NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 13 febbraio 2020

Elena. Parte 5. La conclusione speranzosa del primo giorno della nuova era

John Strudwick, A Golden Thread
La conclusione speranzosa del primo giorno della nuova era

“Devi rovesciare questo insuccesso, metterlo sottosopra, capovolgerlo, farlo diventare un trionfo. Ascolta il tuo demone, che poi sei tu, tu sei la tua incoercibile Moira. Devi riflettere. Ma riflettere al cubo[1].
Tempus tacendi. Devi prepararti un discorso colorito ma non superficiale, colto eppure originale, forte ma non arrogante, ricco di pathos senza essere querulo. Chi può darle tanto? Nessuno, a parte te. Anche tu sei un gran figo, se ce la metti tutta. Dai retta al demone tuo, non contaminarlo con l’impulsività delle bestie. Oggi non è andata benissimo ma la prossima volta vedrai: Cloto non permette alla sorte di stare ferma, anzi: fa girare ogni fato[2].
 Proprio tutta però devi mettercela, Gianni. Nemmeno all’inerzia devi lasciarti andare, neanche a cercarne una meno rara, preziosa, difficile.
E’ difficile, sì. Chiama a raccolta tutte le forze, le capacità, le arti angeliche e diaboliche in tuo possesso. Il primo passo nella via che devi seguire sarà quello dell’inventio: di reperire gli argomenti.
Quindi procederai su quella strada metodicamente. Senza chiederti tiv" ojdw'/ tii" oJdw'/; tiv";[3] . Su quella strada sarete solo voi due

 Tra noi ci sarà un alto agone di natura fisica e mentale, una gara davvero olimpica. La vittoria di entrambi sarà l’unione, fisica e mistica, una gioiosa ierogamia. Questa volta non puoi sbagliare una sillaba, anzi nemmeno una virgola”.
Ondeggiavo tra il pessimismo, l’esaltazione e l’autocorrezione ironica del superomismo. Sapevo che l’humus del rapporto umano, e sessuale che auspicavo, ontologicamnte intesi, era un terreno composto del mio desiderio di lei e della capacità di comunicarglielo, di farglielo condividere attraverso le parole fornitemi dalle esperienze precedenti e dalle letture. Se il mio aspetto non ostacolava. Ma pensavo che poteva bastare. Centrale per tale donna doveva essere la parola colta, pensavo. E non mi sbagliavo.
Il nostro piacere non sarebbe stato solo carnale ma avrebbe compreso l’amore per il logos, inteso come pensiero e come parola.
Una voluptas piena: diffusa nel corpo e nell’anima.
Dovevo provarci di nuovo, più avanti. Senza fretta funesta, fonte di calamità, e pure senza ozio cattivo, quello che lascia passare l’occasione, sempre “calva di dietro” purtroppo.
Il mese di Debrecen passa in fretta; l’intera vita umana è breve, e non è possibile rimetterla in gioco, come si fa con una pedina.
 Sapevo che non potevo permettermi di sbagliare né di perdere tempo. Dovevo acciuffare, prendere per il ciuffo nel momento giusto l’occasione offertami dal destino.
Mi vennero in mente dei versi di Mimnermo:
"Ma di breve durata è come un sogno
la giovinezza preziosa; e la tremenda e deforme
vecchiaia subito sul capo è sospesa,
odiosa insieme e spregiata".
Quaranta anni più tardi, grande mortalis aevi spatium, una grossa porzione della vita mortale, nel luglio del 2011, sarei tornato a Debrecen, quasi vecchio oramai, tuttavia in bicicletta, con una pedalata di 1200 chilometri in 8 giorni, e avrei ricordato come un sogno quella sera e tutto quel mese fatato della mia giovinezza preziosa. Uno dei più belli della mia vita: quando potei godere in pieno del favore degli dèi e attraverso il piacere giunsi alla eudaimonia, all’accordo con il mio demone, cioè alla felicità. Con lei.

