Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo (Einaudi, Torino, 2019)
Presenterò l'intero volume l'11 aprile alla Sapienza di Roma (sala Odeion)
Il problema della lingua (pp. 14-28)
Si tratta di “ritrovare una
parola potente quanto quella che ancora risuona negli auctores classici”. “E rinascita significa non tanto far risorgere
un passato (che mai, appunto, viene sentito o studiato come tale), ma “risvegliare il presente”
Lo chiede anche Leopardi nella
canzone Ad Angelo Mai: “o scopritor
famoso,/segui, risveglia i morti, poi che dormono o vivi” (vv.175-177).
“E’ questo tempo che occorre
destare a nuova vita anche attraverso la re-novatio dell’Antico; a questo tempo, al
suo dramma, alle sue attese, è necessario dare
parola, e una parola potente
quanto quella che ancora risuona negli auctores
classici” (p. 15).
“L’epoca è ancora come non
parlasse, come non fosse dotata del logos
necessario ad affrontare il proprio dramma. Questo logos, dunque, è necessario costruire, facendo nostri,
interiorizzandoli, i paradigmi e i modelli che individuiamo operanti nei
‘migliori fabbri’, nelle loro arti,
in tutto lo spessore etimologico del termine, e che per questo rappresentano il
nostro portante passato. I testi in
cui esso ha trovato la più degna
espressione (dignitas ha anzitutto un
timbro etico-politico) sono fondamento imprescindibile del cammino che deve ora essere intrapreso (…) perciò per
essi occorre avere ogni cura, nient’affatto servile o ‘superstiziosa’, bensì
per commentarli e, oltre ancora, interpretarli” p. 16)
La renovatio
necessaria è quella di ridestare la forza espressiva di parole che rivelino
idèe mostrando immagini “Filologia immanente nell’idea di renovatio. Ri-forma che è cammino, progetto, filosofia nuova-e
nuova proprio in quanto consapevole che non si dà idea se non nell’espressione linguistica,
che l’idea vale in quanto comunicata con passione e precisione in uno, e che
l’idea, nella forma linguistica, è anche
immagine, partecipa sempre alle dimensioni metaforiche del linguaggio, il
che significa, come vedremo, alla sua sostanza poetica” (p. 17).
“Una simile filosofia del
linguaggio si annuncia con il De vulgari
eloquentia (…) Senza l’enfasi che
ritroviamo in certe pagine dell’Umanesimo (la lingua latina ‘come un Dio
inviato dal cielo (…) pegno di una divina volontà’ dell’Introduzione alle Elegantiae di Valla!) e senza pregiudizi
‘idealistici’ nei confronti della lingua scritta, letteraria, Dante tuttavia
afferma che per forgiare il volgare come un’arma potente è necessario tenere a
mente il paradigma fornito dal latino” (p. 19).
Credo che la maggior parte degli
auctores successivi abbiano tenuto a
mente tale paradigma e non pochi tra gli ottimi autori anche di quello del
greco già raccomandato da Orazio quando nell’Ars poetica prescrive: “vos
exemplaria Graeca/nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268-269), voi
leggete e rileggete i modelli greci, di notte e di giorno.
Per quanto riguarda il latino,
ricordo alcune parole di Vittorio Alfieri il quale scrive che “al far tragedie
il primo sapere richiesto, si è il forte sentire, il qual non s’impara.
Restavami da imparare (e non era certo poco) l’arte di fare agli altri sentire
quello che mi parea di sentir io” (…) Bisognava creare una giacitura di parole,
un rompere sempre variato di suono, un fraseggiare di brevità e di forza (…) I
giambi di Seneca mi convinsero di questa verità, e forse in parte me ne
procacciarono i mezzi.”. (Vita. Epoca
quarta, Capitolo secondo).
Torniamo a Cacciari e a Dante:
“Dante non cerca un altro latino, ma la lingua capace di dar forma alla sua
esperienza del tempo, che la ‘eternizzi’ senza smarrirne l’intensità, il pathos. Virgilio è norma di ciò che tale
lingua deve essere (…) Due soli, perciò, inseparabili, latino e volgare
illustre, come immanenti l’uno all’altro”. La grammatica è indispensabile, per
evitare il pericolo del fraintendersi
“Se il nostro dire non assumesse
“quaedam inalterabilis idemptitas” (De vulgari, I, 9) quale dialogo
pubblico, quale colloquio potrebbe concepirsi? (…) Non si dà colloquio se non
alla luce di un volgare che sappia latinamente costruirsi (…) ma quel colloquio
è arte. Chi ne è il fabbro? E’ il poeta che battendo e ribattendo sulla propria
incudine la lingua matrice ne trae il volgare illostre” (p. 20).
