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domenica 16 febbraio 2020

Elena. Parte 8. Conclusione del colloquio nel “grande bosco” di Debrecen

Caspar David Friedrich, Mann und Frau in Betrachtung des Mondes
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Conclusione del colloquio nel “grande bosco” di Debrecen


Dopo qualche istante di riflessivo silenzio, le accarezzai i capelli e le sussurrai: “Non avere paura. A Elena, la figlia di Zeus, non si addice la paura”1. Mi guardò sorridendo a sua volta e disse: “Di te io non ho paura. Tu hai lo sguardo buono, innocente”.
Intanto la luna, bianca come le braccia di Elena, era sbucata in mezzo alle nubi ricciute, ma l’alta e vasta chioma dell’antica quercia non le permetteva di illuminare in pieno la nostra panchina, né di cospargere con luminosi diamanti i capelli neri e foltissimi della donna. Il laghetto nel mezzo della radura invece splendeva nella notte che si andava rasserenando, i grilli sembravano suonare il preludio di un’opera piena di amore, le rane cantarne i duetti, i terzetti, i cori. Pensai a Mozart amato da Dio, a Rossini e ad altre voci divine. Mi sentivo amato anche io. Avrei voluto unirmi a tutte le cose belle del creato.
Elena a un tratto scostò la sua nobile testa dalla mia mano, ma lentamente e guardandomi con occhi pieni di pathos luminoso, come se mi chiedesse, speravo, di accarezzarle il cuore, cioè, più realisticamente, il petto opulento, o la vita di onesta snellezza, invece del volto pallido, dei capelli corvini e della testa piena di dubbi, forse non senza dolore.
Commosso, stavo per lanciare entrambe le palme aperte sui seni tanto desiderati, ma trovai la forza di trattenermi.

“Aspetta un momento - pensai - aspetta, pezzo d’asino, se non vuoi che questo amore fiorente venga mozzato sul gambo in crescita dalla tua concupiscenza che vuole soddisfarsi prima del tempo, oscenamente."
Devi attendere, se vuoi compiere questa impresa nel modo migliore e cogliere una vittoria davvero olimpica: questo successo ti serve per conquistare, con Elena, l’autocompiacimento necessario a realizzare le cose egregie cui ti senti portato. Tua madre non ti ha capito e amato quanto avresti voluto: quando eri bambino diceva che eri un piccolo delinquente, siccome la criticavi: l’avresti voluta perfetta, molto migliore di te, mentre era infantile, emotiva, capricciosa, e tu, invece di accettarla com’era, volevi cambiarla, sbagliando. Tua mamma era bella così quale era e non voleva tradire la sua natura. Come te d’altra parte. Con questa donna - mamma puoi rifarti, puoi diventare l’arbitro di te stesso, della stima che hai fatto dipendere troppo dagli altri, perché non hai avuto la forza di piacere del tutto alla madre tua.
Ora devi fare pressione su questa femmina umana e sulla natura perché ti riveli i suoi propositi arcani. Alcuni nomi di amanti, come Elena, ritornano fatalmente con il volgere delle stagioni, altri mutano.
Devo capire se il meccanismo cambia o se è sempre lo stesso: menzogne, inganni, strumentalizzazione, perfidia, tradimenti, collisione, catastrofe finale. Uomini e donne, finita la breve e buffa farsa del loro amore presunto, scherniscono con un ghigno il piacere che hanno dato e ricevuto, poi scompaiono lasciando di sé solo quel grin, come il gatto stregato di Alice. C’è sempre una Maria che butta giù una Francesca e un Marco che fa cadere un Raffaele.
Vorrei che con Elena tale gioco perverso cambiasse,
vorrei uscire con lei dalla fossa”.

Dopo questa riflessione, mi rimisi all’opera e le domandai: “Perché mi trovi intelligente? Forse lo sono, però non credo di avertelo già dimostrato”.
“Io l’ho capito da quello che dici, da quello che non dici, da come ti muovi, da come riesci a diventare simpatico; tu sei diverso dagli altri, da quelli che giocano sporco: quanti cercano di burlare il cuore e il cervello del prossimo con le parole”. Si fermò un momento. Quindi, con nobile sdegno aggiunse: “Non so se tu puoi frequentarli. Io non ci riesco”.
“Non li frequento granché” replicai.
“Volevo sentirtelo dire. In effetti ho visto subito che eri diverso dagli altri, e mi sei piaciuto, poi parlando con te, ho imparato a stimarti; anzi, forse in questo momento non dovrei dirtelo, ma comincio a provare sentimenti buoni e forti nei tuoi confronti”.
“Dunque non mi sono sbagliato”, pensai.
Poi dissi: “Allora c’è davvero qualche cosa di grande, un’armonia già visibile e chiara tra noi, un’intesa predestinata ab aeterno e forse illimitata nel tempo”. Volevo allargare l’apertura appena ricevuta, consacrando con l’infinito l’ipotesi del connubio, che, ora ne sono convinto, era voluto dal Fato se lo aveva inserito nella serie delle cause che, pur attraverso difficoltà e travagli, conducono a risultati egregi, latori di bene.
Infatti l’armonia invisibile è più forte della visibile2, e il fine di ogni pur piccolo evento è il benessere dell’universo. Non ho mai perduto questo ottimismo di marca stoica se vogliamo, ma che ho fatto mio.
Quindi ricominciai: “Elena, volentieri io credo ci sia un demone buono, un destino favorevole che ci ha fatto incontrare e spinge ad amarci, o a volerci bene, se preferisci: forse noi siamo due spezzoni, simboli di una persona una volta completa, poi divisa perché troppo forte, come racconta Aristofane personaggio del Simposio di Platone. Adesso, se ci uniamo di nuovo, recuperiamo quell’interezza di cui sentiamo entrambi la nostalgia struggente, e con il completamente dell’intera unità della nostra persona, raggiungeremo una felicità non inferiore a quella degli dèi del cielo3. Sento che se farò l’amore con te, non potrò fallire mai più nessuno scopo. L’amore non è mai contrario all’economia. Magari a quella degli strozzini, ma non a quella vera, all’economia della vita.
Con te diventerò più felice, più buono e più reale. Non possiamo rinnegare i nostri sentimenti. Sarebbe come spengere due di quelle stelle lassù”. Indicai il cielo.
Poi aggiunsi: “Sarebbe come negare l’armonia dei corpi celesti. Non c’è la più piccola sfera tra quante ne vedremo tornando in collegio e nei nostri letti, che nel suo moto non canti come un angelo4 e che non si intoni con l’amore che proviamo noi due, l’uno per l’altra”. Mi ero preparato il discorso e lo recitai bene poiché “sentivo” la parte che “dovevo” sostenere. Un ruolo senza il quale non potevo procedere nella mia vita. Ero incantato fino ai precordi ma quell’incanto non mi toglieva lucidità mentale, anzi l’accentuava.

