Pindaro |
L’approccio comparativo alle letterature antiche. Parte 3
Percorso della conferenza che tenuta il 26 gennaio 2019 per la Valent Academy centro studi internazionali di Milano con la partecipazione di studenti e professori del liceo Manzoni
L’approccio comparativo alle letterature antiche
Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle lingue e letterature greca e latina con taglio europeo e topologico
Platone ha scritto
che tutta la natura è imparentata con se stessa (th'"
fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh", Menone, 81d).
Ebbene, anche
tutta la letteratura europea è imparentata con se stessa.
Io intendo e
impiego i topoi come idee, frasi, versi belli e pieni di forza, tanto estetica
quanto etica, comunque una forza rivelatrice.
Per esempio “tw'/
pavqei mavqo"”
(Eschilo, Agamennone, 177) o anche "filokalou'mevn te
ga; r met j eujteleiva" kai; filosofou'men a[neu malakiva"" (Tucidide, Storie, II, 40, 1) in effetti amiamo il
bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza, o pure “gevnoio
oi|o~ ejssiv”
(Pindaro, Pitica II, v. 72), diventa quello che sei.
I classici
insegnano la semplicità: nelle Fenicie[1] di Euripide,
Polinice afferma la parentela della semplicità con la giustizia e con la
verità: "aJplou'" oJ mu'qo" th'"
ajlhqeiva"[2]
e[fu, - kouj poikivlwn dei' ta[ndic eJrmhneuavtwn" (vv. 469 - 470), il discorso
della verità è semplice, e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di
interpretazioni ricamate. Invece l'a[diko" lovgo", il discorso
ingiusto, siccome è malato dentro, ha bisogno di rimedi artificiosi: "nosw'n
ejn auJtw'/ farmavkwn dei'tai sofw'n" (v. 472).
Gli ottimi autori
europei insegnano ad aborrire l’affettazione che è l’opposto della semplicità
della naturalezza, dell’autenticità e della stima di se stesso: “l’affettazione
è la peste d’ogni bellezza e d’ogni bontà, perciò appunto che la prima e più
necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è
la naturalezza”, scrive Leopardi (Zibaldone, 705).
La semplicità
estremizzata diventa sprezzatura: la sui neglegentia del Petronio di
Tacito (Annales, XVI, 18).
Tale noncuranza
non esclude del resto l’artificio come nel caso di Sofronia della Gerusalemme
liberata, "La vergine tra 'l vulgo uscì soletta, /non coprì sue
bellezze, e non l'espose, /raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta, /con
ischive maniere e generose. /Non sai ben dir s'adorna o se negletta, se caso od
arte il bel volto compose. /Di natura, d'Amor, de' cieli amici/le negligenze
sue sono artifici" (II, 18).
Un correlativo stilistico
letterario della neglegentia è l'ajmevleia che l'Anonimo Sul
sublime attribuisce a Omero e ad altri grandi della letteratura come Sofocle,
Pindaro, Demostene e Platone. L'autore annovera Omero tra i grandissimi nei
quali egli stesso ha rilevato non pochi difetti ("oujk
ojlivga... aJmarthvmata")
i quali però non sono errori volontari ma piuttosto sviste dovute a casuale
noncuranza ("paroravmata di jajmevleian eijkh'/") e prodotte
distrattamente dalla stessa grandezza dell’autore. Le nature eccellenti non
sono senza difetti. Apollonio e Teocrito sono senza mende. Ma non preferiresti
- domanda retoricamente l’Anonimo - essere Omero piuttosto che Apollonio? Anche
Sofocle ha qualche caduta di tono poetico, ma nessuno con un poco di senno
scambierebbe il solo Edipo re con tutti i drammi di Ione di Chio (33).
La semplicità come
abbiamo visto nel citare Tucidide, comprende la bellezza che tocca la sfera emotiva;
i ragazzi provano interesse e gioia nel sentire parole belle e vere, insomma
parole che sono tasselli di opere d’arte: "l'arte è il fatto più reale, la
più austera scuola di vita, e il vero Giudizio finale"[3].
Perfino i
criminali provano gioia e meraviglia per le parole belle, finanche gli animali,
perfino i morti e le creature infernali se pensiamo a Orfeo.