“Il poeta
fonda; il grammatico ordina e interpreta. Straordinario valore attribuito
al linguaggio poetico, presupposto della considerazione di ogni sua qualità
estetica; primato ontologico, direi, della poesia nella formazione di una
comunità linguistica, cioè di una civitas
hominis” (p. 21).
Credo che questa riflessione
debba venire in mente a quanti insegnano le lingue: dopo il doveroso approccio
grammaticale, gli idiomi vanno insegnati attraverso le espressioni sintetiche,
belle e potenti dei poeti. La bellezza infatti è memorabile dal momento che
colpisce la sfera emotiva e suscita pathos poiché lo contiene; la potenza della
parola poetica viene avvertita come potenziamento di chi la conosce, e l’originalià
delle parole, insperata atque inopinata verba[1], gli
accostamenti attenti (cfr. callida
iunctura in Orazio, Ars, 47-48) suscitano
quello stupore dal quale secondo Aristotele nasce la filosofia: "dia; ga;r to; qaumavzein oiJ a[nqrwpoi kai; nu'n
kai; to; prw'ton h[rxanto filosofei'n". Dallo qaumavzein non nasce solo la filosofia ma
anche la poesia e tutta la cultura. Il filovsofo~
infatti è anche filovmuqo~ poiché il
mito è composto da elementi che suscitano meraviglia oJ ga;r mu'qo~ suvgkeitai ejk qaumasivwn (Metafisica, 982b).
“Che il linguaggio retorico e
poetico disponesse, come suoi mezzi specifici, di metafora e allegoria è costante
coscienza di tutta la letteratura romanza”, ma in nessun luogo prima di Dante
esse sono chiamate a ‘oltrepassarsi’ per dar voce a un’idea
filosofico-teologica, idea che in forma poetica soltanto potrebbe essre espressa”
(p. 22) .
L’autore ricorda “il grande prosimetro di
Alano di Lilla[2] Anticlaudianus, opera profondamente connessa alla scuola di
Chartres” e i confronti che sono stati fatti con il poema dantesco.
Il paragone tra il viaggio di
Dante nell’aldilà e altri itineraria dal
genere “non fanno che porre in evidenza l’assoluta novità filosofico teologica
dell’allegorismo della Commedia. In
Alano l’idea o il significato dell’allegoria risultano perfettamente
esprimibili attraverso forme discorsive. Il senso
allegorico è trasponibile in ogni suo elemento a un senso letterale e, al più, tropologico-morale.
Il problema, con Dante-e che da Dante trapassa alla teologia poetica
dell’Umanesimo- si pone invece in questi termini: metafora e allegoria possono
far conoscere qualcosa che non potrebbe essere compreso-rappresentato
attraverso concetti? In Alano l’allegoria è solo in verbis; palese l’intenzione dell’autore di conferire a un
referente un significato diverso da quello comune” (p. 23)
Non molto diversamente è
considerata da Aristotele la metafora quando nella Poetica fornisce delle indicazioni sul linguaggio poetico: "Levxew~ de; ajreth; safh' kai; mh; tapeinh;n
ei\nai” (1458a, 18 ), pregio del linguaggio è essere chiaro e non
pedestre.
Il poeta è libero di variare
rispetto all’usuale. Il linguaggio si scosta dall’ordinario quando usa
espressioni peregrine: “xeniko;n de; levgw
glw'ttan kai; metafora;n kai; ejpevktasin kai; pa'n to; para; to; kuvrion”
(1458a, 22 ), con peregrino intendo la glossa, la metafora, allungamento e ogni
forma contraria all’usuale. Glossa è la locuzione non comune, quella di cui non
tutti fanno uso (1457b, 4). Metafora è il trasferimento del nome da una cosa a
un’altra: “metafora; dev ejstin ojnovmato~
ajllotrivou ejpiforav” (1457b, 7).
