Salvator Rosa, Il Supplizio di Prometeo (dettaglio) |
Il mondo come biblioteca (Borges)
Gli Argonauti assistono alla tortura di Prometeo (II, 1246 - 1259). che nutriva col proprio fegato l'aquila ingorda.
L’aquila sconvolse le vele con un battito d’ali che muoveva simili ai remi.
Apollonio non ha drammatizzato l'epica come sostengono in parecchi, poiché limita moltissimo l'uso del discorso diretto.
C'è una consonanza di Apollonio con il linguaggio pittorico e una tendenza al cromatismo, un'efficace raffigurazione del quotidiano.
Le descrizioni di oggetti hanno una precisione referenziale e un sovrasenso retorico. Esempio del manto donato da Issipile a Giasone (IV, 421 - 434) e usato per attirare Apsirto nella trappola mortale.
La tunica è un grande inganno (mevga" dovlo") ordito contro Apsirto. Era purpurea, profumata perché ci aveva dormito Dioniso dopo che era stata tessuta dalle Grazie. Dioniso l’aveva regalata a suo figlio Toante e Toante alla figlia Issipile e lei a Giasone. Dioniso ci aveva dormito stretto ad Arianna dopo che Teseo l’aveva lasciata nell’isola di Dia.
C’è 2 volte il tema della donna abbandonata (Arianna e Issipile)
L'oggetto ha un valore simbolico connesso al tema della donna abbandonata. Vi sono anche similitudini estese. Rispetto a Omero, Apollonio mira più alla pertinenza con il contesto, tende a coincidere, per analogia, con il racconto in ogni suo punto: ce ne sono molte nella descrizione della prova di Giasone e questo narrare per analogia allude all'artificialità dell'eroismo di Giasone.
La lingua di Apollonio si basa su un tessuto fittissimo di reminiscenze e variazioni da Omero ma vi si trova anche un ri - uso della lingua lirica e tragica.
Le Argonautiche presuppongono la complicità erudita di un destinatario colto, pronto a cogliere il dialogo con la tradizione e con il mito. Non sappiamo come fu accolto il poema nell'ambiente iperletterario di Alessandria. Venne tradotto in Argonautae dal neoterico Varrone Atacino (nato ad Atax nella Gallia Narbonese nell'82 a. C., morto verso il 35. Restano frammenti) , venne seguito da Virgilio, soprattutto nell'episodio di Didone, e fu tradotto da Valerio Flacco (morto nel 92 d. C.) nell'età dei Flavi: Argonautica in otto libri di esametri che accentuano l'elemento patetico. Arrivano fino al momento in cui Absirto chiede ai Greci la restituzione della sorella.
Valerio Flacco inizia con l’invocazione a Vespasiano.
Il Giasone di Valerio Flacco dice, pregando Poseidone: “so che cerco strade vietate e merito una tempesta, sed non sponte feror, non è la mia volontà che mi porta (I, 196 - 198).
Nettuno maledice la navigazione: le navi crederanno di poter viaggiare, mentre sono causa di morte nuova (mortis causa novae, I, 648). Il dio dice ad Argo: “miseris tu gentibus, Argo, fata paras (I, 648, 649), tu Argo prepari il destino per genti infelici.
C’è Giove che approva l’impresa: come in Virgilio biasima gli ozi dei tempi saturni: patrii neque enim probat otia regni (I, 500) cfr. il veternus
Virgilio nella Georgica I I dà questa spiegazione della genesi dell'età moderna: Giove procurò agli uomini fatiche e angosce (curae ) in quanto non lasciò che il suo regno restasse paralizzato in un pesante letargo"nec torpere gravi passus sua regna veterno " (v. 124). Infine il lavoro ostinato vinse tutte le difficoltà: “Labor omnia vicit - improbus” (vv. 145 - 146). Il compito di Virgilio nelle Georgiche in effetti è quello di celebrare il lavoro del bonus agricola.[7]
"Centrale è il concetto di veternus , una specie di pigra indolenza, un torpore che affliggeva l'umanità nell'età dell'oro, e che avrebbe indotto Giove a introdurre il lavoro nel mondo, per stimolare l'ingegno umano e rendere gli uomini attivi, vigile e intraprendenti"[8] .
