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martedì 18 febbraio 2020

Elena. Parte 10. Il ritorno a Debrecen in bicicletta diversi decenni più tardi. La finestra vuota


Luglio 2011
Il ritorno a Debrecen in bicicletta diversi decenni più tardi. La finestra vuota

Nell’estate del 2011, sempre in luglio, quarant’anni dopo quella sera di gioia, che ricordo ancora come una delle più belle e felici di mia vita mortale, sono tornato a Debrecen in bicicletta, da Bologna, con Fulvio e con altri due amici più giovani, due quarantenni ex alunni, Maddalena e Alessandro, due novizi dell’Ungheria. 
Ci siamo tornati, Fulvio e io, protesi alla giovinezza lontana come verso il sole al tramonto, quando cade nel mare con puro fulgore. Ho affrontato la grande fatica di mettermi al passo con la giovinezza e ho pure rischiato la pelle saltando dalla bicicletta gialla in un fosso verde per schivare un’automobile che mi veniva addosso quando costeggiavamo il Balaton. E dopo otto giorni sono arrivato a Debrecen, pedalatore tenace e annoso, quasi sessantasettenne. 
Non me la sono sentita di tornare in quel bosco incantato sopra un aereo o in treno, funebri convogli di una vecchiaia canuta risultato di una vita vissuta male, senza l’amore. Nemmeno in quell’aggeggio per paralitici o neghittosi che è l’automobile. 
 Vecchio sono vecchio, ma faccio di tutto per conservare le forze di allora. Mantengo pure i capelli ancora neri, e non certo con un pennello. Merito anche di Elena, della mamma etrusca e ancor più di sua sorella Giulia che è morta relativamente presto, a 82 anni, ma senza un capello bianco. La mamma mi raccomandò di portarle un cero di ringraziamento sulla tomba dei Martelli, a Sansepolcro. Ci vado ogni anno da solo, in bicicletta, pedalatore romito, per dare al rito un valore più grande, un significato veramente olimpico. Niente piò fermarmi sul cammino della pietà. 
Né forature di bicicletta, né i denti da vampiro dei cani randagi resi feroci dalla catena e dalla stupidità dei padroni. Nemmeno orsi inferociti, né cinghiali fulminei
[1]. Non può godere la strega Erichto strappando pezzi del mio cadavere alle loro fauci cruente[2].
Non ho bisogno di chiamare in aiuto Ecate ctonia che, indossati aspetti atroci, minacciando con la più orrenda delle sue facce schifose[3] atterrisce anche i cani [4] dal cupo latrato. 
 Conservo dentro di me la forza con cui la mamma mi ha portato in grembo e mi ha allevato. Siamo gente dura e capace di tollerare le fatiche
[5]: la nonna Margherita Scattolari veniva dalla terra di Montegridolfo
Me ne ha lasciati 18 ettari che un costruttore voleva comprare per edificarci appartamenti. Mi dava soldi e appartamenti Non gliel’ho venduta. Per amore e per rispetto degli avi Scattolari. La tengo affittata per poche migliaia di euro all’anno e non rimpiango i tanti soldi del palazzinaro. 
Il nonno materno Carlo Martelli da parte sua vinceva tutte le gare ciclistiche cui partecipava. L’ho letto nella “Nazione di Firenze” di un giorno del 1899. Da lui ho ereditato, oltre il talento ciclistico, l’amore per le donne e per il sole. Il lascito più bello è questo del nonno mio che ora è nel cielo. 
Ogni anno vado a onorare la mamma, i nonni, le zie per tutto quello che mi hanno dato. 
Poi salgo in bicicletta alla Verna, sull’aspro monte tra Tevere e Arno
[6] per pregare accanto al letto dell’onesto Francesco. 
Non est in toto orbe sanctior mons, in tutto il mondo non c’è un monte più santo, si legge in un portale del santuario. 