“Esiste, invece, una forma di
allegoria che non stia in verbis o in sermone,
e che assuma un valore filosofico-teologico insostituibile? Sappiamo bene come
la teologia avesse profondamente elaborato tale problema, anzitutto proprio da
parte di quei dottori della Chiesa che saranno tra i più citati e amati
dall’umanesimo, da Clemente a Origene. I fatti della historia sono per loro comprensibili soltanto come figure della salvezza. La storia è historia
salutis e le sue figure figurae
futuri; esse significano, cioè, Christum
venturum esse”. (p. 23)
Auerbach fa risalire tale
interpretazione figurale a Tertulliano che “Nello scritto Adversus Marcionem, 3, 16, parla di Hosea, figlio di Nun, che da
Mosè è chiamato Giosuè (da 4 Mos.,
13, 16): “ …et incipit vocari Jesus…Hanc prius dicimus figuram futurorum fuisse”
(…)
Si tratta qui della
denominazione Giosuè-Gesù, come processo profetico che preannuncia fatti
successivi. Come Giosuè, e non Mosè, condusse il popolo d’Israele nella terra
promessa della Palestina, così è la grazia di Gesù, e non la legge ebraica, che
porta il “secondo popolo” nella terra promessa della beatitudine eterna (…)
Il tipo di interpretazione
mirava a vedere nelle persone e nei fatti dell’Antico testamento figure o
profezie reali della redenzione del Nuovo”[3]
Auerbach subito dopo precisa che
Tertulliano “non vuole affatto intendere l’antico Testamento come mera
allegoria; esso ha sempre un senso letterale e reale, e anche là dove c’è una
profezia figurale la figura ha una realtà storica pari a quella di ciò che
profetizza”.
“I testi di profeti e Sibille (e
perché non anche di vati e poeti?) esigono un’intelligenza spirituale, capace di riportarli-riferirli all’Evento
che costituisce non solo l’unità delle Scritture, ma il centro che decide la
storia umana” (p. 23)
La forma allegorica non è
destinata a tacere con la rivelazione del Cristo, e il verbum che descrive un evento reale carico di un significato ancora
nascosto, non diviene “per nulla un mero passato, quando si sia giunti all’Ora ultima rappresentata dall’evento
dell Croce. Anzi, per un aspetto decisivo, tale forma si rende ancora più
necessaria. Necessario è ancora un Sagen,
una profetica sagacitas, indispensabile
un dire nella forma dell’anagogia, perché tre decisive dimensioni della historia salutis non potrebbero venire
altrimenti esposte: la prima concerne gli stessi mysteria dell’inizio, dell’arché,
ovvero i bathe tou theou, gli abissi
della divinità; la seconda la storia
delle origini; “non si metta in dubbio la realtà del Paradiso terrestre”,
decreta Agostino in De genesi ad litteram,
esso è reale locus hominis (…) la
terza riguarda i Novissima. La parousia e il Giorno del Signore possono
essere rappresentati solo attraverso figurae
futuri, analogamente a come i profeti presagivano l’Evento” (p. 24)
Penso alle Baccanti di Euripide il cui Evento viene presagito da Tiresia, il
profeta di Tebe appunto, il quale dice a Penteo, il re di Tebe ostile al nuovo
dio e alla religione da lui importata dall’Asia:
“Io dunque e Cadmo, che tu
deridi,
ci incoroneremo d’edera e
danzeremo,
coppia canuta, ma tuttavia
bisogna danzare,
e non combatterò contro un dio
persuaso dalle tue parole.
Infatti tu sei matto nel modo
più doloroso, e non potresti trovare
rimedio nei filtri, né senza questi
sei malato” (vv. 322-327).
L’evento profetizzato in questa tragedia però
è tutt’altro che la crocifissione del Dio figlio di Zeus e di Semele, figlia di
Cadmo. I versi nei quali Agave, la madre di Penteo, sbranato dalle Menadi,
riconosce e piange lo smembramento del figlio sono probabilmente il modello di
quelli pronunciati dalla Madonna per la morte del figlio. Le parti dunque sono
ribaltate
Manca la risposta di Cadmo[4].
Dunque c’è una lacuna dopo il v. 1300. “Il retore Apsin, collocabile nel III
sec. d. C., ricordava-riferendosi al testo euripideo ancora integro-la reazione
di Agave in quest’ultima parte del dramma: “dopo essersi liberata dalla follia
e aver riconosciuto il figlio fatto a pezzi, ella si accusa e suscita pietà nel
pubblico…prendendo ogni membro nelle sue mani, la madre leva un lamento su
ognuno (587-590 Waltz=318-322 Hammer). A tale scena appartenevano
presumibilmente il frammento euripideo 847 Kannichr-che doveva essere
pronunciato da Agave: “se io non avessi preso tra le mani questo orrore”-nonché
le parole ravvisabili in alcuni lacerti papiracei (P. Ant. 24).
