esempio di monosandalos (da un particolare di opera bizantina) |
Seconda
parte della conferenza che terrò il 17 febbraio nella biblioteca pezzoli
Antefatto
Giasone con un solo sandalo arriva al sacrificio che Pelia fa in onore di Poseidone, suo padre. Lo generò con Tirò (la prima del catalogo delle eroine dell’XI dell’Odissea) la quale con Creteo generò Esone.
Giasone con un solo sandalo arriva al sacrificio che Pelia fa in onore di Poseidone, suo padre. Lo generò con Tirò (la prima del catalogo delle eroine dell’XI dell’Odissea) la quale con Creteo generò Esone.
Giasone, il seduttore punito da Medea, si
presentò con un solo sandalo[1],
al sacrificio in onore di Nettuno celebrato dal figlio del dio, (p. 206),
Pelia, lo zio usurpatore, e questa asimmetria, in qualche modo fa zoppicare:
“L’arrivo del vendicatore preannunciato da un oracolo e segnato da un marchio
che lo rende riconoscibile alla sua vittima è un tema mitico e narrativo
largamente diffuso nei racconti folklorici: un uomo fatale segnato da un
marchio fu pure Edipo, “l’uomo dai piedi gonfi”, destinato da una profezia a
uccidere il padre (…) Più complesso è il segno di Giasone e il tratto che
distingue la sua missione, vale a dire il monosandalismo: evidentemente il
monosandalismo è una forma simbolica di marchio fisico e una forma attenuata di
zoppia; d’altro lato, l’uso di indossare un solo calzare è un elemento che
s’inserisce in un complesso sistema rituale”[2].
Ma questa altra parte non riguarda il nostro discorso.
I tre Carracci, i fratelli Agostino e Annibale che con il cugino Ludovico
affrescarono il piano nobile di palazzo Fava a Bologna (1583- 1584) mettono in
rilievo l’unico piede nudo di Giasone che arriva alle spalle di Pelia il quale
si volta dissimulando a stento l’angoscia.
Pindaro Pitica IV
Anche la IV Pitica di Pindaro racconta l'impresa degli
eroi:"che nessuno rimase dalla madre a smaltire una vita senza
rischio"(330).
Una profezia dell’oracolo delfico aveva detto a Pelia che doveva
guardarsi dall’uomo con un solo sandalo ( , 75)
Giasone disse di essere un allievo di Chirone[3],
e che intendeva rivendicare l’onore regale sottratto al padre Esone, il sovrano
legittimo, dall’usurpatore Pelia. Egli era sparito poiché i genitori
spodestati, temendo la prepotenza di un capo arrogante ( , vv. 195- 196), appena nacque, gli fecero un finto funerale, come se
fosse morto, e lo affidarono a Chirone, la fiera divina ( … v. 211) che lo chiamò Giasone. Il padre pianse di
gioia vedendo il figlio, che era diventato speciale, il più bello degli uomini
( , vv. 217- 218).
Le vesti erano aderenti alle mirabili membra e i capelli non erano caduti
sotto il taglio del ferro
Ma gli splendevano lungo il dorso (145- 146)
Gli occhi del padre a vederlo, pullularono di lacrime (219)
Quando lo vide, Pelia gli domandò: “quale umana creatura terrestre ti
buttò fuori dal suo bianco ventre? Non la macchiare di odiose menzogne: di’ la
tua stirpe” (172- 175)
Il Giasone di Pindaro è diverso da quello di Euripide: si reca nel
palazzo di Pelia e, parlandogli con pacatezza, gli dice che le menti dei
mortali sono più svelte ad approvare un lucro ingannevole che la giustizia ,
vv. 247- 248) e comunque strisciano verso un amaro giorno dopo la festa. In
fondo Pelia e lui sono consanguinei e dovrebbero eliminare la discordia: le
Moire si allontanano sdegnate, se tra quelli della stessa razza c’è dell’odio
che copre il pudore. Giasone lascerebbe a Pelia le ricchezze, ma vuole lo
scettro da monarca che era di suo padre.
