Rembrandt, Colloquio di sapienti |
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L’approccio comparativo alle
letterature antiche. Parte 6
Percorso della conferenza che
tenuta il 26 gennaio 2019 per la Valent Academy centro studi
internazionali di Milano con la partecipazione di studenti e professori
del liceo Manzoni
L’approccio comparativo alle
letterature antiche
Introduzione alla metodologia
dell’insegnamento delle lingue e letterature greca e latina con taglio europeo
e topologico
Sentiamo anche Nietzsche:
“Guardatevi anche dai dotti! Essi vi odiano: perché sono sterili! Essi hanno
occhi freddi e asciutti, davanti a loro ogni uccello giace spennato”[1].
“Di fronte al genio, cioè ad un
essere che crea o che dà alla luce… il dotto, l’uomo medio della scienza, ha
sempre qualcosa della vecchia zitella: in quanto, come quest’ultima, non ha la
minima idea di queste due funzioni umane, che sono le più preziose… il suo
occhio assomiglia allora a un lago liscio e odioso, la cui onda non si increspa
a nessun entusiasmo, a nessuna simpatia. Ma le cose peggiori di cui un dotto è
capace, gli provengono dall’istinto della mediocrità, propria della sua razza;
da quel gesuitismo della mediocrità che inconsciamente lavora alla demolizione
dell’uomo eccezionale e tende a spezzare ogni arco teso o, meglio ancora, ad
allentarne la tensione.”[2]
Dotti sono considerati i
filologi: una razza disprezzata da Nietzsche:
“L’antichità è stata scoperta in
tutte le cose principali da artisti, uomini politici e filosofi, non da
filologi, e ciò fino al giorno d’oggi”[3].
“I filologi non sono se non
liceali invecchiati”[4]. A volte addirittura dei
ginnasiali ammuffiti. Del resto spesso nelle scuole, almeno al tempo del mio
scolarato e del mio faticoso apprendistato di insegnante, nelle scuole si
spacciavano per filologi quanti si limitavano a ripetere declinazioni,
coniugazioni, regole con eccezioni dei manuali e paradigmi del vocabolario.
Molti non erano in grado di raccontare nemmeno i contenuti delle opere più
importanti dei massimi autori.
L’insegnante bravo è quello che
non solo ha letto, studiato e imparato molto ma ha vissuto, gioito e sofferto e
amato molto.
A lui molto sarà perdonato.
Sentiamo i ricordi di Fellini
studente: "La scoperta, la conoscenza del mondo pagano che si acquisisce a
scuola, ad esempio, è di tipo catastale, nomenclativo, favorisce con quel mondo
un rapporto fatto di diffidenza, di noia, di disinteresse, al massimo di una
curiosità casermesca, abietta, un po' razzistica, comunque di cosa che non ti
riguarda"[5].
In un altro libro il regista
riminese racconta di un insegnante impreparato che si riempiva di ridicolo:
" Il professore era comicissimo quando pretendeva che dei mascalzoni di
sedici anni fossero presi da entusiasmo perché lui declamava con la sua vocina
l'unico verso rimasto di un poeta: "Bevo appoggiato sulla lancia"[6]; e io allora mi facevo promotore di ilarità sgangherate
inventando tutta una serie di frammenti che andavamo sfacciatamente a
riproporgli"[7].
La chiave è proprio questa: far
capire e sentire ai giovani che quel "mondo pagano" li riguarda.
Certamente l'attenzione degli studenti ha un prezzo molto alto, quello della
nostra preparazione che per essere buona richiede grandi rinunce e sacrifici.
Josef Knecht durante il suo
apprendistato nel mondo spirituale della Castalia "imparò che un po' di
questa capacità di attirare e d'influenzare gli altri è parte essenziale delle
doti di un insegnante e di un educatore, e che nasconde pericoli e impone certe
responsabilità"[8].
