John Strudwick, A Golden Thread |
“Devi rovesciare questo insuccesso, metterlo
sottosopra, capovolgerlo, farlo diventare un trionfo. Ascolta il tuo demone,
che poi sei tu, tu sei la tua incoercibile Moira. Devi riflettere. Ma
riflettere al cubo[1].
Tempus tacendi. Devi
prepararti un discorso colorito ma non superficiale, colto eppure originale,
forte ma non arrogante, ricco di pathos senza essere querulo. Chi può darle
tanto? Nessuno, a parte te. Anche tu sei un gran figo, se ce la metti tutta.
Dai retta al demone tuo, non contaminarlo con l’impulsività delle bestie. Oggi
non è andata benissimo ma la prossima volta vedrai: Cloto non permette alla
sorte di stare ferma, anzi: fa girare ogni fato[2].
Proprio tutta però devi mettercela, Gianni.
Nemmeno all’inerzia devi lasciarti andare, neanche a cercarne una meno rara,
preziosa, difficile.
E’ difficile, sì. Chiama a raccolta tutte le forze, le
capacità, le arti angeliche e diaboliche in tuo possesso. Il primo passo nella
via che devi seguire sarà quello dell’inventio: di reperire gli
argomenti.
Quindi procederai su quella strada metodicamente.
Senza chiederti tiv" ojdw'/ tii" oJdw'/; tiv";[3] . Su quella strada sarete solo
voi due
Tra noi ci sarà un alto agone di natura fisica e
mentale, una gara davvero olimpica. La vittoria di entrambi sarà l’unione,
fisica e mistica, una gioiosa ierogamia. Questa volta non puoi sbagliare una
sillaba, anzi nemmeno una virgola”.
Ondeggiavo tra il pessimismo, l’esaltazione e
l’autocorrezione ironica del superomismo. Sapevo che l’humus del rapporto
umano, e sessuale che auspicavo, ontologicamnte intesi, era un terreno composto
del mio desiderio di lei e della capacità di comunicarglielo, di farglielo
condividere attraverso le parole fornitemi dalle esperienze precedenti e dalle
letture. Se il mio aspetto non ostacolava. Ma pensavo che poteva bastare.
Centrale per tale donna doveva essere la parola colta, pensavo. E non mi
sbagliavo.
Il nostro piacere non sarebbe stato solo carnale ma
avrebbe compreso l’amore per il logos, inteso come pensiero e come parola.
Una voluptas piena: diffusa nel corpo
e nell’anima.
Dovevo provarci di nuovo, più avanti. Senza fretta
funesta, fonte di calamità, e pure senza ozio cattivo, quello che lascia
passare l’occasione, sempre “calva di dietro” purtroppo.
Il mese di Debrecen passa in fretta; l’intera vita umana
è breve, e non è possibile rimetterla in gioco, come si fa con una pedina.
Sapevo che non potevo permettermi di sbagliare
né di perdere tempo. Dovevo acciuffare, prendere per il ciuffo nel momento
giusto l’occasione offertami dal destino.
Mi vennero in mente dei versi di Mimnermo:
"Ma di breve durata è come un sogno
la giovinezza preziosa; e la tremenda e deforme
vecchiaia subito sul capo è sospesa,
odiosa insieme e spregiata".
Quaranta anni più tardi, grande mortalis
aevi spatium, una grossa porzione della vita mortale, nel luglio del 2011,
sarei tornato a Debrecen, quasi vecchio oramai, tuttavia in bicicletta, con una
pedalata di 1200 chilometri in 8 giorni, e avrei ricordato come un
sogno quella sera e tutto quel mese fatato della mia giovinezza preziosa. Uno
dei più belli della mia vita: quando potei godere in pieno del favore degli dèi
e attraverso il piacere giunsi alla eudaimonia, all’accordo con il mio demone,
cioè alla felicità. Con lei.