Dobbiamo conciliare i nostri impulsi secondo giustizia e tessere
prosperità futura ( , 251)
Si allontanano le Moire se tra i consanguinei c’è discordia che occulti
il pudore (259- 260)
Rendimi il trono senza molestia reciproca (274)
Pelia risponde che lui è vecchio mentre nel nipote (vv. 281- 282),
ribolle- ondeggia- adesso il fiore della giovinezza: dunque sta a lui compiere
l’impresa necessaria di recuperare il vello d’oro. Se ci riuscirà il giovane
avrà il regno.
“L’incontro dei due eroi e i loro discorsi, che si inseriscono nel
racconto nei modi propri dell’epos omerico, mirano a delinearne la
personalità e i caratteri profondamente diversi: l’uno, Giasone, giovane, bello
e regale nell’aspetto e non privo di abilità e saggezza perché educato
nell’antro del centauro Chirone; l’altro, Pelia, il figlio di Posidone, perfido
e subdolo, iniquo usurpatore del trono, ma astuto e sagace nell’esortare il suo
avversario a compiere l’impresa rischiosa della conquista del vello d’oro. Solo
così gli avrebbe ceduto il regno e il potere. Due volti antitetici della
regalità, l’una illegittima perché conquistata con l’inganno e insieme
tirannica, l’altra legittima e giusta perché rispettosa del diritto ereditario”[4].
Giasone dunque convocò e raccolse la schiera degli eroi. Poi viene il
racconto di una parte dell’impresa. La prima grande prova è quella di schivare
il moto furente delle rupi cozzanti ( , v. 370- 371).
Esse erano vive e gemelle e rotolavano più impetuose che le schiere dei venti
dal rombo cupo e pesante. Ma quel transito di semidei portò la loro fine.
Quando giunsero al Fasi, il Giasone di Pindaro non è più tanto dissimile
da quello di Euripide. Cipride fece un incantesimo d’amore: aggiogò il torcicollo[5] variopinto
ai quattro raggi di una ruota indissolubile e insegnò al saggio Esonide le
preghiere magiche perché portasse via a Medea il rispetto dei genitori ( , vv. 388- 389 e l’amore la scuotesse, infiammata nell’animo
dalla sferza di Peithò.
Giasone era armato non solo della bellezza, ma anche della sferza della
Persuasione. La ragazza gli diede un rimedio a dolori duri: mescolò antidoti
con l’olio perché se ne ungesse. Apparve Eeta che arava la terra con buoi i
quali spiravano dalle mascelle bionde fiamma di fuoco ardente, e battevano il
suolo, a colpi alterni, con zoccoli di bronzo. Quindi sfidò altri a farlo,
chiunque volesse il vello d’oro. Giasone gettò la sua veste di croco e compì
questa prima impresa. Il re Colco, ammirando la potenza del giovane, urlò pur
nel dolore muto (vv. 421- 422). Seguirono gli applausi dei compagni, poi la
seconda prova imposta dal figlio del sole. Il vello d’oro era tenuto stretto
dalle avide mascelle di un drago più grande di una nave da cinquanta remi.
Pindaro si affretta verso la conclusione: lunga via è per me tornare sulla
carreggiata, dice, l’ora mi tocca e conosco un sentiero breve (vv. 339- 341).
Sicché il poeta conclude rapidamente la storia del vello d’oro: “ ” (v. 444), uccise con artifici il serpente dall’occhio splendente, dal
dorso variopinto[6],
poi rapì Medea che fu consenziente e diverrà l’assassina di Pelia. Preso il
vello d’oro gli Argonauti tornarono a Lemno dove giacquero con le donne e fu
piantata la stirpe di Eufemo[7] (v.
456).