Riscontri si rinvengono nel
centone del Christus patiens[5] (cfr. in
particolare vv. 1256-1257, 1311-1314, 1466-1472), ove il lamento della Madonna
sul cadavere del figlio crocifisso riadattava la disperazione di Agave alla
scena evangelica della deposizione e della sepoltura: “Chi è questo cadavere
che tengo tra le mani? Povera me, come farò a stringerlo al petto e a rendergli
i dovuti onori? Come intonerò il lamento?”, “Come abbracciare ad una ad una
queste membra, queste carni che io stessa ho nutrito?”, “Su, sistemiamo come si
deve la testa, ricomponiamo tutto il corpo, distendiamolo bene, per quanto è
possibile. O viso amatissimo, o giovani guance, ecco, copro con questo velo la
tua testa, le tue membra grondanti di sangue”.
Molti degli editori ritengono
che tali passi, insieme ai frammenti sopra menzionati, dovessero appartenere
all’ulteriore e più estesa lacuna riconoscibile dopo il v. 1329 delle Baccanti in cui si produceva anche
l’epifania di Dioniso come deus ex
machina (gli stessi vv. 1300-1301 venivano trasportati da Wilamowitz dopo
il v. 1329). Ma essi appaiono ugualmente plausibili qui[6],
tanto più che le successive parole di Cadmo-la lode di Penteo pronunciata
“guardando il capo” del nipote (vv. 1310-1311) fanno supporre che il cadavere
sia ormai sistemato e che la testa sia stata collocata al suo posto (così
Seaford). Ponendo qui la scena della ricomposizione e del lamento-quale climax dell’emozione tragica-si può inoltre
ipotizzare che la lacuna dopo il v. 1329 riguardasse essenzialmente la comparsa
del dio”[7].
.
Torniamo a Cacciari. Anche ora, pur nella certa
speranza che i tempi della parousia
verranno, “tuttavia tanto l’Inizio come il Fine mai potrebbero essere oggetto
di una descrizione obiettiva, di un discorso concettualmente articolato, o
riportati a un senso letterale. Essi possono essere conosciuti soltanto nella
forma di una magistralis sagacitas
allegorico-anagogica[8]” (p.
25)
“Ancora la lettera deve farsi segno della realtà
spirituale, di cui altrimenti potremmo soltanto tacere”.
Il linguaggio poetico che sta crescendo nello stesso
volgare “può assurgere a una sapientia
(a un sapere prossimo davvero al frui) superiore alla scientia teologica. Senza la potenza dell’immagine,
che da metafora e allegoria si fa evidenza simbolica, non potrebbero trovare
espressione il Primo e l’Ultimo della historia
salutis” (p. 25).
Mi viene in mente la historia salutis ricavabile da opere greche che trattano la
cosmogonia come per esempio la
Teogonia di Esiodo
o il Prometeo incatenato: anche da
queste opere si vede come “Le profondità di Dio non possono essere pensate,
‘speculate’ diremmo, che attraverso immagini, nell’immagine”. Ovviamente mutato mutando ossia Zeus con Dio, o viceversa
“Da qui si origina la profonda diffidenza
dell’Umanesimo nei confronti della teologia scolastica e, insieme, si spiega,
il ruolo essenziale che svolgono nel suo pensiero il motivo artistico-poetico e
l’interesse per la facoltà immaginativa dell’anima, la quale giace sì, longe a Deo, ma giunge fino a
rappresentare le realtà mondane come segni,
figure di quella sovra-essenziale” (25).
Cacciari
segnala opere di arti figurative che rappresentano direttamente in immagini la
storia sacra e la storia dell’umanità: ut
pictura poesis (cfr. Orazio, Ars
poetica, 361) e viceversa. Nelle pagine finali del volume si trovano 16
tavole con le riproduzioni di queste pitture e sculture accompagnate ciascuna
da un pregevole commento che riferirò.
“Il linguaggio allegorico-simbolico non sarà, per il
neoplatonismo fiorentino, che l’espressione dell’inesauribile farsi- prossimi
al Bene in sé indicibile, la capacità dell’anima di trasporsi dalla lettera allo Spirito che la vivifica, dal visibile,
all’Invisibile. Senza però che in questo trasporsi-superarsi la lettera, il
visibile, la loro carne vengano, alla
fine, come dimenticati” (26).
