Tra Wagner e Verdi, non
mettere Bellini!
di Giuseppe Moscatt
In un nostro precedente intervento sul viaggio di Wagner in Sicilia - pubblicato su questo
giornale il 18 novembre - avevamo segnalato come il vate tedesco aveva
intrapreso, sulla via di Goethe, un viaggio nella terra dei limoni per superare
la crisi creativa che lo aveva afflitto dopo “I maestri Cantori di Norimberga”
e “Il Tristano e Isotta”, che per la prima volta non lo avevano soddisfatto ,
anche alla luce delle polemiche con la scuola verdiana fin dal 1867, quando
erano state finalmente introdotte in lingua italiana proprio a Bologna, terra
verdiana per eccellenza. Abbiamo anche ricordato come la Sicilia era stata la
“location” di un'opera quasi dimenticata, “Il divieto di amare”, la cui stesura
lo impegnò fra il 1834 e il 1836, con esiti non proprio favorevoli per il
giovane musicista di Lipsia. Mentre Verdi stava
ancora al Conservatorio di Milano, poco più che trentenne, a comporre la sua
prima opera, l' “Oberto", Wagner pendolava
fra Magdeburgo e Würzburg, dove nei vari teatri di corte fungeva da modesto
maestro di cappella, cosa che gli permise di conoscere più da vicino il
repertorio melodrammatico italiano. In particolare, conobbe l'arte di Bellini,
notoriamente legata allo spirito romantico dell'epoca e al quale rimase fedele
per sempre.
Robert Gutman, uno dei maggiori biografi di Wagner, ci dice che durante il soggiorno a Würzburg aveva
apprezzato positivamente la figura di Romeo de "I Capuleti e i Montecchi" del
Bellini, qualificando quest'opera come toccante e che gli fece intendere che la
composizione de “Il divieto di amare”, che stava approntando, doveva abbandonare
la tradizionale orchestrazione prevalente di stampo bachiano, per conferire al
cantante un vero e proprio oceano sonoro, abbracciando la sensuale cadenza del
maestro italiano. E di Bellini Wagner aveva
già un ottimo giudizio quando già nella prima opera del 1831 - "Le fate" - nelle
fasi conclusive aveva già espresso con archi melodici coinvolgenti un notevole
concentrato di lirismo che forse aveva maturato nelle taverne di Würzburg,
quando nelle sue ore libere dal servile lavoro di maestro di cappella, si era
sorpreso del sentimento romantico presente nelle canzonette italiane che
risuonavano la sera durante le sue cene solitarie. Nondimeno, la passione
immutata per Bellini riemerse nel suo diario di viaggio in Italia, quando nel
1876, nel viaggio di ritorno dopo la parentesi siciliana che sappiamo, volle
fermarsi con la famiglia a Napoli per incontrare al Conservatorio tracce di
Bellini, sia per sfatare la leggenda del suo disprezzo per la musica italiana
contemporanea, sia per confermare quell'amore di gioventù mai represso.
Wagner aveva fatto per il suo maestro e
amico von Weber. L'incontro è narrato
dallo stesso Richard, non senza enfasi nell'episodio dell'abbraccio col
Filoramo, splendido ottantenne, al grido di “Bellini! Bellini", dove
l'emozione dei due superò le false notizie di ruggine e diffidenze
indifferenziate del vate tedesco per la scuola lirica italiana.
Bellini |
Ma occorre ora
dire che la polemica di Wagner aveva
avuto come unico interlocutore Giuseppe Verdi,
altrettanto critico del collega. Sappiamo della roventi battaglie di
stampa, che oggi però giudichiamo piuttosto provinciali, dopo la prima esecuzione
in Italia del “Lohengrin” nel 1871, avvenuta a Bologna, città che non aveva
visto alcuna prima delle sue opere. A leggere il successivo pamphlet sui
rapporti tra i due giganti - scritto dal Conte Gino Monaldo in una città, Roma
nel 1887, dove ormai la querelle andava a stemperarsi - si sottolineò a favore
del Wagner che la sua arte era stata
alquanto originale per lo spirito metafisico che la impregnava, in armonia sia
allo spirito classico e agli usi e costumi di quel popolo, nonché al clima cupo
di quella nazione. Forse - continua il Monaldi - la tendenza di quel pubblico
allo sbadiglio, la sua resistenza non assoluta alla teatralità imponente della
trilogia, lo fecero apprezzare soltanto agli intellettuali stanchi di contrasti
sociali che entusiasmavano il pubblico verdiano, dove il dolore d'amore di
Violetta, l'offesa al senso paterno di Rigoletto, perfino la drammaticità della
guerra de "Il trovatore" e de “La forza del destino" sembravano le
circostanze contestuali che le rendevano ormai distanti dal sentimentalismo
mediterraneo, ritornato nel quotidiano borghese dell'Italia umbertina. Il lungo
silenzio creativo di Verdi fra l' "Aida" (1871) e l' "Otello" (1887), fu visto come un
effetto del calo di consensi sul maestro di Busseto, pervenuto forse ad un
compromesso creativo con quest'ultimo capolavoro e replicato poi dal “Falstaff”
nel 1893. Queste ultime scelte, vennero valutate ben presto come una fase di
semplice mediazione rispetto alle grandi opere del passato, quasi un cedimento
a favore di quella musica oggettiva
propagandata dai fautori
di Wagner, più che da Wagner stesso, primo fra tutti il Boito, discepolo sì di Verdi, ma caldissimo introduttore e
pretenzioso mediatore fra i due geni. Eppure, la tendenza della musica a divenire
più dissonante e a superare la consonanza armonica romantica, era figlia
dell'inquietudine storica maturata in tutte le arti di fine '800, come lo
provavano la filosofia di Nietzsche, le poesie di D'Annunzio, la sociologia di
un Weber e la letteratura di un
Mann, fino all'espressionismo culturale di primo '900, con Freud in testa.