“Qui il poeta, nel modo che gli è proprio, interrompe il
racconto…si è scostato troppo dalla strada maestra, egli dice, ma non importa,
poiché conosce vie più brevi per tornarvi…Preme al poeta, poiché il momento
opportuno lo incalza, di esporre in tratti rapidissimi le vicende essenziali
del ritorno degli Argonauti. Varcarono l’oceano e il mare Rosso, giunsero
nell’isola di Lemno, qui nacquero i discendenti di Eufemo che migrarono a
Sparta e poi a Tera (l’antica Calliste[8])
e di lì Apollo concesse loro di raggiungere la Libia per governare la città di
Cirene. Si conchiude così, con struttura circolare, la seconda parte dell’ode
che riconduce il discorso all’attualità…”[9].
Tra gli Argonauti c’era Orfeo molto lodato, Zete e Calais, eroi con il
brivido sul dorso, dalle ali purpurèe, sollecitati dal padre Borea
Era accendeva nei semidèi il desiderio della nave perché nessuno restasse
presso la madre a smaltire una vita senza rischi ( , 330- 332)
L’indovino Mopso traeva auspici con animo propizio.
Iniziò un remigare insaziabile dalle rapide mani.
Precipitando nel baratro del rischio ( , 367)
pregarono di schivare l’indomito moto delle rocce cozzanti. Erano vive e
gemelle e rotolavano più rapide dei venti ma quel transito di semidèi recò loro
la morte.
Fine della Pitica IV di Pindaro
Apollonio, I canto delle Argonautiche
Apollonio
compila il catalogo degli eroi.
Il primo è
Orfeo consigliato da Chirone.
“Orfeo,
delicato e pensoso- tutti vinceva col
suono della lira”[10].
C’era Admeto la cui moglie Alcesti era
figlia di Pelia. Poi il vate Mopso.
Il suo
destino era morire in terra di Libia : “nessun male è così remoto dagli uomini
che non lo incontri” (I, 82).
Cfr. la sventura versatile (III. 600- -
poi
Oileo, padre di Aiace. Telamone (padre del primo Aiace) e Peleo figli di Eaco. Il timoniere Tifi. Atena aveva
istruito Argo a costruire la nave, la migliore, se non la prima. Poi Eracle che rappresenta l’eroismo
arcaico. Aveva appena catturato il cinghiale dell’Erimanto e lo aveva scaricato
vivo e incatenato nella piazza di Micene. Era accompagnato da Ila. Poi Nauplio
il padre di Palamede e Idmone, l’altro
indovino destinato a morire, come Mopso. Poi Castore e Polluce figli
di Leda e fratelli di Elena. Omero ricorda Leda come madre di Castore, domatore
di cavalli e di Polluce- ( Odissea, XI, 300).
“Sempre i
Dioscùri hanno prevalso- dove vincesse luce di gioventù e bellezza”[11].
Poi i
fratelli Ida, tracotante ( e Linceo dalla vista
sovrumana: vedeva dentro la terra.
“Giorno e
notte Lincèo, con la sua vista acuta,- fra scogli e secche la sacra nave
guidava” [12],
Poi Augia dall’Elide.
Poi Meleagro dall’Etolia. Nel IX
dell’Iliade è un esempio negativo per Achille. Si risolse
tardi a difendere gli Etoli di Calidone dai Cureti. Lo fece solo quando gli
aggressori arrivarono a scuotere il talamo dove era steso con Cleopatra. Sicché
gli Etoli non gli diedero i doni.
Poi Zete e Calais, alati, figli di Orizia e di
Borea che la rapì mentre danzava sull’Ilisso. Mito ricordato
all’inizio del Fedro platonico. “Era sortita ai Boreadi
l’azione- del soccorso deciso e veloce”[13]
Augia che la
fama diceva figlio del sole, regnava sugli Elei (I, 171- 172)
Poi Acasto
figlio di Pelia e Argo operaio di Atena. Infatti aveva costruito la nave
seguendo gli ordini di Atena.
Gli
Argonauti si portano da Iolco a Pagase, il porto. Le due località sono situate
in Magnesia, una penisola della Tessaglia. La folla li accompagnava con slancio
e loro spiccavano come gli astri lucenti brillano in mezzo alle nuvole. E
dicevano: (246), inevitabile è il viaggio e dura la fatica. Le donne
piangevano. Alcimede, la madre di Giasone depreca l’orribile impresa.