Questo secondo me è in gran
parte merito della lezione dei Greci: senza la carne mancherebbe l'elemento concreto indispensabile per un
conoscitore e amante della cultura greca: "il realismo, in arte, è greco;
l'allegorismo è ebraico", ebbe a scrivere Pavese[9].
L’inventio del poeta deve trovare la parola come “segno di ciò che
eccede lo stesso esprimibile-rappresentabile (…) La poesia è divina quando la
sua parola appare segno dell’Invisibile (…) quando lo illumina-illustra e ne è illuminata. La poetria mystica vedrà nella ‘irrapresentabilità stessa della Luce,
la più verace figura futuri. Per
Roberto Grossatesta[10] la Luce , che pure è corpo, anzi:
“forma corporea prima” (De luce),
vale a un tempo anche come la facies
del divino a noi rivolta, figura mondana della Gloria” (p. 26).
Che il Sole sia nel visibile
quello che è l’idea del Bene nell’intellegibile lo ha scritto Platone e ripetuto
Giuliano Augusto
Giuliano, A Helio re, 5
L’Uno e{n che sembra presistente a tutte le cose o il Bene tajgaqovn per usare l’espressione di
Platone, è il principio unitario causa di tutto hJ
monoeidh;" tw'n o{lwn aijtiva, ed è fonte di bellezza, perfezione,
unità, ha originato da sé , quale mediatore al centro tra le cause mediatrici mevson ejk mesw'n intelligenti e
demiurgiche, Elio, dio potentissimo in tutto simile a sé- ajnevfhnen ejx eJautou' pavnta o{moion eJautw'/.
Quindi Giuliano cita Platone (Repubblica 508b)
Il Sole è figlio del Bene to;n tou' ajgaqou'
e[gkonon, che il Bene generò analogo a se stesso o{n tajgaqo;n ejgevnnhsen ajnavlogon eJautw'/: quello che è
il Bene ejn tw'/ nohtw'/
nell’intellegibile, è il Sole ejn tw'/
oJratw'/, nel
Visibile.
6 La sua luce nel visibile -to; fw'" pro;" to; oJratovn- è
analoga alla verità nell’intelligibile
pro;" to; nohto;n ajlhvqeia.
Il Sole dunque è figlio dell’Idea che è il
primo e massimo bene e fornisce agli dèi intelligenti toi'" noeroi'" qeoi'" quanto il bene produce
per gli dèi intelligibili toi'"
nohtoi'".
Si può pensare anche a Francesco
d’Assisi
nel Cantico delle creature il santo celebra fra tutte le creature di
Dio " spetialmente messor lo frate sole/lo quale è iorno, et allumini noi
per lui./E ellu è , bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo,
porta significatione".
Questa riconoscenza per il sole
interpretato quale Dio, o quale immagine visibile di Dio, come si vede,
percorre vari momenti della letteratura europea.
Nella Commedia di Dante il sole è il “pianeta/che mena dritto altrui per
ogni calle” (Inferno, I, 17, 18). La
luce del sole dunque è il simbolo della grazia divina e guida verso la
salvezza; infatti la lupa simbolo dell’avarizia risospingeva Dante “là dove il
sol tace” (v. 61).
Nel Purgatorio torna tale identificazione del sole con la grazia divina
in questa preghiera di Virgilio:
" O dolce lume a cui
fidanza[11] i’
entro
Per lo novo cammin, tu ne
conduci,
-dicea-, come condur si vuol
quinc’entro
Tu scaldi il mondo, tu sovr'esso
luci:
s'altra ragione in contrario non
pronta,
essere dien sempre li tuoi raggi
duci"(Purgatorio , XIII, 19-21).
La preziosa parte iconografica
del libro di Cacciari riporta un “Francesco,
pittura murale, prima del 1224. Subiaco, Sacro Speco”.
Il commento dice: “Forse nessuna
successiva immagine come questa prima è ritratto
di Francesco più spiritualmente autentico e più prossimo al significato del sermo humilis. Da qui nasce il realismo
della figura, santità che si incarna
fino alla Croce, secondo un cammino complementare e opposto a quello di
Bisanzio, dove la croce ‘sublima’ il Christus
patiens, ne contempla la carne solo sub
specie resurrectionis. Confronto epocale e in tutti i sensi decisivo tra
due mistiche e due visioni del mondo” (tavola 2)
La teologia scolastica
considerava la poesia tutta cognitio
minor e “le opere dei poeti pagani
integumenta mendaci, sotto il cui velo nessuna verità si nasconde”
Ma c’è un altro punto di vista
di straordinaria novità senza il quale “mai la ‘rinascita dell’Antico’ e gli studia humanitatis avrebbero potuto
assumere tra Dante e l’Umanesimo l’importanza spirituale complessiva che ne segnò lo sviluppo, e che sarà
determinante per la cultura moderna europea.