Intanto nell’attesa soffrivo, ma intuivo che la
sofferenza portava intelligenza della situazione[4]. Se volevo
interessarla, dovevo oltrepassare il personaggio che pure con grande sforzo e
discreta soddisfazione avevo già raggiunto, senza però essere diventato ancora
una persona: in quel periodo lontano ero piuttosto contento di avere costruito
in me stesso il giovane uomo non sgradevole, presunto elegante, non senza
qualche nota di sprezzatura, dotato di alcune letture buone, di un’automobile simpatica,
quasi originale per l’epoca, di denaro in quantità sufficiente per invitare a
teatro e a cena una donna o un amico, e questo anche grazie ai mezzi che mi
elargivano la vecchia nonna e le zie, le anziane tiranne, oramai domate e
ridotte a dispensiere generose del mio benessere materiale.
“Sorelle Materassi”, le chiamava la mamma.
Ebbene Helena Sarjantola, con il suo stile
nobile e maturo, cosciente di sé, mi fece capire che nella mia umanità dovevo
trovare qualcosa di meglio del dandy di provincia, del giovin signore raffinato
che volevo sembrare e non ero. Avevo bisogno di una donna siffatta per
diventare quello che sono. Avermi aiutato a trovare dentro di me una persona
migliore, ossia più buona, più intelligente, autentica e lieta del personaggio
che cercavo in vari modelli esterni, per imitarlo ed esibirlo agli altri, è
stato il grande dono suo.
Gliene sono grato ancora, dopo più di
quarant’anni da quell’evento.
Cinquanta oramai.
Ci voleva quella creatura di nome e formato
classico, Elena dalle braccia bianche come mandorle sbucciate, dalle splendide
chiome sciolte sul collo candido[5], era
necessaria per provocare una nuova maturazione mia a quasi ventisette anni: se
non l’avessi incontrata, probabilmente avrei continuato per chissà quanto tempo
a fare il ragazzo carino, piacente, quale ero diventato dopo anni di esercizio
in tal senso: sorridente e un poco ridicolo, incipriato di alcune letture
citate spesso, anche a sproposito, sfoggiate da arricchito intellettuale come
l’automobile strana, le magliette firmate, le scarpe di marca costosa,
alternate con altre dalla suola bucata, da comunista o da zingaro chic,
noncurante dell’abbigliamento, eppure domicilato in un appartamentino di lusso
nella piazza centrale di Padova, una nicchia fighetta. All’epoca ero, in
qualche modo, fortunato, ma non certo felice. Difettavo di autenticità e di
realtà. Mi atteggiavo a comunista, ad artista, ed ero solo un piccolo borghese
sviato.
Con il personaggio che rappresentavo potevo trovare
ragazze a loro volta carine, ma senza esigenze di stile davvero elegante, di
pensiero profondo quale attribuivo a quella finnica che, conosciuta da poco,
stava transvalutando, cioè rivoluzionando la mia scala di valori fasulli,
piccolo borghesi e infantili.
La realtà era cosa più seria, moralmente più seria di
me.
C’erano diverse femmine appetibili quella sera di
luglio, la ismerkedési est [6], nel grande
cortile dell’Università, dove Eros ci aveva riuniti in tanti proprio per farci
conoscere.
Alcune poi erano decisamente belle: ad esempio
Katalin, la ragazza ungherese conosciuta nel ’68, quando era ancora fanciulla
diciottenne. Nel 1971 non era più tanto pulzella, né come esperienza né come
atteggiamento: nel frattempo si era sposata. non bene, e quella sera sembrava
avere voglia di cornificare il marito spregiato, e proprio con me, se non
erravo nell’interpretare il tono aspro, cattivo, che usava con lui, e le
occhiate incoraggianti, i caldi sorrisi ammiccanti che mi indirizzava. Avrei
potuto vivere un’avventura piacevole e piccante con l’indigena venusta e
procace, godere di quelle natiche belle, per giunta agghindate, da giovane
callipigia magiara, ma costei non aveva nulla di fine, mentre io sentivo la
necessità di Helena di Yväskylä per crescere ancora.
Katalin per giunta non era contenta di sé, e alla mia
crescita non giovava piacere a una donna che non piaceva a se stessa.
Così mi tenni impegnato per tutta la “sera della
conoscenza” a studiare Helena, onde trovare in me le parole adatte per
impressionarla, per lasciare un’impronta nell’anima sua durante l’incontro
successivo. Poi magari pure un segno di me in quella mente bella e in quel corpo
formoso che compendiavano il cosmo. Sarebbe stato un trofeo e un’apoteosi.