Insomma, questi ultimi esponenti della cultura a cavallo fra l'800 e il '900,
ebbero il coraggio di differenziare, ma non di contrapporre rigidamente i due
grandi maestri della musica. Wagner, sulla
base di un'idea fissa di rilancio della fantasia e dell'irrequietezza tutta
romantica, conquistava l'inesplorato e l'ignoto dell'universo musicale, Verdi invece risaliva alla storia e viveva
il suo tempo di contrasti e speranze ormai disilluse nell'età della belle
epoque. L'uno nevrotico e creativo, col suo io al centro, le sue paure e le sue
poche certezze, vivendo alla giornata e saltando da un lato all'altro delle
barricate - anche letteralmente, quando cioè combatté con i democratici a
Dresda nel 1848 e poi negli anni successivi scrivendo e guadagnando la fiducia
dello schizoide Luigi di Baviera, acquistando credito fra le mure di Bayreuth e
attirandosi le ire del suo discepolo Nietzsche, esempio del figlio che odia il
padre e ama la madre, qui nel caso la moglie di Richard, Cosima Liszt.
E Verdi, invece, lungi dal raggiungere la
pace dei sentimenti, li esasperava nelle opere di mezzo secolo - “Aida", "Simon Boccanegra", "Don Carlos”- tutte legate ai profondi sconvolgimenti socio-culturali dell'Italia che andava a unificarsi politicamente ed economicamente
sotto una borghesia non ancora maturata come classe dirigente unitaria, slegata
dalla tutela temporale, piuttosto conservatrice e poco liberale, ma alquanto
intrisa di reazionarismo culturale. E Bellini? Rimase relegato dalla cultura
nazionalista nella “nicchia provinciale dove stava tutto solo”, come ebbero a
dire Pizzetti e Papini in pieno Futurismo nel 1916 e come ribadì
sostanzialmente Mila negli anni del secondo dopoguerra. Soltanto dopo il '68
si è visto un risorgere internazionale del nostro Cigno, una rinascita
culturale favorita dal cinema - ricordate le splendide monografie
cinematografiche di Carmine Gallone già nel periodo fascista - mentre le voci
straordinarie della Callas, di Del Monaco, fino a Pavarotti per non parlare di
Domingo e Carreras tornarono a incantare il pubblico locale e internazionale.
Ci volle l'analisi spregiudicata degli anni della Camerata di Milano a
risuscitare la figura internazionale di Bellini - e di Donizetti, altro
sconosciuto autore contemporaneo di Vincenzo
- per riscoprire un passo sconosciuto del giovane Wagner dove si afferma che “la musica di
Bellini è strettamente legata al testo”, e dunque ritrovare nel binomio col
librettista Felice Romani il forte lirismo dei dialoghi strettamente connessi
alla musica, pilotata dal recitativo imperante, che richiamava contenuti
poetici densi di richiami classici, di forte individualismo, magari senza
quello spirito avventuroso nato dai conflitti sociali e famigliari, centrali
nella dialettica verdiana, ma quasi sullo sfondo nel dramma wagneriano, tutto
chiuso nell'animo dei protagonisti. Il comune terreno lirico, dunque, fra Wagner e Bellini, e il conflitto
insanabile, ma non irrimediabile né infinito, con Verdi, peraltro rinforzato dalle scelte di Puccini, che seppe
però meglio mediare nei colori popolari delle musiche la conflittualità dell'io
col mondo. A voler rispolverare oggi la questione, è un dato statistico che nel
2019 335 spettacoli hanno visto primeggiare Verdi
e solo 117 sono stati per Wagner (in Italia, Verdi a Wagner, 39 a
41). Un sostanziale pareggio, sperando che Bellini funga da terzo partito in
una gara proporzionale che farebbe tanto bene alla rinascita della nostra
musica nel mondo.
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