Tenos |
Osservavo il chiarore dei flutti spumeggianti e dei gorghi solcati dal veicolo marino. Formavano come
una strada bianca di sassi in mezzo al verde del prato.
Sbarcai a Tenos dove volevo prendere un altro battello per arrivare
all’isola sacra[1]
che diede i natali ai due occhi del cielo. Ma le corse di quel giorno erano già
tutte finite: dovevo aspettare la mattina seguente. Cercai un ostello dove passare
la notte, fissai un giaciglio, quindi mi chiesi come impiegare sensatamente e
proficuamente il resto della giornata che non volevo sprecare, cioè passare
senza attività valide a potenziare il corpo e la mente.
Potevo girare l’isola liberamente, ossia senza pensare con retrogusti
cattivi ai conoscenti di Bologna che mi aspettavano a ore, determinate da loro,
per entrare in un enorme gommone motorizzato e andare stipati in cerca di baie deserte dove arrostire
salsicce affumicando la santa luce del cielo.
Dopo due giorni così malamente malvissuti volevo ricaricarmi di energie
vitali e morali. Sul mezzogiorno, lavati gli stracci sudati e lasciatili ad
asciugare sopra lo zaino appoggiato sul materasso disteso nella terrazza del
dormitorio, cominciai a pedalare seminudo nel sole mentre venivo accarezzato
dall’aria pregna di aromi marini, vegetali e terrestri: respirandola lietamente
a pieni polmoni sentivo di partecipare a una festa della natura profumata,
calda e luminosa come una bella ragazza piena di salute, di gioia, di vita. Le
cime degli alberi, le teste degli animali, gli occhi umani apparivano sereni
e luminosi, piene di promesse e speranze.
Con gli occhi stenebrati del tutto vedevo
la luce vivace danzare tripudi sulla grande tavola liscia e violacea del
mare, quindi balzare sui declivi dei monti dove la accompagnavano battendo le
ali gli innumerevoli cori delle cicale
pazze di sole, dove i penduli fichi stillavano gocce dolci le quali
moltiplicavano quel dono del cielo che assentiva alla vita.
Nell’aria celeste gli uccelli cantavano inni di gratitudine alla fonte
della luce divina, l’occhio del giorno d’oro, l’immagine che porta la massima significazione
di Dio alla nostra vista mentale . Con le narici aspiravo i profumi soavi della
terra, odorosa come un frutto maturo appena spiccato dal ramo. Mi domandavo
come può non essere felice una creatura in un paradiso così ben fatto
dall’artista divino. Assaporavo tutti gli umori distillati dagli occhi del sole
che vedono tutto e gioivo osservando i colori illuminati e accentuati dalla
pienezza del suo splendore.
Ogni tanto mi fermavo per cogliere un fico o un grappolo d’uva dolce
offerta, già maturata dal caldo che favorisce la vita.
Mentre mangiavo questi doni dell’estate incoronata dai raggi del dio,
pensavo ai regali ricevuti dalle meravigliose donne che avevo già conosciute.
Li ho sempre considerati “borse di studio”, come le belle giornate.
Ringraziavo la madre terra generosa e felice, poi riprendevo a pedalare su
e giù per le strade dell’isola. Ascendere le impervie salite eliminando gli
umori cattivi, acquistando la forma corporea più bella possibile e la mente
serena quanto il cielo era una gioia: mi sembrava di salire per una scala i cui
gradini portavano al dio sole; ed era una gioia lanciarmi giù per le rapide
discese rinfrescando il volto e il petto
con i fiotti veloci dell’aria sulla pelle abbronzata sentendomi armonizzato con l’opera d’arte dove avevo la
fortuna di essere vivo del tutto, lontano e diverso dagli sdilinquiti borghesi
che arrostivano grassi animali nelle baie sassose ottenebrando la luce del sole
o la cristallina purezza della notte lunare.
giovanni ghiselli 5 febbraio 2020
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