’intenzione dell’autore, anche
un’accusa integrale e assoluta della città empia e marcia di Tebe,
acerrima nemica di Atene. Niente si salva in questo “paese guasto”:
non la politica, non la religione, non la famiglia. Agave che,
invasata da Dioniso, ha ucciso il proprio figliolo, ed esce di scena
maledicendo il Citerone contaminato (miarov~,
v. 1385) dal sangue di Penteo, dà voce all’orrore di Euripide e al
risentimento di tutti gli Ateniesi per il comportamento dei Tebani
durante le guerre persiane e le guerre tra i Greci. Si pensi al
processo di Platea[9].
Si
ricordi per giunta che dopo la battaglia di Egospotami, il
tebano Erianto suggerì di radere al suolo Atene e abbandonare la
campagna come pascolo alle pecore. Ma Euripide, che pure era già
morto da un paio di anni, salvò la sua città; durante un
convito un focese cantò alcuni versi della parodo
dell’Elettra (167ss.
“Figlia di Agamennone, sono giunta nella tua rustica casa”). A
sentire questa poesia, tutti i comandanti si intenerirono e sembrò
troppo crudele distruggere una polis così
illustre che produceva uomini tanto grandi (Plutarco, Vita
di Lisandro, 15).
Pasolini: “Egli (Dioniso) è venuto in forma umana a Tebe per portare amore (ma mica quello sentimentale e benedetto dalle convenzioni!), e invece porta il dissesto e la carneficina. Egli è l’irrazionalità che cangia, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dalla dolcezza all’orrore. Attraverso essa non c’è soluzione di continuità tra Dio e il Diavolo, tra il bene e il male (Dioniso si trasforma, appunto, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dal giovane pieno di grazia che era al suo primo apparire in un giovane amorale e criminale. Sia come apparizione “benigna” che come apparizione “maledetta”, la società, fondata sulla ragione e sul buon senso-che sono il contrario di Dioniso, cioè dell’irrazionalità-non lo comprende. Ma è la sua stessa incomprensione di questa irrazionalità che la porta irrazionalmente alla rovina, alla più orrenda carneficina mai descritta in un’opera d’arte. Sono gli I. M., per citare Elsa Morante, gli Infelici Molti, ossia la maggioranza, o la media, fondata sulla razionalità e sul buon senso, che non comprendono la grazia di Dioniso, la sua libertà, e, perciò, finiscono atrocemente nella strage: di cui peraltro la irrazionalità stessa è patrona. Quanti Péntei, nella nostra società…I Pentéi italiani sono dei mediocri, dei meschini imbecilli, neanche degni di essere dilaniati dalle Menadi ” (P. P. Pasolini, saggi sulla politica e sulla società).
Le Baccanti e Bernard Shaw (il maggiore Barbara)
Le Baccanti e Bernard Shaw (il maggiore Barbara)
Baccanti di Euripide, seconda antistrofe della Parodo
Ant b. O sede riposta dei Cureti
e sacrosanta dimora
di Creta dove nacque Zeus,
dove i Coribanti dal triplice cimiero
negli antri inventarono per me 125
questo cerchio di pelle tesa;
e nell’orgia bacchica lo mescolarono
al soffio concorde dal dolce suono
dei flauti frigi, e lo misero in mano
della madre Rea, strepito adatto alle grida delle menadi;
e Satiri pazzi 130
lo ottennero dalla dea madre
e lo adattarono alle danze
delle feste biennali,
delle quali gioisce Dioniso
Il suono del tamburello è considerato centrale anche dal professore di greco Adolph Cusins, il fidanzato di Barbara, maggiore dell’esercito della salvezza nella commedia di Bernard Shaw. Egli dice al futuro suocero, il padre di Barbara, ricchissimo fabbricante di armi: “You do not understand the Salvation Army. It is te army of joy, of love, of courage…It takes the poor professor of Greek, the most artificial and self-suppressed of human creatures, from his meal of roots, and lets loose the rhapsodist in him; reveals the true worship of Dionysos to him; sends him down the public street drumming dithyrambs”[10], Tu non capisci l’Esercito della Salvezza. E’ l’esercito della gioia, dell’amore, del coraggio… Porta via il povero professore di Greco, la più artificiale e autorepressa delle creature dal suo pasto di radici, e libera il rapsodo che è in lui; rivela in lui il vero cultore di Dioniso; lo manda nella pubblica strada a tambureggiare ditirambi.