Sulla scia di autori come
Macrobio e Marziano Capella, già i grandi di Chartres, avevano imparato a
leggere gli stessi classici pagani come autori che “inserviunt veritati” (Giovanni di Salisbury, Policraticus, III, 6)” p.28
Notissimo è un aforisma che
Giovanni di Salisbury (XII secolo) attribuisce a Bernardo di Chartres[12]:"Dicebat
Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantum humeris insidentes, ut
possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut
eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine
gigantea" (Metalogicon III, 4), diceva Bernardo di Chartres che
noi siamo come dei nani che stanno sulle spalle di giganti, in modo tale che
possiamo vedere più cose di loro e più lontane, comunque sia non per l'acume
della nostra vista o la statura del corpo ma poiché siamo portati in alto ed
elevati da quella grandezza gigantesca.
“Il vero grammatico
è colui che sa scoprire nei loro testi filosofiche
verità, l’interprete-ermeneuta che
penetra sagacenente gli involucra o integumenta (…) che quelle verità
nascondono o, meglio, ri-velano (…) Anche il paganesimo conosce una mystica poetria, afferma Scoto Eriugena[13],
capace di profetizzare intorno allo
stesso futuro su cui profetizza l’auctoritas
biblica. Profezia inconsapevole, ma reale.
A questo proposito posso ricordare
quanto dice Stazio a Virgilio nella V cornice del Purgatorio di Dante: “Ed elli a lui: “Tu prima m’inviasti/verso
Parnaso a ber nelle sue grotte,/e prima appresso Dio m’alluminasti./Facesti
come quei che va di notte,/che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo lui
fa le persone dotte, /quando dicesti: ‘Secol si rinnova;/torna giustizia e
primo tempo umano,/e progenie scende da ciel nova’[14]/Per
te poeta fui, per te cristiano” (XXII, 67-72).
“Conseguenza difficilmente
evitabile: il Signore comunica il proprio spirito sia al profeta di Israele che
al vate greco o romano; si tratta, al più, di intensità diversa, di diversi
gradi, ma un unico filo, non spezzabile, unisce le diverse figure, un’unica corda intreccia i loro cuori. A un tale presupposto
ermeneutico, teologicamente paradossale, si collegherà l’idea umanistica della prisca theologia e della catena aurea che collega sapienza pagana
e Rivelazione. Già Fulgenzio[15]
interpretava Virgilio come profeta dello stesso Evento, e non solo come il
‘filosofo’ dell’umana vita e delle umane virtù. Abelardo, il più ‘laico’ dei sommi
del XII secolo, lo affermerà esplicitamente: i poeti hanno presagito il Cristo
al pari dei profeti e delle Sibille (Theologia
Scholarium, I, 128). Lo Spirito ha parlato in tutti loro. Lo Spirito che
soffia dove vuole può esprimersi anche nel poeta pagano”. (p. 28)
Io sento tale soffio
particolarmene nell’Edipo re di
Sofocle.
In questa tragedia Edipo e Giocasta[16] sono
rappresentanti di quel pensiero laico-sofistico cui Sofocle si oppone con tutta
la sua produzione poetica, e più che mai con questa dramma dove il coro,
portavoce dell'autore, durante il secondo stasimo, domanda:"Se infatti
tali azioni sono onorate,/perché devo eseguire la danza sacra?"( eij ga;r aiJ toiaivde pravxei" tivmiai-tiv
dei' me coreuvein; vv.895-896). Se gli oracoli vanno in malora e Apollo
è dimenticato, tutti gli dei tramontano (v.910); allora la stessa
rappresentazione tragica, che fa parte della liturgia religiosa, perde ogni
significato e diviene assurda.
Concludo questo secondo capitolo
di La mente inquieta.