I miei sofismi con tanto di fuchi e di calamistri, di ornamenti ascitizi5, di citazioni e reminiscenze, ognuno di questi calcoli complicati ed esatti, dopo tutto stavano conducendomi alla spontaneità, se il risultato finale era, come volevo, diventare quello che sono al meglio di me, e compiere il mio destino realmente stabilito ab aeterno. Con quell’amore sarei diventato una persona migliore, più forte e più buona che se fossi rimasto privo della comunione santa con Elena.
Il massimo oggetto dei miei desideri, un oggetto trasfigurato oramai, incluso in me stesso ed elevato in una sfera artistica, mi guardava con benevolenza sempre maggiore, ammirata, credo, anche dagli echi letterari, più o meno scoperti e denunciati, mai latenti o dissimulati, come puoi constatare tu stesso, affezionato lettore. Sentivo crescere l’intesa e l’ammirazione per lei mentre notavo la sua sensibilità alle parole e alle idee. Cercai di baciarla accostando il mio volto al suo con calma: oramai mi sembrava un atto giustificato, quasi dovuto a me stesso e a lei; ma Elena dalle belle guance6, con altrettanta calma, cioè senza scatti né sdegno, quando vide che mi avvicinavo alla sua agognatissima bocca, la scostò girandola a destra e disse: “scusa, ma io non voglio essere tanto la compagna di un uomo dal quale oltretutto forse aspetto un bambino, quanto l’amante tua. Credimi, non ho ancora deciso che cosa farò. Proprio perché ti stimo e ti voglio bene, ti prego di non chiedermi di venire a letto con te"

“D’accordo”, risposi, dopo un profondo respiro, ma avendo capito poco le sue ragioni. “Anche se mi dispiace molto, e la rinuncia a te sarà il grande rimpianto della mia vita, credo di avere capito. Adesso torniamo in collegio; continuiamo a parlare domani. Vuoi?”
Così quella sera conclusi il mio catechismo7.
Rispose con un “sì”, sommesso, e, alzatasi, cominciò a camminare in silenzio, a testa bassa. Credo che le dispiacesse questa screanzata interruzione del dialogo da parte mia. Forse pensava che alla fine mi ero rivelato poco intelligente e ancor meno sensibile in quanto non comprendevo i suoi motivi seri di donna che voleva parlare e sentire parlare un uomo senza fare del sesso con lui.
Io con l’intelletto potevo averla capita, ma nell’insicurezza di allora, un’incertezza tragica che del resto questo episodio mi aiuterà a superare in non piccola parte, lo dico con il senno dei diversi decenni successivi e decine di amanti aggiunte, io, l’uomo non abbastanza capito e amato dalle donne di casa quando era bambino, se non avessi potuto fare l’amore con quella donna bella, fine, materna, mi sarei sentito umiliato nel misero orgoglio di maschio frustrato che vuole dimostrare a se stesso e al suo gruppo di valere qualcosa in quanto capace di portarsi a letto una femmina umana desiderabile e molto difficile, siccome ostacolata da impedimenti di non piccolo conto. Fu un errore, un solecismo erotico, troncare il colloquio quella notte di luna, ma per buona sorte, per mia intelligenza e per la disposizione benevola di Elena trovai il modo di rimediare.



1 Cfr. Goethe, Faust II, 3, 8646.
2 Cfr Eraclito: aJrmonivh ajfanh; ~ fanerh'~ kreivsswn (fr. 27 D.)
3 Cfr. Leopardi, Storia del genere umano: “la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina”. Probabilmente ricordavo queste parole di Leopardi perorando la causa di quell’amore capitale.
4 Cfr. Shakespeare, Il mercante di Venezia, V, 1.
5 Cfr. Leopardi: “E Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto parlatore, l'odiator de' calamistri e de' fuchi e d'ogni ornamento ascitizio e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone, 3474).
Le parole difficili sono latinismi: calamistrum, che è un ferro per arricciare i capelli. Fuco da fucus, “tintura rossa”, e scitizio da ascisco, “annetto.
6 Cfr. Omero, Odissea, XV, 123.
7 Cfr. Shakespeare, Enrico IV, Parte I, V, 1.

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