Erodoto racconta
di un grandissimo prodigio (qw`ma mevgiston Storie I,
23) capitato ad Arione, il primo fra gli uomini che compose un ditirambo, gli
diede il nome e lo fece rappresentare a Corinto, al tempo del tiranno Periandro
(inizio VI sec. a.C.).
Questo poeta
dunque viaggiava su una nave corinzia per tornare da Taranto a Corinto. Ma i
marinai in alto mare complottarono per gettarlo in acqua e prendersi le sue
ricchezze. Arione li pregò di non ammazzarlo almeno, ma quei farabutti gli
concessero soltanto di uccidersi da solo, saltando in mare se voleva.
Allora Arione
chiese di poter cantare stando in piedi tra i banchi della nave jen th`/ skeuh`/ pasvh/, con tutta la sua
acconciatura, promettendo che dopo il canto si sarebbe ucciso.
Allora quelli si
sentirono invadere da senso di gioia (kai; toi'si ejselqei'n
hJdonhvn[4]) al pensiero che
stavano per udire il migliore di tutti i cantori, e si ritirarono, dalla prua,
verso il centro della nave. Arione, indossato tutto il suo abbigliamento, ritto
tra i banchi, eseguì il canto nel tono elevato (novmon to; n
o[rqion),
quindi si gettò in mare, vestito com’era. A questo punto intervenne un delfino
che, evidentemente affascinato anch’esso dal canto del poeta, lo prese sopra di
sé e lo portò fino a capo Tenaro (to; n delfi`na levgousi
uJpolabovnta ejxenei`kai ejpi; Taivnaron).
Orfeo con il suo
canto riusciva a commuovere addirittura le tenui ombre dei morti e le loro
dimore, le Eumenidi, e Cerbero, e a fermare la ruota di Issione[5].
Tale è l’incanto
delle parole, in questi casi accompagnate dalla musica, ma non dimentichiamo
che la civiltà dei Greci e dei Latini è logocentrica e, nel rapporto tra parola
e musica, questa è ancilla verbi.
Quindi,
tornando a noi, credo che ricordare le sentenze belle degli auctores, e citarne
brani delle opere mostrandone la carne viva, significhi imparare a esprimersi
non senza bellezza e, quindi, trovare e riconoscere qualche cosa di bello in
noi stessi.
Questo per quanto
riguarda il campo dell’efficacia e della bellezza, della prassi e
dell’estetica.
Ma c’è pure, e
forse anche prima dell’estetica, la categoria dell’etica. Si pensi alla crasi kalokajgaqiva.
Quello dei Greci
“intendentissimi del bello”[6], era: “un popolo
che, eziandio nella lingua, faceva pochissima differenza dal buono al bello”
(Leopardi, Operette morali, Detti memorabili di Filippo
Ottonieri). Per questo la bruttezza di Socrate gli era di non piccolo
pregiudizio in un popolo che per giunta “era deditissimo a motteggiare”.
Sicché
Socrate “impedito di aver parte, per dir così, nella vita (…) si pose per ozio
a ragionare sottilmente (…) nel che gli venne usata una certa ironia, un’ironia
che “non fu sdegnosa e acerba, ma riposata e dolce”. Socrate parlava con le
persone giovani e belle “più volentieri che cogli altri” poiché da questi
avrebbe voluto essere amato. L’Ottonieri concludeva che “l’origine di quasi
tutta la filosofia greca, dalla quale nacque la moderna, fu il naso rincagnato,
e il viso da satiro, di un uomo eccellente d’ingegno e ardentissimo di cuore”.
Dunque
Socrate, come Ulisse. “non formosus erat, et tamen…”
Non si può essere
nemmeno morali se non si conoscono a fondo i princìpi e i valori dell’etica
classica.
Questa non
penalizza la felicità, che anzi deve essere associata alla moralità. Fare bene
e stare bene, avere successo, come si sa, coincidono (eu\,
kalw'" pravttein).
Essere felici
secondo Strabone è un atto di pietas: "gli uomini imitano benissimo gli
dei quando fanno del bene (o{tan eujergetw'sin), ma si potrebbe
dire ancor meglio quando sono felici (o{tan eujdaimonw'si)"[7].