“Il mosaico pavimentale del
duomo di Siena (tav. 3) affonda le sue ragioni in questa lunga storia. Dante
stesso ne è parte e ne esprime l’idea con la potenza insuperabile del suo
immaginare e rappresentare”. (p. 28)
Questo mosaico riprodotto nella
tavola 3 è un intarsio marmoreo attribuito a Giovanni di Stefano e risale al
1488. Vi si vede Ermete Trismegisto che tramette i libri del sapere a Oriente e
Occidente:
“Incomparabile documento di
quell’idea di accordo tra pia philosophia
e docta religio propria del
platonismo ficiniano (…) le scritte che lo accompagnano-tratte da uno degli
scritti del Corpus Hermeticum, il Primander, venivano interpretate come
profezia della venuta del Verbo: “il Logos luminoso proveniente dal Nous è
figlio di Dio (…) Essi non sono separati l’uno dall’altro; la vita, infatti, è
l’unione di questi due”. Giunge così alla sua ultima stazione, alla vigilia
della catastrofe di fine secolo, un cammino che aveva attraversato anche il
Medioevo, alla ricerca del ‘passaggio’ tra sapienza pagana e Rivelazione. Gli
scritti ermetici sembravano possederne la chiave, o collocarsi, come appunto
avviene a Siena, sulla soglia che
introduce alla Casa della salvezza”.
1 marzo 2019 giovanni ghiselli
[1] Frontone (100-166) suggerisce l’impiego di parole significantia piene di significato cioè
gli insperata atque inopinata verba,
le parole “insperate” e “impensate” che contraddicono l’opinione di chi ci
ascolta o ci legge (4, 3, 3, praeter spem
atque opinionem audientium aut legentium)
[2] 1125-1202.
[3] Erich Auuerbach , Studi su Dante, antologia della
Feltrinelli 1974, p. 187
[4] Alla domanda di Agave “e’
stato ricomposto per bene? (v. 1300) chiede Agave a Cadmo nella traduzione di
Susanetti, ndr.
[5] CHRISTUS PATIENS
(Χριστός πάsχων. - Con questo titolo datogli dal primo
editore si designa un dramma sulla passione di Cristo conservato in numerosi
codici, di cui nessuno anteriore al sec. XIII, sotto il nome di S. Gregorio
Nazianzeno. L'attribuzione è falsa, perché il dramma è compilazione bizantina
del sec. XI-XII. L'ignoto autore ha composto un centone di 2640 trimetri
giambici, di cui un buon terzo è riportato alla lettera o con adattamenti dai
tragici greci, specialmente da Euripide. La materia è fornita oltre che dai
libri sacri, dagli apocrifi. Un breve prologo indica lo scopo: narrare alla
maniera di Euripide la passione del Redentore. La parte principale è sostenuta
non da Cristo, ma dalla Madonna, che si effonde in lunghi lamenti. Non sono
osservate le tre unità aristoteliche. In realtà si tratta di un componimento
letterario a scopo di lettura edificante, il quale per il contenuto e più
ancora per il materiale classico incastratovi ha grandemente interessato i
teologi e i filologi
[6] Dopo il v. 1300 “
[7] D. Susanetti, Euripide, Baccanti, Carocci, pp. 277-278
[8] ajnagwgikov", mistico, che eleva
[9]Il mestiere di vivere, 29 settembre 19 46.
[10] Robèrto Grossatesta. - Filosofo
inglese (Stradbrook, Suffolk,
1175 - Lincoln 1253).
Fautore di un ritorno al platonismo agostiniano, risulta centrale nella sua
fisica e metafisica la dottrina della luce e il concetto di illuminazione da
essa derivato, che applicò alla conoscenza. Fondamentali (anche per i suoi
influssi sulla successiva filosofia di Oxford) il suo interesse per i fenomeni
naturali, l'importanza attribuita alla matematica e all'ottica, la
teorizzazione di quello che verrà chiamato 'principio d'economia' (la natura
opera nel modo più breve e ordinato possibile).
[11] Cfr. Solem quis dicere falsum/audeat? " Georgica I, 463
[12] Filosofo scolastico
francese morto nel 1130. Scrisse un’opera su Porfirio.