La grammatica serve a leggere i
testi, la metrica aiuta a memorizzarli. Io credo le cosiddette regole
grammaticali e sintattiche andrebbero mostrate attraverso i testi più belli
degli autori più bravi, siccome la bellezza e la perizia colpiscono la sfera
emotiva e questa potenzia la memoria favorendo il ricordo.
Del resto le regole non possono
essere date all'ingrosso: "Qualcuno, chissà chi, v'ha scritto perfino una
grammatica. Ma è una truffa volgare. A ogni regola ci vorrebbe la data e la
regione dove si diceva così"[9].
Ricordo che nella primavera del
1959, quando facevo la quarta ginnasio al Terenzio Mamiani di Pesaro, venne in
classe il preside, tal Michelangelo Marchi, e mi domandò, con aria severa, come
si dicesse fato in latino. Voleva sapere, aggiunse, se meritavo il nove che
aveva appena letto nella mia pagella.
Risposi "fatus".
"Bugiardo! gridò quel brav'uomo, rosso in volto, quasi in preda all'ira.
Poi, calmatosi, disse che l'avevo deluso, che con la mia colossale ignoranza
l'avevo ferito, e profondamente, dato che con la valutazione chissà come
ricevuta avrei dovuto sapere che si dice fatum, fatum,
assolutamente fatum. Ci restai molto male, pensando di avere fatto
un errore gravissimo, del tutto indegno di me, del mio curriculum e
dell’onore che me ne derivava.
In effetti se fossi stato più
bravo, avrei replicato che nel Satyricon si trova fatus[10].
Anche questo episodio si può
togliere se dà fastidio.
Il fatto che il greco e il latino
siano stati insegnati male per decenni, da troppi docenti, e digeriti male da
molti studenti, non deve portarci alla conclusione che il loro studio vada
abolito. Va piuttosto riformato e approfondito. Magari anche esteso.
Il latino e, attraverso la
mediazione del latino, il greco, sono largamente presenti nel linguaggio e nel
pensiero, del diritto, della medicina, delle letterature nell’Europa moderna
sia neolatina dal Portogallo alla Romania, sia germanica, dalla Gran Bretagna alla
Svezia, sia slava dalla Slovenia alla Russia, e pure nella zona ugrofinnica,
dall’Ungheria - Pannonia alla Finlandia.
Le lingue classiche hanno
contribuito a formare gli idiomi colti dell’Europa di oggi. In Grecia il
moderno demotico non sarebbe nato senza la continuità con il greco colto antico
e medievale.
Una lingua germanica come
l’inglese è profondamente latinizzata: il 75% del suo vocabolario è latino e
neolatino. In Italia il prevalere del fiorentino antico sugli altri dialetti è
stato in gran parte determinato dalla sua prossimità al latino.
“L’orientamento verso il toscano
in via d’essere assunto dalle élite colte a lingua nazionale fu certamente
facilitato da un altro fattore, che del resto incise anche altrove: la
prossimità originaria del toscano al latino, che era la lingua ufficiale della
Chiesa controriformata ed era più pervasivamente presente nella città, dove
monache, preti e frati spesseggiavano”[11]. Come
l’inglese, “lingua d’origine germanica profondamente latinizzata”[12], l’italiano è poco chiaro per chi lo usa senza la
capacità di orientarsi nel retroterra classico. Si pensi alla presenza di
Seneca e di Plutarco in Shakespeare (tradotto in inglese da T. North).