C’è una
interdipendenza tra etica e felicità: "sostengo che non vi è profonda
felicità senza morale profonda"[8].
Nella seconda
commedia della trilogia pirandelliana del teatro nel teatro, Ciascuno a suo
modo, l'attrice Delia Moreno afferma: "Sapete che cosa significa
"amare l'umanità"? Soltanto questo: "essere contenti di noi
stessi"[9]. Quando uno è
contento di se stesso "ama l'umanità"[10].
Questo mio lavoro
ha una conclusione etica per la quale mi affido ad alcune citazioni che
convalidano quanto ho sempre pensato della mia deontologia professionale e di
educatore: "Ogni altra scienza è dannosa a colui che non ha la scienza
della bontà. (…) Il profitto del nostro studio.
Questa
affermazione risale a Platone:
SW . J
Ora'/" ou\n, o{te g j e[fhn kinduneuvein to; ge tw'n a[llwn ejpisthmw'n
kth'ma , eja;n ti" a[neu th'" beltivstou ejpisthvmh"
kekthmevno" h\/, ojligavki" me;n wjfelei'n, blavptein de; ta; pleivw
to;n e[conta aujtov, a\r j oujci; tw'/ o[nti ejfainovmhn levgwn;
vedi dunque, dice Socrate ad Alcibiade, quando dicevo che
il possesso delle altre scienze se uno non possiede la scienza
di quanto è ottimo (l'idea del Bene),
di rado giova, mentre per lo più danneggia chi ce l'ha, non ti sembra che
io parlavo dicendo quanto è sostanzialmente corretto?
Alcibiade dà ragione a Socrate il quale aggiunge:
oj de; th;n
kaloumevnhn polumaqivan te kai; plolutecnivan kekthmevno", orfano;"
de; w]n tauvth" th'" ejpisthvmh", ajgovmeno" de; uJpo;
mia'" ejkavsth" tw'n a[llwn, a\r j oujci; tw'/ o[nti dikaivw"
pollw'/ ceimw'ni crhvsetai, a{te oi\mai a[neu kubernhvtou diatelw'n ejn
pelavgei, crovnon ouj makro;n bivou qew'n; w{ste
suvmbaivnein moi dokei' kai; ejntau'qa to; tou' poihtou', o} levgei kathgorw'n
pouv tino", wJ" a[ra polla; me;n hjpivstato e[rga, kakw'" dev
mfhsivn, hjpivstato pavnta (Alcibiade II 147b)
e chi possiede la cosiddetta conoscenza enciclopedica e
politecnica , ma sia privo di questa scienza (del Bene), e venga spinto da
ciascuna delle altre, non farà uso sostanzialmente di una grande tempesta senza
un nocchiero, continuando a correre sul mare, non a lungo del resto? Sicché mi
sembra che anche qui capiti a proposito quello che dice il
poeta criticando uno che effettivamente sapeva molte cose ma le
sapeva tutte male.
Bisogna riflettere
su queste parole e su queste altre di Nietzsche: “Siamo arrivati al punto che
le nostre scuole e i nostri maestri prescindono semplicemente da una educazione
morale o si contentano di formalismi: e virtù è una parola sotto la quale
maestri e scolari non riescono a pensare a niente, una parola passata di moda,
della quale si sorride - e male se non si sorride perché allora si è ipocriti”[11].
Torniamo al
“diventa quello che sei” di Pindaro (Pitica,
II, 72)
I classici sono
necessari o per lo meno utili e funzionali alla conoscenza della propria
identità.
Felicità è anche
coscienza di sé, realizzazione e compimento della propria natura, identità di
potenza e atto. Per ottenere tali risultati e necessario comprendere a fondo
che cosa essenzialmente siamo.
Per autorizzare
questa mia convinzione, utilizzo Eraclito che scrive: “ho indagato me stesso”[12], e pure Sofocle i
cui personaggi affrontano ogni difficolta e qualunque rischio per sapere chi
sono, quindi per non smentire la propria identità. Il “conosci te stesso”[13] scritto sul
tempio di Delfi e il “diventa quello che sei” di Pindaro[14] esprimono il
medesimo pensiero di carattere apollineo.
