Giovanni Pascoli |
Quando vide la prima luce, Medea raccolse con le
mani i biondi capelli della chioma che cadevano senza cura, si unse la pelle,
indossò uno splendido peplo e si mise un velo bianco sul capo, scordando il
dolore. Chiamò le 12 ancelle vergini e fece aggiogare i muli al carro per
recarsi al tempio di Ecate. Prese un favrmakon chiamato Prometeo: chi se ne unge, diventa
invulnerabile alle armi e al fuoco. Si formò quando l’aquila crudivora fece
sprizzare il sangue di Prometeo: ne nacque un fiore alto un cubito (44 cm), giallo con due steli.
La radice (rJivza) era simile a carne
appena tagliata (Argonautiche III, 857).
Medea l’aveva raccolto in una conchiglia del
Caspio, e aveva invocato Ecate nella notte nera, coperta di abiti neri.
Quando tagliò la radice titanica, la terra muggì
e il figlio di Giapeto gemette angosciato.
Un fiore mostruoso probabilmente ricordato da
Pascoli nella Digitale purpurea (1898):
“In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,
l’alito ignoto spande di sua vita” (47-50)
Medea
dunque prende il filtro e lo mise nella fascia profumata che le cingeva il
petto. Poi sale sul carro, lo guida e le fanciulle corrono dietro
sollevando le tuniche sopra le ginocchia. Viene paragonata ad Artemide che
procede sul carro tirato da cerbiatte seguita dalle ninfe (cfr. Nausicaa nel VI
dell’Odissea).
Poi
Medea parla alle ancelle mentendo: dice che darà a Giasone un farmaco cattivo e
chiede di lasciarla sola con lui. Alle ragazze piacque l’abilità simulatrice (ejpivklopoς mh'tiς, 912)
Era
intanto rese Giasone splendidissimo nell’aspetto e nella parola. Gli stessi
compagni si meravigliavano osservandolo brillare per il fascino. (925). Mopso,
l’indovino è contento, ma una cornacchia loquace lo schernisce dicendo che pure
i bambini sanno che la presenza di persone impedisce il corteggiamento. Lo
chiama kakovmanti (936).
Mopso considera divina la parola della cornacchia e suggerisce a Giasone di
andare da solo. Medea aspetta piena di ansia e quando Giasone le appare, sembra
Sirio che sorge dall’Oceano nitido e bello ma porta infinite sciagure alle
greggi, così l’uomo sorgeva come un amore tormentoso e travagliato (kavmaton dusivmeron, 961).
Allora
il cuore le cadde dal petto, gli occhi si oscurarono, un caldo rossore le prese
le guance, non aveva la forza di sollevare le ginocchia né avanti né indietro,
ma era come inchiodata nei piedi (pavgh povdaς). Cfr. Saffo.
I due erano senza parole come le querce e i
grandi pini nei monti, che poi però per il vento cominciano a sussurrare, così
Giasone le rivolse parole come carezze, parole carnee.
Giasone
dice alla ragazza che non deve avere paura: lui è ospite e supplice: senza di
te non posso vincere la durissima prova. Ti sarò grato in futuro (990) e tutti
gli eroi della spedizione ti celebreranno dando gloria al tuo nome. Anche le
madri ti saranno riconoscenti. Pure Teseo venne salvato da una nipote del Sole:
Arianna, figlia di Pasife, figlia del sole e ora è una costellazione. Stupidità
di Giasone: Arianna venne abbandonata.
Dal
tuo aspetto sembri buona.
Medea
è felice, lo guarda negli occhi, poi tira fuori il filtro dal reggiseno. Lui è
molto grato, in questo momento la ama. Talora il pudore faceva abbassare gli
occhi ai due. Parla Medea che dà istruzioni a Giasone. Deve fare un sacrificio
a Ecate, poi allontanarsi senza voltarsi indietro. La mattina dopo deve ungersi
il corpo con il filtro e cospargelo pure su lancia, scudo e spada. Sarà
invulnerabile. Poi seminerai i denti di drago dai quali nasceranno i giganti:
tu lancia in mezzo una pietra su cui quelli si getteranno come cani voraci e si
uccideranno a vicenda.
Giasone
è come un atleta drogato
Detto
questo, gli prende la destra e gli chiede di ricordarla come lei lo ricorderà
(cfr. Odissea, VIII, 462)
Quindi
gli chiede dove andrà, e di parlarle di sua cugina, la figlia di sua zia
Pasife, sorella di Eeta.