[13]Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Enciclopedia Dantesca (1970): Scoto Eriugena, Giovanni. - Filosofo del sec. IX, mai
citato da D.; si preferiscono attualmente i nomi di Giovanni Eriugena, o di
Giovanni Scoto, in quanto nel sec. IX Eriugena e Scotus significavano la stessa
cosa, cioè " irlandese ". Nato infatti in Irlanda nel primo quarto
del secolo, giunge sul continente fra l'845 e l'847 circa, provvisto di una
formazione culturale che la critica più recente - respingendo il mito di una
grande, misteriosa cultura irlandese precarolingia - ritiene non superiore a
quella di un qualsiasi chierico del regno franco. Stabilitosi alla corte di
Carlo il Calvo, deve aver presto raggiunto una certa notorietà, se fra l'850 e
l'851 è invitato da Incmaro di Reims a intervenire nella controversia sulla
predestinazione, suscitata da Gotescalco di Orbais. Con l'opera scritta per
l'occasione, il De Praedestinatione, l'Eriugena risponde ai problemi della
cultura del suo tempo con un linguaggio nuovo, un'esigenza, ignota ai
contemporanei, di coerenza sistematica nell'interpretazione delle fonti
patristiche e dei testi scritturali, con un'abilità nell'uso della dialettica
che susciterà ben presto reazioni scandalizzate. Alle arti liberali, insegnate
forse alla scuola palatina, è dedicato soprattutto il suo commentario (scritto
fra l'859 e l'860) al De Nuptiis Mercuri et Philologiae di Marziano Capella,
che contribuirà, unitamente ad altri commenti (celebre quello di Remigio
d'Auxerre), ad assicurare la fortuna del De Nuptiis. L'incontro con la cultura
bizantina costituisce un momento determinante per lo sviluppo del pensiero
eriugeniano, che da essa deriva gli schemi di un rigoroso neoplatonismo, nel
cui ambito diverrà possibile riordinare sistematicamente, in una nuova sintesi
dottrinale, i dati di una vasta tradizione patristica, le apparenti
incongruenze e contraddizioni dello stesso linguaggio scritturale, così vario e
spesso così concreto nella creazione dei simboli o nella stretta aderenza a una
narrazione storica.
[14] Cfr. Bucolica IV, 5-7: “magnus ab
integro saeclorum nascitur ordo./Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia
regna;/iam nova progenies caelo demittitur alto”
[15] FULGENZIO (Claudius Gordianus Fulgentius) di Ruspe, Santo. - Nato a Telepta, nella Bizacene (Africa), verso
la fine del sec. V, dovette ricevere dalla sua famiglia una buona educazione:
apprese il greco e fu procuratore nella sua città natale. Preso dal desiderio
di ritirarsi a vita eremitica, passò in Sicilia, poi fu a Roma, donde tornò
nuovamente in patria. Monaco e chierico, fu eletto vescovo di Ruspe (Bizacene)
e venne presto in contrasto col re vandalo Trasamondo. Esiliato in Sardegna,
con altri vescovi africani, fu richiamato nel 515, di nuovo esiliato nel 520 e
definitivamente richiamato dal successore di Trasamondo, Ilderico, nel 523.
Morì il 1° gennaio, probabilmente del 532. Nelle sue opere giunte fino a noi (Patrol.
Lat., XLV, col. 151 segg.) si rivela in genere buono stilista, ma
teologo poco originale. I suoi scritti (brevi trattati, come Contra Arianos,
De Trinitate, De veritate praedestinationis et gratiae Dei, De
remissione peccatorum, De incarnatione filii Dei e altri;
epistole e sermoni) mostrano al più come egli avesse perfettamente assimilata
la teologia e la morale agostiniana. In armonia con questa, combatte il
semipelagianesimo di Fausto di Riez (v.) e, soprattutto, l'arianesimo imposto
in Africa dai Vandali invasori. Alcuni filologi hanno creduto di poter
identificare in F. l'autore di un corpus di scritti correnti sotto il
nome di Fabius Planciades Fulgentius, o Fabius Claudius Gordianus
Fulgentius e consistenti (vedine l'ediz. di R. Helm, Lipsia 1898) in un
trattato mitologico (Mythologiarum libri tres), in un'interpretazione
allegorico-moralistica dell'Eneide (Expositio Virgilianae
continentiae), una cronaca in prosa artificiosa dalla creazione del mondo
a tutta la storia romana (De aetatibus mundi et hominis) e una
spiegazione di un gruppo di glosse (Expositio sermonum antiquorum). Ma
mentre per considerazioni storiche e stilistiche si può assegnare a queste
operette un unico autore, nonostante le discrepanze formali del nome,
l'identificazione di questo piatto erudito, detto Fulgenzio il Mitografo, con F. vescovo, incontra fortissimi dubbî.
[16] La quale dice: "O vaticini degli dei, dove
siete?", e il re le fa eco con questa tirata blasfema:" Ahi, perché
dunque, o donna, uno dovrebbe osservare/ il fatidico altare di Delfi o gli
uccelli/ che schiamazzano in alto?... Gli oracoli che c'erano, li ha presi/
Polibo che giace presso Ade, ed essi non valgono nulla"(vv.964 e sgg.).
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