Pasolini non sfruttò Apollonio per la sua Medea ma per il romanzo incompiuto Petrolio.
Era amava Giasone, come si legge già nell'Odissea dove Circe dice a Ulisse di evitare le Plagktaiv poiché esse non risparmiano nemmeno le colombe. Passò solo una nave: quella Argo che tutti cantano ( jArgw; pasimevlousa) tornando dal regno di Eeta (XII, 70): Era la spinse oltre il flutto, poiché le era caro Giasone (72).
Nelle Argonautiche, all'andata Giasone aveva superato le Simplegadi con l'aiuto di Atena (I libro), al ritorno le Plancte con l'aiuto di Tetide e delle Nereidi le quali sollevano Argo sopra le onde, come le ragazze si passano una palla (IV, 949).
Sono gli scogli della vita.
Vanno da Circe, sorella di Eeta, a Corcira, l'isola dei Feaci, e finiscono in Libia dove devono trasportare per 12 giorni la nave sulla terra.
Era ed Atena fanno visita ad Afrodite perché Eros colpisca Medea e sono come due grandi dame di Alessandria in visita ad una persona di posizione sociale inferiore cui però devono chiedere un favore.
Eros è un bambino cui la madre promette un giocattolo: una palla formata da cerchi d'oro: "se tu la lanci/lascia per l'aria un solco splendente come una stella"(III, 140 - 141). In questa epoca gli autori amano rappresentare i bambini.
Primo canto
Antefatto
Giasone con un solo sandalo arriva al sacrificio che Pelia fa in onore di Poseidone, suo padre. Lo generò con Tirò (la prima del catalogo delle eroine dell’XI dell’Odissea) la quale con Creteo generò Esone.
Giasone, il seduttore punito da Medea, si presentò con un solo sandalo[9], al sacrificio in onore di Nettuno celebrato dal figlio del dio, (p. 206), Pelia, lo zio usurpatore, e questa asimmetria, in qualche modo fa zoppicare: “L’arrivo del vendicatore preannunciato da un oracolo e segnato da un marchio che lo rende riconoscibile alla sua vittima è un tema mitico e narrativo largamente diffuso nei racconti folklorici: un uomo fatale segnato da un marchio fu pure Edipo, “l’uomo dai piedi gonfi”, destinato da una profezia a uccidere il padre (…) Più complesso è il segno di Giasone e il tratto che distingue la sua missione, vale a dire il monosandalismo: evidentemente il monosandalismo è una forma simbolica di marchio fisico e una forma attenuata di zoppia; d’altro lato, l’uso di indossare un solo calzare è un elemento che s’inserisce in un complesso sistema rituale”[10]. Ma questa altra parte non riguarda il nostro discorso.
I tre Carracci, i fratelli Agostino e Annibale che con il cugino Ludovico affrescarono il piano nobile di palazzo Fava a Bologna (1583 - 1584) mettono in rilievo l’unico piede nudo di Giasone che arriva alle spalle di Pelia il quale si volta dissimulando a stento l’angoscia.
Pindaro Pitica IV
Anche la IV Pitica di Pindaro racconta l'impresa degli eroi:"che nessuno rimase dalla madre a smaltire una vita senza rischio"(330).
Una profezia dell’oracolo delfico aveva detto a Pelia che doveva guardarsi dall’uomo con un solo sandalo (to;n monokrhvpida, 75)
Giasone disse di essere un allievo di Chirone[11], e che intendeva rivendicare l’onore regale sottratto al padre Esone, il sovrano legittimo, dall’usurpatore Pelia. Egli era sparito poiché i genitori spodestati, temendo la prepotenza di un capo arrogante (uJperfiavlou - aJgemovno~ deivsante~ u{brin, vv. 195 - 196), appena nacque, gli fecero un finto funerale, come se fosse morto, e lo affidarono a Chirone, la fiera divina (fhvr…qei'o~, v. 211) che lo chiamò Giasone. Il padre pianse di gioia vedendo il figlio, che era diventato speciale, il più bello degli uomini (ejxaivreton - govnon ijdw;n kavlliston ajndrw'n, vv. 217 - 218).