[1] Non
sarà Dioniso a costringere le donne a essere
caste
nei confronti di Cipride, ma nel temperamento 315
(sta
sempre l’essere casto in tutte le occasioni sempre)
a
questo bisogna pensare: e infatti anche nei baccanali
quella
che è casta non si guasterà.
[3] E.
R. Dodds, Euripides Bacchae, pp. xlv-xlvii.
[4] La
componente istintiva, prima repressa, poi scatenata verso la
distruzione, mai applicata all'incremento della vita, porta Gustav
Aschenbach alla morte, preannunciata da una fantasia
onirica memore dei riti orgiastici delle Baccanti:"
Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello
vorticava; ira accecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua
anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme,
ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra
sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la
schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti,
singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e carezze
lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni,
leccando il sangue che colava sulle membra". T. Mann, La
morte a Venezia (del 1913) p. 139. Ndr.
[5]"
La natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società
feudale basata sulle caste" Schopenhauer, Parerga
e paralipomena (del 1851), Tomo I, p. 275.
[6] Non
sarà Dioniso a costringere le donne a essere/caste nei confronti di
Cipride, ma nel temperamento/(sta sempre l'essere casto in tutte le
occasioni sempre)/a questo bisogna pensare: e infatti anche nei
baccanali/quella che è casta non si guasterà (Baccanti, 314
318) ndr.
[7] Cf.
Murray, Euripide e i suoi tempi, , trad.
it. Laterza, Bari, 1932.
[8] G.
Murray, Euripides and his age, p. 197.
[9] L'episodio
di Platea nella
storia di Tucidide. Nell'estate
del 427 Platea, fedele alleata storica di Atene, ridotta allo stremo
delle forze, si arrese ai Peloponnesiaci. Sparta inviò cinque
giudici e istruì un processo. Si vede che già all'epoca i
vincitori giudicavano i vinti: i “santi di guerra” punivano i
“criminali di guerra”. I
Plateesi devono illustrare le proprie benemerenze per cavarsela:
ricordano innanzitutto la loro partecipazione alle guerre persiane,
soli tra i Beoti ("movnoi
Boiwtw'n", III, 54, 3).
Sostengono che se nella guerra in corso, minacciati dai Tebani e
respinti dagli Spartani, non hanno tradito gli Ateniesi i quali li
hanno soccorsi, non hanno commesso ingiustizia. I Tebani, che li
odiano, all'epoca parteggiarono per i barbari. I Plateesi dunque si
appellano, nobilmente, all'onore degli Spartani che rimarebbe
macchiato da un eccidio tanto ingiusto: "bracu;
ga;r to; ta; hJmevtera swvmata diafqei'rai, ejpivponon de; th;
duvskleian aujtou' ajfanivsai",
III, 58, 2), è un attimo distruggere i nostri corpi, ma sarà
faticoso cancellarne il disonore. Viene ancora impiegato il
linguaggio aristocratico dell'onore e quello religioso
della pietas tradizionale
che ingiungeva di non ammazzare i supplici:" oj
de; novmo" toi'" {Ellhsi mh; kteivnein
touvtou" ( III, 58,
3). Quindi
parlarono i Tebani perorando lo sterminio dei Plateesi con
l'argomento che essi sono sempre stati complici degli Ateniesi
oppressori dei Greci. Dei Plateesi soltanto ammazzarono non meno di
duecento uomini ("dievfqeiran
de; Plataiw'n me;n aujtw'n oujk ejlavssou" diakosivwn",
III, 68, 3), degli Ateniesi venticinque, quelli che erano rimasti
con loro nell'assedio. Le donne vennero fatte schiave.
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