Giovanni Andrea Ansaldo, Perseo e le Forcidi |
Il rifiuto. La meditazione e la preghiera a Dio chiunque egli sia
Helena ancora non mi aveva congedato, ma, nonostante insistessi, la mia situazione non migliorava. Non mi incoraggiava a dirle quanto di meglio avevo pensato sul nostro destino, non me ne dava l’occasione necessaria, di cui avevo bisogno per elevare il livello e alzarmi in volo con lei.
Sicché le dicevo che facevo l’insegnante di lettere nelle scuole medie senza nemmeno accennare a cosa significasse per me l’educazione dei ragazzini; poi aggiungevo che avevo letto dei libri buoni, senza nominarne alcuno né chiarire che cosa ci avevo trovato di bello.
Tanto meno osai dirle, forse neppure potevo immaginarlo, che un giorno avrei scritto di lei qualcosa di straordinario, anzi “cosa non detta in prosa mai né in rima”[1]. Ancora non ero certo che sarei stato nunzio agli uomini della storia grande e meravigliosa avvenuta tra noi.
Non riuscivo a meritarmi la sua attenzione.
Helena mi guardava inesorabile con l’aria di chi pensa: “e a me cosa vuoi che importi di questo? In che cosa mi riguarda?”.
Vedevo che il mio livello di conversazione e la mia stessa persona non la interessavano punto. Mi ascoltava e rispondeva alle domande non senza cortesia formale, però non mi domandava niente a sua volta, non rilanciava mai, tanto che per proseguire dovevo sempre essere io a riprendere l’iniziativa, e questo rendeva il mio parlare via via più imbarazzato e meno sicuro; a mano a mano che non mi chiedeva nulla, il mio eloquio diventava sempre più forzato e incolore, il mio aspetto più insignificante e opaco.
La bella donna non aveva alcun interesse di sapere alcunché sul mio conto.
Non avevo significato nulla per lei e non significavo niente agli occhi suoi.
Alla fine mi fece una domanda che mi annientò: mi chiese se poteva tornare al tavolo dei suoi connazionali senza offendermi.
“Che cosa fai meravigliosa creatura, mi lasci?” pensai, e poi “Così mi annichilisci, altro che offendermi!”.
Mi sembrava armata di pruni o di ortica.
Il mio cuore pompava fiotti di sangue pallido. Mi sentivo come arenato nelle secche della sventura, chiuso in una tana priva di luce, tetra e soffocante.
Era la caverna orribile dell’amore mancato, la spelonca piena di pianti e rimpianti, abitata dalle Forcidi canute, vecchie vergini che hanno un occhio in comune e un solo dente, e a loro non volge mai lo sguardo il sole con i suoi raggi né la luna di notte[1].
I miei sentimenti da chiari e dritti si confondevano in un groviglio fitto e arruffato, i pensieri si sgretolavano come frammenti e pezzetti privi di ogni coesione.
“Ma forse non è quella gran donna che sembra”, cercai di consolarmi. “E’ solo una delle tante. Se non vede il mio valore, non vale niente, chiunque ella sia”.
Le risposi che andava bene, e l’accompagnai al tavolo della sua gente senza chiederle se voleva ballare di nuovo più tardi, perché non mi sembrava il caso di riproporglielo, proprio per niente. Temevo di cadere nel patetico ruolo dell’accattone implorando miseramente una proroga.
Frustrazione, dolore, angoscia. Forse però potevo rifarmi. “La sorte è capricciosa, balzana, e fa salti imprevedibili, ma se il valore la imbriglia si lascia guidare”, pensai
“La mamma talora indifferente o furente, le zie pretificate e autoritarie, la nonna agraria e imperiosa, le ho domate tutte dopo le prepotenze subite; con loro mi sono rifatto quasi del tutto.
Mi permettono una vita meno misera, materialmente e mentalmente di quella di tanti colleghi miei.
Quella finnica bella e fine sembra dotata di un potere benefico; ma allora, a maggior ragione, deve arrivare ad amarmi, a unirsi con la mia natura, non del tutto ignobile forse, non proprio fiacca, spero. Lei sembra una donna di grande formato e levatura; allora, in questo ambiente di giovani disordinati, di lazzaroni confusionari, di uomini senza colore e rassegnati alla mediocrità, di vecchi il cui essere è solo un essere stati, di teste svigorite, prive di coscienza o al massimo dotate di una semi coscienza obnubilata e crepuscolare, ebbene Helena, tra tutti costoro, dove può trovare un uomo, se non proprio in me? Se tutta la natura è imparentata con se stessa[2], questa femmina finnica mi è particolarmente congeniale.
Fallo sapere, annuncia che Gianni, diversamente da Pan, non è morto!”
Così pensavo per rinfrancarmi.
Esageravo nel denigrare gli altri, facendone un mucchio deforme, un impasto tellurico, per mettermi su un altare accanto alla mia dea, quella che doveva rivelarsi quale magna mater, non mediterranea del resto ma iperborea. Madre anche del mio destino.
Invero l’università estiva di Debrecen ospitava giovani e meno giovani di qualità superiore alla media, una media per giunta che nei primi anni Settanta non era certo inferiore a quella dei decenni precedenti e successivi: allora tra le persone, soprattutto se dotate di educazione accademica, circolavano curiosità, cordialità, simpatia e facilità nei rapporti di amicizia e di amore. Conoscevano tutti il latino. Si parlava retoricamente e pure politicamente, si cantavano canzoni politiche piuttosto che le volgarità goliardiche nate dalla frustrazione sessuale.
Come usava nei primi anni Sessanta.
Insomma l’ambiente nell’insieme era bello e stimolante. Eros ci aveva radunati lì, in quel consesso festoso, perché gli facessimo onore accoppiandoci non senza amore.
