Oscar Wilde |
L’approccio comparativo alle letterature antiche. Parte 4
Percorso della conferenza che tenuta il 26 gennaio 2019 per la Valent Academy centro studi internazionali di Milano con la partecipazione di studenti e professori del liceo Manzoni
L’approccio comparativo alle letterature antiche
Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle lingue e letterature greca e latina con taglio europeo e topologico
Essere se stessi
dunque è difficile, persino pericoloso, ma non diventare quello che si è
significa non vivere la propria vita, bensì quella degli altri: “Nihil ergo magis praestandum est quam ne
pecorum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed
quo itur”[1],
niente allora dobbiamo fare con cura maggiore che evitare di seguire il gregge
di coloro i quali ci stanno davanti, alla maniera delle bestie, dirigendoci non
dove dobbiamo andare ma dove si va.
“Il bruto è più
tenace e servo dell’assuefazione”[2].
Riporto una
espressione di O. Wilde nella cui filigrana si può leggere Seneca: “La morale
moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della nostra epoca, ed io credo
che per un uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria epoca sia la
più rozza forma di immoralità”[3].
Dei luoghi comuni,
e non solo di questi, si impossessa sempre la pubblicità che vuole impadronirsi
dei nostri cervelli e dei nostri cuori.
“Il senso della
filologia classica è quello di agire nel tempo nostro in modo inattuale, cioè
contro il tempo e in favore di un tempo venturo”[4].
La conoscenza
della paideia
classica è anche una difesa dal veleno della pubblicità che cerca di
colonizzare e intossicare i nostri cervelli.
Epicuro: “tra i
desideri (tw'n ejpiqumiw'n) alcuni sono solo naturali (fusikaiv), altri anche
necessari (ajnagkai'ai). Altri sono vani (kenaiv).
Tutto ciò che è
naturale richiede solo quanto è facilmente procurabile (eujpovriston)” Epistola a Meneceo (127 - 130). Ciò che
è vano invece è difficile da procacciarsi: to; de; keno;n duspovriston.
Cicerone nei Paradoxa
Stoicorum[5]
ha scritto più sinteticamente: "non
esse emacem vectigal est"
(VI, 51). Non essere smanioso di comprare è una rendita.
Un altro antidoto
al veleno pubblicitario, a ogni veleno, può essere lo sguardo aperto alla
natura: osservare il cielo splendente.
Nelle Baccanti di
Euripide, Cadmo suggerisce alla figlia Agave impazzita di guardare il cielo: “ej~
tovnd j aijqevr j o[mma so;n mevqe~” (v. 1264), lascia il tuo occhio aperto
qui al cielo.
Guardare il cielo
apre gli occhi dell’anima a Bill Loman, il figlio di Willy Loman, il commesso
viaggiatore di Arthur Miller. Il padre, infuriato in seguito a un aspro
diverbio, gli dice: “E allora impiccati! Fammi quest’ultimo dispetto!
Impiccati!” e il giovane risponde: “No, Willy, nessuno s’impicca! Oggi mi sono
precipitato per dodici piani con una penna in mano. E tutt’a un tratto mi sono
fermato, capisci? In mezzo alle scale mi sono fermato e ho visto il cielo. Ho
visto le cose che mi piace fare a questo mondo. Lavorare e mangiare e
sdraiarmi, fumare una sigaretta. E stavo lì con questa penna in mano e mi sono
detto: ma che Cristo l’ho rubata a fare?”[6].
Guardare il cielo,
osservare le sorgenti dei fiumi, notare l’innumerevole sorriso delle onde
marine e amare la terra madre di tutti noi[7].
Il mito
I miti classici
sono parte del fondamento della nostra cultura e della nostra identità.
I miti sono quasi
sempre racconti sulle origini e spesso danno forma, per dirla con Nietzsche a
“un’immagine concentrata del mondo”[8],
un’immagine che può essere spiegata e attualizzata fino a darci chiarimenti su
eventi cui assistiamo o partecipiamo ogni giorno.
C. Pavese: “Il
mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che si
e superata. Zeus contro Tifone, Apollo contro Pitone (…) chi non ha grandi
ripugnanze non combatte”[9].
Il mito fa parte
della nostra vita, realmente: Pasolini nel film Medea fa dire al Centauro il quale istruisce il piccolo Giasone
che dovrà andare in cerca del vello d’oro “in un paese lontano al di là del
mare. Qui farai esperienze di un mondo che è ben lontano dall’uso della nostra
ragione, la sua vita è molto realistica come vedrai perché solo chi è mitico è
realistico e solo chi è realistico è mitico”[10].
A proposito della
pubblicità fallace, il più effimero degli eventi, anche questa è collegabile al
mito che ne racconta l’origine appunto: la prima réclame scritta è quella
inviata da Aconzio a Cidippe.