Contribuisce
alla caratterizzazione antieroica di Giasone.
Cfr. bella
matribus detestata
Virgilio
nella prima Georgica (v.511) depreca "Mars impius "
che al tempo della guerra civile infuria dovunque, come nell'età del
ferro. Orazio ricorda che le guerre, che pure a molti piacciono, sono
esecrate dalle madri: “ bellaque matribus- detestata” (carm.
1. 1. 24- 25), quindi qualifica il dio Marte come torvus (carm. 1,
28, 17) e cruentus (carm. 2. 14. 13).
Tibullo [14]attribuisce
la colpa della guerra alla brama dell'oro:" Quis fuit horrendos
primus qui protulit enses? /Quam ferus et vere ferreus ille fuit!// Tum caedes
hominum generi, tum proelia nata,/tum brevior dirae mortis aperta via est.// An
nihil ille miser meruit; nos ad mala nostra/vertimus, in saevas quod dedit ille
feras?//Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,/faginus adstabat
cum scyphus ante dapes " (I, 10, 1- 8), Chi per primo ha tirato
fuori le orrende spade? Oh quanto feroce e davvero ferreo[15] fu
quello! Allora la strage nacque per il genere umano, allora la guerra, allora
più breve si è aperta la via della morte tremenda. Oppure quel disgraziato non
ebbe colpa; ma noi volgemmo a nostro danno quello che egli ci diede contro le
belve feroci?
Questa è colpa
del ricco oro, e non c'erano guerre quando una coppa di faggio stava davanti
alle vivande.
Era già
l'età del business.
--------------------
[3] Era nato, secondo Apollonio Rodio, dall’unione di Crono e Filira. La
sua natura era semiequina poiché il dio per celarsi a Rea aveva assunto la
forma di un cavallo dalla lunga criniera. Rea però li sorprese e Crono fuggì.
L’oceanina Filira, per vergogna, andò a nascondersi nelle grandi montagne
pelasghe dove diede alla luce il mostruoso Chirone, in parte dio, in parte
cavallo (Argonautiche, 2, vv. 1231 sgg).
[4] Bruno Gentili, Paola Angeli Bernardini, Ettore Cingano e Pietro
Giannini (a cura di), Pindaro Le Pitiche, p. 105,
[6] Cfr La Sfinge dal canto variopinto (Edipo re, v. 130) di cui
ho detto dopo il v. 300 e dirò altro dopo il v. 936.
[7] Uno degli Argonauti, quello che lanciò la colomba tra le Simplegadi
(Apollonio Rodio, Argonautiche, II, v. 562) per vedere, secondo le
istruzioni di Fineo, se l’uccello sopravviveva e se potevano tentare la prova
anche loro. Durante il passaggio periglioso Eufemo incitava i compagni a remare
con tutta la forza (v, 588- 589) Da lui sarebbe disceso il committente
dell’ode. Eufemo, discendente di Poseidone, era un esperto pilota e un
possibile successore di Tifi dopo la morte del timoniere, ma gli venne
preferito Anceo.
[9] Bruno Gentili, Paola Angeli Bernardini, Ettore Cingano e Pietro
Giannini (a cura di), Pindaro Le Pitiche, pp. 106- 107.
[14] Nato a Gabii o a Pedum , nel Lazio
rurale fra il 55 e il 50 a. C., morto tra il 19 e il 18 a. C. Sotto il suo nome
ci è giunto il Corpus tibullianum , tre libri di elegie. Sono
sicuramente e autenticamente tibulliani i primi due che cantano l'amore per due
donne, Delia e Nemesi. Il terzo libro che gli umanisti divisero in due parti è
un' antologia di vari autori, compreso Tibullo. Quintiliano lo definisce tersus
atque elegans maxime…auctor (Institutio oratoria , X, 93),
l'autore più elegante e raffinato, nel campo dell'elegia dove i latini possono
sfidare i Greci.
Nessun commento:
Posta un commento