C’erano anche diverse persone valide dalle quali potevo imparare. Soprattutto c’erano tante ragazze squisite.
Ma in quei giorni avevo deciso che la magna mater et magistra, e l’amore, poteva essere solo lei, Helena. Era lei il mio “compito difficile”, quello che viene assegnato all’eroe. nei miti e nelle favole belle che mi illudevano fin dall’infanzia. E mi illudono ancora.
Consideravo che c’era un mese davanti a noi e tante altre feste: varie occasioni per avvicinarla. Sì, perché guardandomi in giro, avevo già visto che se la mancavo quell’Elena lì, nessun’altra mi avrebbe mai più compensato di tale fallimento. Certamente non in questa vita e probabilmente nemmeno nelle prossime centocinquanta. “Grandissima donna spirituale o pneumatica” - pensavo - all’epoca senza ironia. “Bella, fine, sublime, predestinata a me ab aeterno.
La sua anima non è come quella dei maiali e di tanti che sembrano uomini”.
Avevo imparato non ricordo da quale filosofo, forse lo stoico Cleante, che i porci hanno l’anima (e[cein th;n yuchvn) invece del sale (ajnq j aJlw`n) , solo perché non imputridiscano le loro carni, escrescenze di corpaccioni pigrissimi, come le pance adipose di certi otri ambulanti che appaiono in brutte sembianze appena umane.
“Voglio farmi tornare in mente le cose interessanti che ho pensato e raccontargliele - premeditavo ancora - devo impressionarla, vincere la sua ritrosaggine. Dare spettacolo con le parole, come ho imparato dalle tragedie di Seneca e da quelle di Shakespeare. Trovare frasi di brevità e di forza.
Le mie parole devono scaturire proprio dall’energia della mia vita, dalla libido che sento per quella donna. Da quello che dirò dovranno sprigionarsi fulmini profumati che incantino quella creatura e spezzino tutte le sue resistenze, ogni chiusura frapposta al mio desiderio.
L’importante è non attenuare la cupido, né degradarla rivolgendola a un’altra: ‘fac tantum cupias, sponte disertus eris’[3]. Ovidio, maestro e amico.
Devo evitare però espressioni concitate, sguardi affamati, sorrisi disperati.
Dammela, Dio, dammela. Cosa ti costa? Non l’hai creata tu stesso, con le tue mani, così bella e fine apposta per me? Per chi se no? Dio, se me la dai, te ne sarò grato per sempre; sempre crederò in te, e celebrerò il tuo nume ogni due giorni, anzi tutti i giorni che vorrai regalarmi, Dio buono. Il mio altare fumerà almeno dodici volte all’anno di olocausti santi, per te.
Se non me la dai, invece, potrei degradarmi, bestemmiare, ingrassare, e andare con la nera Volkswagen scoperta, sul lungomare di Rimini, a insultare forsennato le puttane e i bagnini, ubriaco fradicio e ruttando freneticamente fiato puzzolente di cavolo e di formaggio rancido.
Dicevo a me stesso: “Pochi mesi fa in caserma, per disperazione mangiasti, poco prima della cena a base di pasta asciutta, una mezza pagnotta di pane nero, un intero salame e ti scolasti un bottiglione di birra nera, spessa, inebriante”.
“Prelibatezze” che mi aveva fatto arrivare sottobanco mia sorella, per compassione. Pensava che mi tirassero su. Invece ingrassavo diventando deforme, ogni giorno di più.
Questo magari no, non lo farò più in nessun caso. Ingrassare sia il vetitum maximum, il tabù principale.
Se ti rispetto minore è la colpa. Però dammela, Dio santo, tu che mi hai aperto anzi tempo[5] le porte del carcere cieco della caserma dove mi facevano lavare i piatti di giorno e stare sveglio davanti al muro di cinta con il fucile scarico in spalla quasi tutte le notti perché, mentre facevo il CAR avanzato, avevo detto a un commilitone, tal Gariboldi, di essere comunista e che mi dispiaceva militare in un esercito che non era al servizio del popolo ma fungeva da cane da guardia della borghesia. L’infame riferì al capitano.
Sicché mi sequestrarono i libri sui quali preparavo il concorso e mi trasferirono immediatamente nella caserma dei riottosi e degli “sciacquini”.
Ma tu, dio della giustizia, dio dell’amore, mi hai salvato con un anno di anticipo, il 15 maggio scorso. “Sotto nobili gioie anche la pena gravida di rinascente rancore, muore, finalmente domata”. Come scrisse qualcuno, Pindaro forse. Dopo quei cento giorni di morte civile e sessuale voglio ribattezzarmi negli umori santi di Helena, la sua saliva e altro. Le lacrime no.
Ora rendimi interessante agli occhi di questa femmina finnica, dio, una femmina umana di grande formato!
Anzi questa donna è il modello di tutte le forme modellate con arte: ha la bellezza di Afrodite, la mente di Themi, la favella di Atena. Ogni sua movenza è dotata di misura e di ragione, come i movimenti del sole”.
Così pregai, con franchezza, senza ironia che non si addice a chi ama.
Dio mi guidò, Dio mi esaudì. Del resto le mie divinità qui sulla terra sono state, volta per volta, le donne, le femmine umane che ho amato sempre e, nei secoli dei secoli, sempre amerò. Portano significazione di gioia, di angeli che annunciano il paradiso terrestre.
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[5] Il mio servizio militare è durato un centinaio di giorni: poco più di tre mesi invece di 15. Lo interpretai come il segno di un destino buono. Più tardi lessi queste parole in un Saggio autobiografico di T. Mann, e me ne compiacqui: “Dovevo fare il mio anno di servizio militare che però si ridusse a tre mesi (…) Il medico curante di mia madre conosceva l’ufficiale medico competente”.
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