Oggi, in questo
guazzabuglio di idiomi mal conosciuti e parlati male, si rischia di perdere
l’identità, umana, linguistica e culturale, di non sapere più parlare bene
nemmeno una sola lingua, e, quello che è peggio, di non sapere più chi siamo.
“L’uomo moderno
soffre di una personalità indebolita. Come il romano dell’epoca imperiale
abbandonò la sua romanità (…) come egli perdette se stesso sotto l’irrompere
delle cose straniere e degenerò in mezzo al cosmopolitico carnevale di dèi,
costumi e arti; così deve accadere all’uomo moderno”[15].
Le due lingue
classiche con le loro letterature, ci danno un ancoraggio doppio e sicuro, al
riparo dal fluttuare nella indeterminatezza amorfa o deforme del parlare di uso
comune, una chiacchiera, spesso uno sproloquio, che riflette una scarsa
aderenza persino alle realtà più evidenti e naturali.
E’ necessario
uscire dal pantano fangoso della parola incolore, o addirittura insensata, del
luogo comune trito, e pure offensivo, che molti usano per nascondere la verità
scomoda, pericolosa, o la propria ignoranza, mentre invece la rivela, e
denuncia la pochezza mentale di chi rumina il sentito dire senza sottoporlo a
giudizio critico.
Per esempio che
l’estate inizi il 21 giugno è una negazione dell’evidenza.
Casomai il 21
giugno è il culmine dell’estate che da quel giorno, almeno come luce, comincia
a declinare.
“E’
una beffa! A partire dall’inverno i giorni si allungano, e quando arriva il più
lungo, il 21 giugno, ossia l’inizio dell’estate, subito cominciano a calare, si
accorciano e si va verso l’inverno… E’ come se un buffone avesse arrangiato le
cose in modo tale da far cominciare la primavera all’inizio dell’inverno e
l’autunno all’inizio dell’estate”[16].
Autorizzo
questa mia conclusione attraverso Seneca: "nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur",
De vita beata, 1, 3, nessuna cosa ci
avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si
dice".
“Il gregge avverte
l’eccezione, tanto al di sopra di sé quanto al di sotto di sé, come qualcosa
che ha per esso riflessi ostili e dannosi (…) La diffidenza è rivolta contro le
eccezioni; essere eccezione è ritenuto una colpa”[17].
E non solo il gregge: l’imperatore Tiberio
secondo Tacito: “ex optimis periculum
sibi, a pessimis dedecus publicum metuebat “(Annales, I, 80).
CONTINUA
[1] Composte intorno al 410 a . C.
[2] Seneca cita questo verso
traducendolo così: “ut ait ille tragicus
‘veritatis simplex oratio est’, ideoque illam implicari non oportet” (Ep.
49, 12), come dice quel famoso poeta tragico “il linguaggio della verità è
semplice”, e perciò non deve essere complicata.
[3] M. Proust, Il tempo ritrovato
(uscito postumo nel 1927), p. 211.
[4] I, 24, 5.
[5] Cfr. Virgilio, Georgica IV,
vv. 472 - 484
[6] Zibaldone
2546
[7] Strabone (64 ca
a. C. - 24 ca d. C.), Geografia,
X, 3, 9.
[8] R. Musil, L'uomo
senza qualità,
p. 846.
[9] Cfr. Seneca ep. 9,
13: Se contentus est sapiens.
[10] L. Pirandello, Ciascuno a suo modo (del 1924), atto
I. Le altre due commedie della trilogia sono Sei personaggi in cerca
d'autore (del '21) e Questa sera si recita a soggetto (1929).
[11] F. Nietzsche, Considerazioni
inattuali III, Schopenhauer come
educatore, 2
[12] ejdizhsavmhn ejmewutovn, fr126 Diano
[13] Gnw`qi seautovn.
[14] gevnoio oio| ~ ejssiv, Pitica II v. 72.
[15] Nietzsche, Sull’utilità e il danno della
storia per la vita (5).
Seconda delle Considerazioni inattuali, del 1874
[16] T. Mann, La montagna incantata, cap. VI
[17] F. Nietzsche, Scelta di frammenti postumi 1887
- 1888, 10 (39)
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