T. S. Eliot trova delle analogie
tra i personaggi di Seneca e quelli di Shakespeare precisamente nel loro
arroccarsi dentro la propria individualità: "Nell'Inghilterra
elisabettiana si hanno condizioni in apparenza affatto diverse da quelle di
Roma imperiale. Ma era un'epoca di dissoluzione e di caos; e in tale epoca, qualsiasi
attitudine emotiva che sembri dare all'uomo alcunché di stabile, anche se e
soltanto l'attitudine di "io sono solo me stesso", è avidamente
assunta. Ho appena bisogno di segnalare quanto prontamente, in un'epoca come
l'elisabettiana, l'attitudine senecana dell'orgoglio, l'attitudine montaigniana
dello scetticismo, e l'attitudine machiavellica del cinismo giunsero a una
specie di fusione nell'individualismo elisabettiano. Questo individualismo,
questo vizio d'orgoglio, fu, necessariamente, sfruttato molto a causa delle sue
possibilità drammatiche... Antonio dice "Sono ancora Antonio"[13] e la Duchessa "Sono ancora Duchessa di
Amalfi"[14]; avrebbe sia l'uno che l'altro detto
questo se Medea non avesse detto Medea superest?"[15].
La nostra cultura politica e
anche la nostra Costituzione vengono chiarite e rese più comprensibili dalla
lettura di quelle raccontate dal secondo discorso di Pericle, il lovgo~ ejpitavfio~,
nelle Storie di Tucidide (II, 35 - 46). Cfr. in particolare
l’articolo 3, comma B.
L’articolo 3 è forse il più noto:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di condizioni personali e
sociali.
Comma B. E’ compito della
repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando
di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
alla organizzazione politica, economica e sociale del paese”.
Sentiamo ora il Pericle di
Tucidide.
In effetti ci avvaliamo di una
costituzione che non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di
esempio (paravdeigma)
a qualcuno piuttosto che imitare gli altri. Di nome, per il fatto di essere
amministrata non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia; e
di fatto secondo le leggi, riguardo alle controversie private, c’è una
condizione di uguaglianza (to; i[son) per tutti, però
secondo la reputazione, per come ciascuno viene stimato in qualche campo, non
per il partito di provenienza (oujk ajpo; mevrouς) più che per il
suo valore, viene preferito alle cariche pubbliche, e d’altra parte secondo il
criterio della povertà (au\ kata; penivan), se uno può fare
qualche cosa di buono per la città, non ne è mai stato impedito per l’oscurità
della sua posizione sociale (ajxiwvmatoς ajfaneiva/ kekwvlutai II,
37, 1).
Sul tradurre
Cicerone afferma che nel tradurre
non è opportuno attenersi alla lettera, ma si deve piuttosto interpretare
l’originale: “Nec tamen exprimi verbum e verbo necesse erit, ut interpretes
indiserti solent” (De finibus bonorum et malorum III, 15), non
sarà del resto necessario che si traduca parola per parola, come sono soliti i
traduttori stentati.
In un passo degli Academica,
l’Arpinate afferma che i poeti arcaici, Ennio, Pacuvio, Accio, e molti altri,
piacciono “qui non verba, sed vim Graecorum expresserunt poetarum” (III,
10), in quanto essi resero non le parole ma la forza dei poeti greci.
A parer mio, invece, se non
traduci le parole non puoi esprimerne la forza o magari la debolezza, se la
forza non c’è.
Comunque le scelte dell’autore
vanno rispettate tutte, anche quelle che non ci piacciono. La traduzione tende
spesso ad avvicinare al significato più banale l’innovazione linguistica
dell’autore che rompe il luogo comune, e manifesta la propria originalità: per
esempio la traduzione di fwnh'/ ga;r oJrw' di Edipo
a Colono (v. 168) sentita al teatro greco di Siracusa nel maggio 2018
era “io vedo ciò che sento”, una banalizzazione, una riduzione alla banalità
linguistica delle parole di Sofocle che tradotte una per una suonano: “alla
voce infatti vedo”. A me sembranp molto migliori queste e ho sentito quella
traduzione come una stonatura, il plhmmelev" denunciato
da Socrate in Fedone 115e.
In altri casi l’espressione
chiara e perspicua viene resa oscura. Come fece Sanguineti con un Ippolito di
Euripide reso in un italiano incomprensibile al pubblico. Potei constatare
anche questo difetto a Siracusa qualche anno fa. So bene che certe strutture
sintattiche del greco e del latino non sono riproducibili specularmente
nell’italiano[16], ma ritengo che le parole dell’autore
debbano esserci tutte finché l’italiano è comprensibile.