Le vesti erano aderenti alle mirabili membra e i capelli non erano caduti sotto il taglio del ferro
Ma gli splendevano lungo il dorso (145 - 146)
Gli occhi del padre a vederlo, pullularono di lacrime (219)
Quando lo vide, Pelia gli domandò: “quale umana creatura terrestre ti buttò fuori dal suo bianco ventre? Non la macchiare di odiose menzogne: di’ la tua stirpe” (172 - 175)
Il Giasone di Pindaro è diverso da quello di Euripide: si reca nel palazzo di Pelia e, parlandogli con pacatezza, gli dice che le menti dei mortali sono più svelte ad approvare un lucro ingannevole che la giustizia ( qnatw'n frevne~ wjkuvterai - kevrdo~ aijnh'sai pro; divka~ dovlion, vv. 247 - 248) e comunque strisciano verso un amaro giorno dopo la festa. In fondo Pelia e lui sono consanguinei e dovrebbero eliminare la discordia: le Moire si allontanano sdegnate, se tra quelli della stessa razza c’è dell’odio che copre il pudore. Giasone lascerebbe a Pelia le ricchezze, ma vuole lo scettro da monarca che era di suo padre.
Dobbiamo conciliare i nostri impulsi secondo giustizia e tessere prosperità futura (uJfaivnein loipo;n o[lbon, 251)
Si allontanano le Moire se tra i consanguinei c’è discordia che occulti il pudore (259 - 260)
Rendimi il trono senza molestia reciproca (274)
Pelia risponde che lui è vecchio mentre nel nipote a[nqo~ h{ba~ a[rti ku - maivnei (vv. 281 - 282), ribolle - ondeggia - adesso il fiore della giovinezza: dunque sta a lui compiere l’impresa necessaria di recuperare il vello d’oro. Se ci riuscirà il giovane avrà il regno.
“L’incontro dei due eroi e i loro discorsi, che si inseriscono nel racconto nei modi propri dell’epos omerico, mirano a delinearne la personalità e i caratteri profondamente diversi: l’uno, Giasone, giovane, bello e regale nell’aspetto e non privo di abilità e saggezza perché educato nell’antro del centauro Chirone; l’altro, Pelia, il figlio di Posidone, perfido e subdolo, iniquo usurpatore del trono, ma astuto e sagace nell’esortare il suo avversario a compiere l’impresa rischiosa della conquista del vello d’oro. Solo così gli avrebbe ceduto il regno e il potere. Due volti antitetici della regalità, l’una illegittima perché conquistata con l’inganno e insieme tirannica, l’altra legittima e giusta perché rispettosa del diritto ereditario”[12].
Giasone dunque convocò e raccolse la schiera degli eroi. Poi viene il racconto di una parte dell’impresa. La prima grande prova è quella di schivare il moto furente delle rupi cozzanti (sundrovmwn kinhqmo;n ajmaimavketon - ejkfugei'n petra'n, v. 370 - 371). Esse erano vive e gemelle e rotolavano più impetuose che le schiere dei venti dal rombo cupo e pesante. Ma quel transito di semidei portò la loro fine.
Quando giunsero al Fasi, il Giasone di Pindaro non è più tanto dissimile da quello di Euripide. Cipride fece un incantesimo d’amore: aggiogò il torcicollo[13] variopinto ai quattro raggi di una ruota indissolubile e insegnò al saggio Esonide le preghiere magiche perché portasse via a Medea il rispetto dei genitori (o[fra Mhdeiva~ tokevwn ajfevloit j aijdw', vv. 388 - 389) e l’amore la scuotesse, infiammata nell’animo dalla sferza di Peithò.
Giasone era armato non solo della bellezza, ma anche della sferza della Persuasione. La ragazza gli diede un rimedio a dolori duri: mescolò antidoti con l’olio perché se ne ungesse. Apparve Eeta che arava la terra con buoi i quali spiravano dalle mascelle bionde fiamma di fuoco ardente, e battevano il suolo, a colpi alterni, con zoccoli di bronzo. Quindi sfidò altri a farlo, chiunque volesse il vello d’oro. Giasone gettò la sua veste di croco e compì questa prima impresa. Il re Colco, ammirando la potenza del giovane, urlò pur nel dolore muto (vv. 421 - 422). Seguirono gli applausi dei compagni, poi la seconda prova imposta dal figlio del sole. Il vello d’oro era tenuto stretto dalle avide mascelle di un drago più grande di una nave da cinquanta remi. Pindaro si affretta verso la conclusione: lunga via è per me tornare sulla carreggiata, dice, l’ora mi tocca e conosco un sentiero breve (vv. 339 - 341). Sicché il poeta conclude rapidamente la storia del vello d’oro: “ktei'ne me;n glaukw'pa tevcnai~ poikilovnwton o[fin” (v. 444), uccise con artifici il serpente dall’occhio splendente, dal dorso variopinto[14], poi rapì Medea che fu consenziente e diverrà l’assassina di Pelia. Preso il vello d’oro gli Argonauti tornarono a Lemno dove giacquero con le donne e fu piantata la stirpe di Eufemo[15] (v. 456).