Bettini afferma
che "anche i pubblicitari sono degli Aconzi"[11]. Il
giovane Aconzio obbligò Cidippe a sposarlo scrivendo delle parole e facendole
leggere alla ragazza che era sul punto di maritarsi con un altro.
"La scrittura
di Aconzio è il seme di tutte le scritture astute, e l'unico modo per sottrarsi
alla sua trappola sarebbe quello di non leggerla. Ma è possibile? "[12].
Nella festa di
Apollo a Delo, Aconzio di Ceo si innamora di Cidippe di Nasso e la vincola a sé
gettandole un pomo su cui aveva scritto: “Lo giuro per Artemide: io sposerò
Aconzio”.
Questo racconto si
trova negli Aitia di Callimaco. Febo
rivelò a Ceuce, il padre di Cidippe che la ragazza in procinto di sposare il
fidanzato si ammalava a morte poiché un giuramento grave (baru;~
o{rko~, Ai[tia
fr. 75 Pf., v. 22) impediva le nozze alla fanciulla la quale fu sentita da
Artemide in visita a Delo quando giurò che avrebbe avuto come sposo Aconzio e
non altri jAkovntion oJppovte sh; pai`~ - w[mosen, oujk
a[llon, numfivon ejxemevnai[13] (vv. 26 - 27).
La storia e
narrata anche da Ovidio nelle Heroides.
Aconzio scrive a Cidippe e le ricorda “volubile
malum - verba ferens doctis insidiosa notis” (XX, 211 - 212), la mela che
rotolava portando parole insidiose in formule dotte. Queste furono lette nella
sacra presenza di Diana e la fides di
Cidippe ne rimase vincta.
Cidippe risponde
ad Aconzio che sta morendo, si sente sballottata come una nave, ipsa velut navis iactor (XXI, v. 43), veneficiis tuis (54) per le tue parole
avvelenate. La ragazza ricorda che navigava verso Delo impaziente di arrivare.
Aconzio ne vide la semplicità e gli sembrò che potesse essere facile preda: “visaque simplicitas est mea posse capi”
(v. 106).
Non fu una prudens simplicitas quale quella che
Marziale augura a se stesso (10, 47, 7).
Le venne gettata
davanti ai piedi una mela con i versi che Cidippe non vuole ripetere “mittitur ante pedes malum cum carmine tali”
(v. 109). La nutrice raccolse l’ingannevole frutto e lo fece leggere alla
ragazza: “insidias legi, magne poeta,
tuas” (112). Aconzio non deve essere fiero di avere preso con ‘inganno una
fanciulla poco esperta: “sumque parum
prudens capta puella dolis” (v. 124).
E’ stata ingannata
come Atalanta da Ippomene. Aconzio avrebbe dovuto convincerla more bonis solito (v. 129), come fanno i
galantuomini, non ingannarla costringendola a proferire sine pectore vocem (143), una voce senza anima. Ora, invece della
fiaccola di nozze, c’è quella di morte: “et
face pro thalami fax mihi mortis adest” (v. 174). “mirabar quare tibi nomen Acontius esset” (v. 211), mi domandavo con
stupore perché ti chiamassi Aconzio, ora lo so[14]: “quod faciat longe vulnus, acumen habes” (v. 212), hai una punta che provoca
ferite anche da lontano.
La ragazza ferita
sta morendo: “concidimus macie, color est
sine sanguine, qualem/in pomo refero mente fuisse tuo” (vv. 217 - 218),
sono estenuata dalla magrezza, il colore è senza sangue, quale, come ricordo,
era il tuo pomo.
Ecco dunque il
paradigma mitico del tossico pubblicitario delle parole ingannevoli e velenose
continuamente scagliate dalla pubblicità
Le voci di questi auctores, veri e propri accrescitori
della nostra anima, della nostra capacità di intendere il mondo, conservano la
loro eco attraverso i secoli e tutta la letteratura europea forma un corpo, del
quale, come scrisse T. S, Eliot, il latino e il greco sono il sangue.
"Il latino e
il greco[15]
costituiscono la corrente sanguigna della letteratura europea: e come un solo,
non gia due distinti sistemi di circolazione; giacché è attraverso Roma che
possiamo ritrovare la nostra parentela con la Grecia"[16].
Il fatto è che se
non saliamo sulle spalle dei classici e ci lasciamo confondere dal frastuono
ignorandoli, rimane assai limitata la nostra visione, non solo quella esterna
del mondo, ma anche quella interiore, di noi stessi.
A questo proposito
ricordo un aforisma che Giovanni di Salysbury (XII secolo[17])
attribuisce a Bernardo di Chartres[18]:
"Dicebat Bernardus Carnotensis nos
esse quasi nanos gigantum humeris
insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus
acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur
magnitudine gigantea".