Riguardo a Katalin, che venne a invitarmi più di una volta, offrendomi anche un
numero di telefono, non coniugale e domestico, ma galeotto, cercai di prendere
tempo, per vedere se prima di accettarne o rifiutarne l’oblazione, per niente
sgradita, potevo avere una seconda occasione con l’altra, la femmina umana,
anzi più che umana: nel mio sentimento Elena era piena di grazia, piena di Dio,
foriera di un destino buono, del fato che, solo, era mio. Era l’eterno
femminino che doveva trarmi verso l’alto[7].
Annusavo come un cane dalle buone narici.
Fiutavo una serie di eventi favorevoli, da non lasciarmi scappare. Contavo
sulle capacità della mia mente e del mio carattere.
La luce del mio intelletto non doveva disperdersi, ma
focalizzarsi su quella donna, illuminarla e scaldarla. La forza della mia
intelligenza doveva manifestarsi diritta come un raggio di sole, o come una
freccia, e colpirla. Senza farle del male però.
Salutai gli amici: “Avete ragione ragazzi, sono
fissato con le finniche. Vado a letto in anticipo per pensare a quest’ultima
senza essere disturbato da contubernali molesti quali voi siete. Buona notte”.
“Fai bene a pensarla da solo, magari masturbati pure,
tanto non guzza!”, ripeté Claudio battendo sul tavolo il suo pugno freddo, da
diavolo, mentre un sorriso carnivoro gli deformava il volto. In certi momenti
aveva la forza e il vigore di una belva.
L’ augurio sinistro comunque non mi smontò, anzi
ravvivò il mio desiderio di Helena. Schivavo gli assalti come con il canotto
evitavo le onde nel mare di Pesaro tanti anni prima. Da una cosa se ne imparano
tante perché tutto è collegato con tutto
“Il demonio è l’infernale personificazione della
negatività”, mormorai con un sorriso.
Poi a voce udibile dissi: “Tu Claudio ora per me
sei e{n ti tw`n ajdiafovrwn[9], una cosa di quelle
indifferenti, di cui non tengo alcun conto. Comunque la bellezza non subisce
decreti sulla piazza ignobile del mercato.”
Uscii e mentre passavo accanto alla fontana,
variopinta, illuminata da luci colorate pensai: “il successo delle prossime
mosse mi aiuterà a trovare la via della mia vita. Non sono un sapiente, ma
alcune cose le so”.
Andai a letto. Ero solo e sospiroso, ma il guanciale
non era pieno di sassi[10], né conteneva uno zoccolo di giumenta [11]. Piuttosto era
soffice e sodo nello stesso tempo, piacevole e utile come le mammelle di
Helena. “La vita imita l’arte”, pensai dandomi scioccamente un sacco di arie
davanti a me stesso, “non l’arte la vita”[12].
Mi addormentai speranzoso. Abbastanza. Apettavo che le
stelle si mostrassero liete verso di me.
[1] Cfr. Vladimir Nabokov, Il dono, p. 23.
[2] Cfr. Seneca, Tieste, 617 - 618: prohibtque Clotho
– stare fortunam: rotat omne fatum.
[3] Chi è per
strada, chi è per strada? Chi? (Euripide, Baccanti, 68.
[4] Cfr. Eschilo, Agamennone 177 tw` pavqei
mavqo~, attraverso il dolore la comprensione. Poi Ovidio: “Dolor
hic tibi proderit olim” (Amores, III, 11, 7) Un giorno
questo dolore ti sarà utile.
[5] Cfr. Virgilio, Georgica IV, 334 e 337: Nymphae…caesariem
effusae nitidam per candida colla.
[6] La sera della conoscenza
[7] Sono le ultime parole del Faust II di Goethe: Das
Ewigweibliche - Zieht uns hinan ”.
[8] Cfr. l’'Agamennone: "to; mevllon h{xei" (v. 1240) , il futuro verrà.
[9] Cfr. Marco Aurelio, A se stesso V, 20.
[10] Cfr. Euripide, Troiane, 508.
[11] Saxo Grammaticus, Gesta Danorum, 3, 6, 11.
[12] Cfr La decadenza della menzogna di Oscar Wilde.
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