Intanto nell’attesa soffrivo, ma intuivo che la sofferenza portava intelligenza della situazione[4]. Se volevo interessarla, dovevo oltrepassare il personaggio che pure con grande sforzo e discreta soddisfazione avevo già raggiunto, senza però essere diventato ancora una persona: in quel periodo lontano ero piuttosto contento di avere costruito in me stesso il giovane uomo non sgradevole, presunto elegante, non senza qualche nota di sprezzatura, dotato di alcune letture buone, di un’automobile simpatica, quasi originale per l’epoca, di denaro in quantità sufficiente per invitare a teatro e a cena una donna o un amico, e questo anche grazie ai mezzi che mi elargivano la vecchia nonna e le zie, le anziane tiranne, oramai domate e ridotte a dispensiere generose del mio benessere materiale.
 “Sorelle Materassi”, le chiamava la mamma.
 Ebbene Helena Sarjantola, con il suo stile nobile e maturo, cosciente di sé, mi fece capire che nella mia umanità dovevo trovare qualcosa di meglio del dandy di provincia, del giovin signore raffinato che volevo sembrare e non ero. Avevo bisogno di una donna siffatta per diventare quello che sono. Avermi aiutato a trovare dentro di me una persona migliore, ossia più buona, più intelligente, autentica e lieta del personaggio che cercavo in vari modelli esterni, per imitarlo ed esibirlo agli altri, è stato il grande dono suo.
 Gliene sono grato ancora, dopo più di quarant’anni da quell’evento.
Cinquanta oramai.
 Ci voleva quella creatura di nome e formato classico, Elena dalle braccia bianche come mandorle sbucciate, dalle splendide chiome sciolte sul collo candido[5], era necessaria per provocare una nuova maturazione mia a quasi ventisette anni: se non l’avessi incontrata, probabilmente avrei continuato per chissà quanto tempo a fare il ragazzo carino, piacente, quale ero diventato dopo anni di esercizio in tal senso: sorridente e un poco ridicolo, incipriato di alcune letture citate spesso, anche a sproposito, sfoggiate da arricchito intellettuale come l’automobile strana, le magliette firmate, le scarpe di marca costosa, alternate con altre dalla suola bucata, da comunista o da zingaro chic, noncurante dell’abbigliamento, eppure domicilato in un appartamentino di lusso nella piazza centrale di Padova, una nicchia fighetta. All’epoca ero, in qualche modo, fortunato, ma non certo felice. Difettavo di autenticità e di realtà. Mi atteggiavo a comunista, ad artista, ed ero solo un piccolo borghese sviato.
Con il personaggio che rappresentavo potevo trovare ragazze a loro volta carine, ma senza esigenze di stile davvero elegante, di pensiero profondo quale attribuivo a quella finnica che, conosciuta da poco, stava transvalutando, cioè rivoluzionando la mia scala di valori fasulli, piccolo borghesi e infantili.
La realtà era cosa più seria, moralmente più seria di me.
C’erano diverse femmine appetibili quella sera di luglio, la ismerkedési est [6], nel grande cortile dell’Università, dove Eros ci aveva riuniti in tanti proprio per farci conoscere.
 Alcune poi erano decisamente belle: ad esempio Katalin, la ragazza ungherese conosciuta nel ’68, quando era ancora fanciulla diciottenne. Nel 1971 non era più tanto pulzella, né come esperienza né come atteggiamento: nel frattempo si era sposata. non bene, e quella sera sembrava avere voglia di cornificare il marito spregiato, e proprio con me, se non erravo nell’interpretare il tono aspro, cattivo, che usava con lui, e le occhiate incoraggianti, i caldi sorrisi ammiccanti che mi indirizzava. Avrei potuto vivere un’avventura piacevole e piccante con l’indigena venusta e procace, godere di quelle natiche belle, per giunta agghindate, da giovane callipigia magiara, ma costei non aveva nulla di fine, mentre io sentivo la necessità di Helena di Yväskylä per crescere ancora.
Katalin per giunta non era contenta di sé, e alla mia crescita non giovava piacere a una donna che non piaceva a se stessa.