Io mi trovo d’accordo piuttosto
con Leopardi.
Almeno quando si insegnano le
lingue si deve tradurre in modo da rendere evidente la corrispondenza tra le
parole dell’idioma di partenza e quelle della lingua d’arrivo. In ogni caso lo
esige il rispetto dell’autore.
So bene che certe strutture
sintattiche del greco o del latino non sono riproducibili specularmente
nell’italiano, come aveva fatto Sanguineti mantenendo in certi casi perfino
l’ordine delle parole.
Queste del resto nella traduzione
devono esserci tutte.
Leggiamo qualche riga dello
Zibaldone sulla traduzione perfetta: “La perfezione della traduzione consiste
in questo, che l’autore tradotto, non sia p.e. greco in italiano, greco o
francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o
in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue e
possibile” (2134).
La lingua italiana, la quale è
“piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica”,
ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme straniere (…)
Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si
accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perché alle
forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che
qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio,
ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per
ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di
natura e di carattere” (Zibaldone, 964 e 965).
“Amava moltissimo l’italiano
perché era una lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte
lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare
ogni stile. Se ebbe sempre molte riserve sulla metafisica, la morale e la
cosmogonia di Platone, la sua ammirazione per il Fedro non aveva limiti.
Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere lingue”; la prima
nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due orazioni di Lisia e
Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode dell’amore”[17].
Ma sentiamo direttamente Leopardi
su questo: “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della
lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua
sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in
uno stesso libro, legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre
stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il dialogo tra
Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due
orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza
nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717)
CONTINUA
[1] Così
parlò Zarathustra, Dell’uomo superiore, 9
[2] Di
là dal bene e dal male, Noi dotti.
[3] Frammenti
postumi ottobre 1876 (4).
[4] Op.
cit (6)
[5] F.
Fellini, Fare un film, p. 101
[6] Si
tratta di una parte del pentametro del fr. 2D. di Archiloco costituito da un
distico elegiaco. Non è "l'unico verso rimasto" del poeta vissuto nel
VII secolo a. C.
[7] F.
Fellini, intervista sul cinema, p. 136.
[8] H.
Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, p. 155.
[9] Scuola
di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 116.
[10] Dopo
avere mostrato qualche trovata stupefacente, Trimalchione affranca i servi e
nomina erede Fortunata. Gli schiavi sono uomini, proclama l'anfitrione
rimasticando dottrine stoiche: "et servi homines sunt et aeque unum
lactem biberunt, etiam si illos malus fatus oppresserit. tamen me salvo cito aquam
liberam gustabunt. Ad summam, omnes illos in testamento meo manu mitto "
(71), pure gli schiavi sono esseri umani e hanno bevuto lo stesso latte, anche
se un destino cattivo li ha schiacciati. Comunque, mi venisse un colpo, presto
assaggeranno l'acqua libera. Insomma tutti quelli li affranco nel mio
testamento. Si noti dunque fatus invece di fatum.
Non e l'unico caso del genere: troviamo balneus (41) per il neutro balneum,
bagno; vinus (12) per vinum; caelus (45, 3)
per caelum; lasanus (47, 5) per lasanum, vaso da
notte.
[11] Tullio
De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicans dal 1946 ai
nostri giorni (Editori laterza, Roma Bari 2014), p. 29
[13] "I
am Antony yet ", Antonio e Cleopatra (del 1606 -
1607), III, 13.
[14] Da La
duchessa di Amalfi (del 1614), di J. Webster (1580 - 1625).
[15] Shakespeare
e lo stoicismo di Seneca, in T. S. Eliot Opere, p. 800.
Medea superest e in Seneca, Medea, v. 166
[16] Per
esempio ejxoidj ajnh; r w[n dell’Edipo
a Colono non si può tradurre “so essente uomo, o so essendo uomo”.
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