“Qui il poeta, nel modo che gli è proprio, interrompe il racconto…si è scostato troppo dalla strada maestra, egli dice, ma non importa, poiché conosce vie più brevi per tornarvi…Preme al poeta, poiché il momento opportuno lo incalza, di esporre in tratti rapidissimi le vicende essenziali del ritorno degli Argonauti. Varcarono l’oceano e il mare Rosso, giunsero nell’isola di Lemno, qui nacquero i discendenti di Eufemo che migrarono a Sparta e poi a Tera (l’antica Calliste[16]) e di lì Apollo concesse loro di raggiungere la Libia per governare la città di Cirene. Si conchiude così, con struttura circolare, la seconda parte dell’ode che riconduce il discorso all’attualità…”[17].
Tra gli Argonauti c’era Orfeo molto lodato, Zete e Calais, eroi con il brivido sul dorso, dalle ali purpurèe, sollecitati dal padre Borea
Era accendeva nei semidèi il desiderio della nave perché nessuno restasse presso la madre a smaltire una vita senza rischi ( ajkivndunon para; matri; mevnein aijw`na pevssont j, 330 - 332)
L’indovino Mopso traeva auspici con animo propizio.
Iniziò un remigare insaziabile dalle rapide mani.
Precipitando nel baratro del rischio (ej~ de; kivndunon baqu;n iJevmenoi, 367) pregarono di schivare l’indomito moto delle rocce cozzanti. Erano vive e gemelle e rotolavano più rapide dei venti ma quel transito di semidèi recò loro la morte.
Fine della Pitica IV di Pindaro
Segue II parte con il I libro delle Argonautiche
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[7] “Il protagonista delle Georgiche - il paziente, tenace agricola capace di coronare la sua fatica con il successo - è anche un carattere non privo di ombre, e richiede, anche lui, della vittime” . Tradotto dall’inglese di Gian Biagio Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And Critics Read Vergil, Yale University Press., n. 30, p. 205. Tale è Aristeo, e non farà meno vittime il “pio”Enea.
[11] Era nato, secondo Apollonio Rodio, dall’unione di Crono e Filira. La sua natura era semiequina poiché il dio per celarsi a Rea aveva assunto la forma di un cavallo dalla lunga criniera. Rea però li sorprese e Crono fuggì. L’oceanina Filira, per vergogna, andò a nascondersi nelle grandi montagne pelasghe dove diede alla luce il mostruoso Chirone, in parte dio, in parte cavallo (Argonautiche, 2, vv. 1231 sgg).
[12] Bruno Gentili, Paola Angeli Bernardini, Ettore Cingano e Pietro Giannini (a cura di), Pindaro Le Pitiche, p. 105,
[14] Cfr La Sfinge dal canto variopinto (Edipo re, v. 130) di cui ho detto dopo il v. 300 e dirò altro dopo il v. 936.
[15] Uno degli Argonauti, quello che lanciò la colomba tra le Simplegadi (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, v. 562) per vedere, secondo le istruzioni di Fineo, se l’uccello sopravviveva e se potevano tentare la prova anche loro. Durante il passaggio periglioso Eufemo incitava i compagni a remare con tutta la forza (v, 588 - 589) Da lui sarebbe disceso il committente dell’ode. Eufemo, discendente di Poseidone, era un esperto pilota e un possibile successore di Tifi dopo la morte del timoniere, ma gli venne preferito Anceo.
[17] Bruno Gentili, Paola Angeli Bernardini, Ettore Cingano e Pietro Giannini (a cura di), Pindaro Le Pitiche, pp. 106 - 107.
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