 Così mi tenni impegnato per tutta la “sera della conoscenza” a studiare Helena, onde trovare in me le parole adatte per impressionarla, per lasciare un’impronta nell’anima sua durante l’incontro successivo. Poi magari pure un segno di me in quella mente bella e in quel corpo formoso che compendiavano il cosmo. Sarebbe stato un trofeo e un’apoteosi. Riguardo a Katalin, che venne a invitarmi più di una volta, offrendomi anche un numero di telefono, non coniugale e domestico, ma galeotto, cercai di prendere tempo, per vedere se prima di accettarne o rifiutarne l’oblazione, per niente sgradita, potevo avere una seconda occasione con l’altra, la femmina umana, anzi più che umana: nel mio sentimento Elena era piena di grazia, piena di Dio, foriera di un destino buono, del fato che, solo, era mio. Era l’eterno femminino che doveva trarmi verso l’alto[7].
 Annusavo come un cane dalle buone narici. Fiutavo una serie di eventi favorevoli, da non lasciarmi scappare. Contavo sulle capacità della mia mente e del mio carattere.
La luce del mio intelletto non doveva disperdersi, ma focalizzarsi su quella donna, illuminarla e scaldarla. La forza della mia intelligenza doveva manifestarsi diritta come un raggio di sole, o come una freccia, e colpirla. Senza farle del male però.
 “Il futuro verrà” mi dissi, ricordando Eschilo[8], e mi avviai verso la camera e il letto, da solo.
Salutai gli amici: “Avete ragione ragazzi, sono fissato con le finniche. Vado a letto in anticipo per pensare a quest’ultima senza essere disturbato da contubernali molesti quali voi siete. Buona notte”.
“Fai bene a pensarla da solo, magari masturbati pure, tanto non guzza!”, ripeté Claudio battendo sul tavolo il suo pugno freddo, da diavolo, mentre un sorriso carnivoro gli deformava il volto. In certi momenti aveva la forza e il vigore di una belva.
 L’ augurio sinistro comunque non mi smontò, anzi ravvivò il mio desiderio di Helena. Schivavo gli assalti come con il canotto evitavo le onde nel mare di Pesaro tanti anni prima. Da una cosa se ne imparano tante perché tutto è collegato con tutto
“Il demonio è l’infernale personificazione della negatività”, mormorai con un sorriso.
 Poi a voce udibile dissi: “Tu Claudio ora per me sei e{n ti tw`n ajdiafovrwn[9], una cosa di quelle indifferenti, di cui non tengo alcun conto. Comunque la bellezza non subisce decreti sulla piazza ignobile del mercato.”
Uscii e mentre passavo accanto alla fontana, variopinta, illuminata da luci colorate pensai: “il successo delle prossime mosse mi aiuterà a trovare la via della mia vita. Non sono un sapiente, ma alcune cose le so”.
Andai a letto. Ero solo e sospiroso, ma il guanciale non era pieno di sassi[10], né conteneva uno zoccolo di giumenta [11]. Piuttosto era soffice e sodo nello stesso tempo, piacevole e utile come le mammelle di Helena. “La vita imita l’arte”, pensai dandomi scioccamente un sacco di arie davanti a me stesso, “non l’arte la vita”[12].
Mi addormentai speranzoso. Abbastanza. Apettavo che le stelle si mostrassero liete verso di me.



[1] Cfr. Vladimir Nabokov, Il dono, p. 23.
[2] Cfr. Seneca, Tieste, 617 - 618: prohibtque Clotho – stare fortunam: rotat omne fatum.
[3] Chi è per strada, chi è per strada? Chi? (Euripide, Baccanti, 68.
[4] Cfr. Eschilo, Agamennone 177 tw` pavqei mavqo~, attraverso il dolore la comprensione. Poi Ovidio: “Dolor hic tibi proderit olim” (Amores, III, 11, 7) Un giorno questo dolore ti sarà utile.
[5] Cfr. Virgilio, Georgica IV, 334 e 337: Nymphae…caesariem effusae nitidam per candida colla.
[6] La sera della conoscenza
[7] Sono le ultime parole del Faust II di Goethe: Das Ewigweibliche - Zieht uns hinan ”.
[8] Cfr. l’'Agamennone: "to; mevllon h{xei" (v. 1240) , il futuro verrà.
[9] Cfr. Marco Aurelio, A se stesso V, 20.
[10] Cfr. Euripide, Troiane, 508.
[11] Saxo Grammaticus, Gesta Danorum, 3, 6, 11.
[12] Cfr La decadenza della menzogna di Oscar Wilde.

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