Giasone
sta ricambiando quell’amore terribile e le risponde: non ti dimenticherò, la
mia terra è quella dove Prometeo generò Deucalione che per primo fondò città.
E’ la Tessaglia
e la mia città è Iolco. Il nome di tua cugina è Arianna. Sarebbe bello se tuo
padre ci fosse amico come Minosse lo fu di Teseo.
Ma
Medea era già angosciata. Dice che Eeta non è come Minosse né lei come Arianna,
quindi non parliamo di vincoli di ospitalità.
Tu
non dimenticare mai che ti ho salvato la vita contro i miei genitori. Se ti
scorderai di me, un uccello me lo riferirà e le bufere mi porteranno da te
Giasone
risponde: lascia perdere uccelli e bufere. Se verrai in Grecia, sarai onorata
come una dea da uomini e donne, inoltre dividerai con me il letto nuziale e
niente potrà separarci
A
Medea si sciolse il cuore nel petto e nello stesso tempo rabbrividì katerrivghsen (1132, katarrigevw) nel
vedere oscurità davanti a sé.
Ma
Era aveva deciso che Medea doveva andare in Grecia per la rovina di Pelia. La
ragazza provava del resto anche gioia per la bellezza e le parole di Giasone.
Poi i due si separarono. Le ancelle le si fecero incontro ma lei non le vide
poiché l’anima le era volata in alto in mezzo alle nubi. Arrivata al palazzo,
non sentiva nemmeno le parole della sorella Calciope. Pensava al terribile
fatto cui aveva deciso di partecipare.
Giasone
torna dai suoi e mostra il filtro. Due Argonauti vanno da Eeta a prendere i
denti del drago ucciso da Cadmo in Tebe Ogigia quando il mostro era a guardia
della fonte di Ares. Atena strappò quei denti e li donò a Eeta e a Cadmo figlio
di Agenore di Tiro. Giasone compie il rito. Si apparta, lava piamente il bel
corpo e si mette il mantello che gli aveva donato Issipile, la regina di Lemno,
in memoria del dolce legame (1206). Poi sacrificò l’agnella e invocò
Ecate-Brimò. Quindi tornò indietro. Ecate uscì dai recessi profondi per
ricevere l’offerta. Il capo era cinto di serpenti intrecciati con rami di
quercia, intorno a lei ululavano cani infernali ojxeivh/ uJlakh' con acuti latrati (1217).
Cfr.
Eneide IV, 609 dove Didone invoca il
Sole, Giunone ed Ecate, la dea “nocturnisque Hecate triviis ululata per
urbem”.
Tremavano
le erbe dei campi e gridarono le Ninfe delle paludi ma Giasone, pur spaventato,
non si volse.
La
mattina Eeta si arma e sale sul carro portatogli da Fetonte.
Voleva
assistere alla prova e con lui una folla infinita. Viene paragonato a Poseidone
che si reca ai giochi dell’Istmo o a Tenaro o a Lerna o altrove. Giasone
intanto unge lo scudo, la lancia e la spada. Poi unse se stesso e in lui
penetrò una forza terribile, immensa, le sue braccia fremevano sprigionando
vigore. In ogni muscolo gli fremeva una vita inimitabile. Viene paragonato a un
cavallo che desideroso di entrare in battaglia percuote il terreno e drizza le
orecchie. Sembrava anche un fulmine nella tempesta che guizza nel cielo ejk nefevwn, giù
dalle nuvole (1267)
Giasone
era armato e pure nudo e somigliava tanto ad Ares quanto ad Apollo. Avanzò con
il solo scudo cercando i tori. Quelli uscirono da qualche grotta sotterranea
spirando fuoco. Giasone li attendeva come lo scoglio di mare attende i marosi
agitati dalle bufere. Cfr. Edipo a Colono
I tori cozzarono con lo scudo, ma non lo spostarono.
Eppure soffiavano come mantici. Ma il filtro della fanciulla lo proteggeva.
Giasone stese i due torri afferrandoli per un corno e colpendo con un calcio
gli zoccoli di bronzo. I Dioscuri gli porsero il giogo. Giasone aggiogò i tori
poi riprese lo scudo e prese l’elmo pieno di denti aguzzi e la lancia con la
quale percosse al fianco i due tori come fa il contadino. I tori provarono a
ribellarsi sputando fuoco e con muggiti simili all’urlo dei venti, poi vennero
domati.
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