(Metalogicon III, 4), diceva Bernardo di
Chartres che noi siamo come dei nani che stanno sulle spalle di giganti, in
modo tale che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, senza dubbio non
per l'acume della nostra vista o la statura del corpo ma poiché siamo portati
in alto ed elevati da quella grandezza gigantesca.
Del resto la
coscienza di non dire nulla di completamente nuovo si trova già negli autori
antichi: Eschilo[19]
diceva che le sue tragedie erano fette del grande banchetto omerico (Aijscuvlo"
(…)
o}" ta;" auJtou' tragw/diva" temavch[20]
ei\nai e[legen tw'n JOmhvrou megavlwn deivpnwn"[21]).
Callimaco afferma:
“ajmavrturon
oujde;n ajeivdw"”[22], non canto nulla
che non sia testimoniato. Altri esempi (in Terenzio, Leopardi, Musil) si
trovano nello svolgimento del capitolo VIII di questa metodologia.
CONTINUA
[7] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, vv - 88 - 90 pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon
gevlasma. Cfr. anche
D’Annunzio, Elettra: “Il riso innumerevole delle onde marine”.
[17] Giovanni di Salisbury (lat. Iohannes
Saresberiensis).
- Scrittore e prelato (Salisbury tra il 1110 e il 1120 - Chartres 1180), una
delle maggiori figure nella cultura del XII sec. Formatosi alla scuoladei piu
famosi maestri di Parigi e Chartres negli anni 1136 - 48 (Abelardo, Guglielmo
di Conches, Gilberto Porretano, ecc.), divenne in Inghilterra segretario
dell'arcivescovo di Canterbury (prima di Teobaldo poi di s. Tommaso Becket);
spesso incaricato di tenere i rapporti col re d'Inghilterra e con la Santa
Sede, si dovette trasferire, dopo l’assassinio (nella cattedrale) di Tommaso
Becket (1170), in Francia e fu creato vescovo di Chartres (1176). Le opere
maggiori di G., tra le piu significative per la cultura del XII sec. , sono il Metalogicon
e
il Polycraticus. La prima,
scritta in difesa della logica (donde il titolo), combatte le correnti
utilitaristiche e sofistiche (soprattutto i cosiddetti
"cornificiani", dal nome, forse allusivo, di Cornificio con cui e
indicato il loro caposcuola) e prospetta un ideale di cultura (o philosophia) che riunisca
armonicamente trivio e quadrivio, il sapere letterario e quello scientifico; ma
soprattutto al primo è legato Giovanni educato alla lettura dei classici latini
e in particolare a Cicerone, del quale egli vuole seguire anche l'equilibrato
accademismo: infatti, nel passare in rassegna sistemi e maestri dell'età sua,
cerca di mettere sempre in evidenza la difficoltà di risolvere definitivamente
i massimi problemi (di particolare interesse quello che dice sul problema degli
universali, a suo avviso irrisolvibile. Giovanni fu tra i primi a conoscere
tutte le opere logiche di Aristotele). Non meno importante e il Polycraticus
sive de nugis curialium et vestigiis philosophorum, soprattutto per
la storia delle dottrine politiche: egli sostiene l'origine divina del potere regale
e quindi la sua dipendenza dal potere sacerdotale; se il re poi si tramuta in
tiranno, ne è lecita l'uccisione. G. scrisse anche in versi (Entheticus
seu de dogmate philosophorum) le sue idee filosofiche, sviluppando
motivi del Metalogicon. Le sue lettere
sono documenti interessantissimi per lo studio del tempo. Incompleta ci è
giunta l'Historia
pontificalis (1148
- 52), che tratta del pontificato di Eugenio III.
[18] Bernardo di Chartres. -
Filosofo francese (m. tra il 1126 e il 1130), e tra i maggiori maestri di
Chartres, dove insegnò dal 1114 al 1119; fu poi a Parigi; gli furono discepoli
Giovanni di Salisbury, che lo giudicò "il piu perfetto fra i
platonici", Guglielmo di Conches e Riccardo di Coutances. Nulla resta
delle sue opere, ma del suo insegnamento abbiamo interessanti notizie da
Giovanni di Salisbury: sulla tecnica dell'insegnamento, sull'amore per gli auctores
antichi
con una precisa e positiva valutazione dei "moderni", sulle dottrine
logiche (realismo platonico: sulle idee sono esemplate le formae
nativae che
informano la materia). Nani sulle spalle di giganti è una metafora con
cui si esprime un rapporto di dipendenza della cultura moderna rispetto
all’antica. Essa s’incontra per la prima volta (1159 ca. ) nel Metalogicon (III, 4) di
Giovanni di Salisbury, che ne attribuisce la paternità al suo maestro Bernardo
di Chartres
La
frase fu ripetuta spesso fino alla Querelle des Anciens et des
modernes (fine
XVII sec. ) sempre per rilevare il debito dei moderni verso gli antichi.
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