Una notte dell’estate 2011 dunque, il luglio del ritorno a Debrecen in bicicletta, andati a letto gli amici, sono tornato sotto la finestra dell’apparizione fatidica. Mentre camminavo in direzione del collegio numero uno dove alloggiavano le finlandesi, già da lontano mi apparve quella finestra e mi parve di vedervi di nuovo affacciata Elena ridere felice nel fulgore della sua gioventù. Il cuore mi balzò dal petto alla bocca e la chiamai tre volte. Ma la visione sparì, simile a un sogno fugace
[7], lasciando vuota quella finestra oramai sconsacrata e deserta, onde mesto riluceva il raggio della luna[8] dea dai tre nomi[9], compreso uno inquietante[10]. Arretrai desolato.
 Ho ricordato i sentimenti forti, pieni di gioia di quella sera remota e ho sentito la necessità di raccontarla, di renderla eterna, se il giudizio finale che è quello dell’arte, sarà positivo. 
Le cose, come le persone, hanno una loro volontà. Questa pagina mi ha chiesto di essere scritta: lo ha voluto. Elena si avvia a diventare la mia posterità. Helena di Yväskylä farà concorrenza a Elena di Troia. 
Ora noi due, i giovani amanti di quell’estate lontana, siamo due vecchi al tramonto e ci avviamo verso quella lunga, eterna notte d’inverno del tutto imprevista allora, in quel tempo fatato e felice quando non le citavo Catullo, il poeta dei soli che possono cadere nel buio e tornare, mentre noi, una volta spenta la nostra breve luce, dobbiamo dormire una notte eterna. Non misi queste parole ammonitrici tra le tante altre di autori. Mi sembrava fuori luogo e sinistramente ominosa. 
 Nel 2011 il bosco sacro di quel tempo remoto non era più tutto pieno di dèi, il ponticello sul lago della foresta oramai pure lei sconsacrata aveva il legno infradiciato, gli edifici simbolici erano stati abbattuti o profanati, come il ristorante della mia prima cena nel luglio del 1966 
[11] l’ottocentesco Hungaria, trasformato in un orrendo McDonald. 
Metamorfosi abominevole. 
 Elena forse è già stata disfatta dal suo precipitoso destino di donna mortale, e si è trasformata in qualche altra cosa dell’universo, in quanto tutto scorre e ogni immagine si forma fluttuando
[12]. Comunque la redimerò dalla morte già scontata o da scontare con quanto scrivo e scriverò di lei.
 
Io sono un vecchio, una testa non ancora del tutto intronata
[13], ma già isolata in uno spazio sempre più arido, scuro e deserto, eppure la strana, preziosa luce di quei giorni remoti continua a risplendere dentro di me, e con questa, e con questo racconto, voglio illuminare altre vite, prima che si spenga, presto o tardi di certo, ma forse non per sempre, la mia.



[1] Cfr. Stazio, Tebaide, II, 123 - 124
[2] Cfr. Lucano, Pharsalia, VI, 552 - 553. 
[3] Cfr. Seneca, Medea, 751 “ pessima induta vultus, fronte non una minax”.
[4] Cfr. Teocrito, le Incantatrici 12
[5] inde genus durum sumus experiensque laborum” (Ovidio, Metamorfosi I, 414
[6] Cfr. Dante, Paradiso, XI, 106 - 107) “nel crudo sasso intra Tevere e Arno - da Cristo prese l’ultimo sigillo, - che le sue membra due anni portarno”
[7] Cfr. Virgilio, Eneide, II, 794
[8] Cfr. Leopardi: “quella finestra, /ond’eri usata favellarmi, ed onde/mesto riluce delle stelle il raggio/è deserta”, Le ricordanze (vv. 141 - 144),
[9] Luna, Diana, Ecate.
[10] Ecate è la signora e la maestra di maghe e streghe, da Medea alle sorelle fatali del Macbeth di Shakespeare.
[11] Cfr. L’arrivo a Debrecen, presente nel blog
[12] Ovidio nel XV libro delle Metamorfosi dà voce a Pitagora il quale vieta di sacrificare creature viventi agli dèi, e insegna che l'anima non muore ma trasmigra in altri corpi e altre regioni: "Cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago" (v. 178).
[13] Cfr. T. S. Eliot, Gerontion) , “ I am an old man, A dull head amog windy spaces". (vv. 15 - 16), io sono un vecchio, una testa intronata tra spazi ventosi

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