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mercoledì 26 febbraio 2020

Tra Wagner e Verdi, non mettere Bellini! di Giuseppe Moscatt


Tra Wagner e Verdi, non mettere Bellini!
di Giuseppe Moscatt

In un nostro precedente intervento sul viaggio di Wagner in Sicilia - pubblicato su questo giornale il 18 novembre - avevamo segnalato come il vate tedesco aveva intrapreso, sulla via di Goethe, un viaggio nella terra dei limoni per superare la crisi creativa che lo aveva afflitto dopo “I maestri Cantori di Norimberga” e “Il Tristano e Isotta”, che per la prima volta non lo avevano soddisfatto , anche alla luce delle polemiche con la scuola verdiana fin dal 1867, quando erano state finalmente introdotte in lingua italiana proprio a Bologna, terra verdiana per eccellenza. Abbiamo anche ricordato come la Sicilia era stata la “location” di un'opera quasi dimenticata, “Il divieto di amare”, la cui stesura lo impegnò fra il 1834 e il 1836, con esiti non proprio favorevoli per il giovane musicista di Lipsia. Mentre Verdi stava ancora al Conservatorio di Milano, poco più che trentenne, a comporre la sua prima opera, l' “Oberto", Wagner pendolava fra Magdeburgo e Würzburg, dove nei vari teatri di corte fungeva da modesto maestro di cappella, cosa che gli permise di conoscere più da vicino il repertorio melodrammatico italiano. In particolare, conobbe l'arte di Bellini, notoriamente legata allo spirito romantico dell'epoca e al quale rimase fedele per sempre.

Robert Gutman, uno dei maggiori biografi di Wagner, ci dice che durante il soggiorno a Würzburg aveva apprezzato positivamente la figura di Romeo de "I Capuleti e i Montecchi" del Bellini, qualificando quest'opera come toccante e che gli fece intendere che la composizione de “Il divieto di amare”, che stava approntando, doveva abbandonare la tradizionale orchestrazione prevalente di stampo bachiano, per conferire al cantante un vero e proprio oceano sonoro, abbracciando la sensuale cadenza del maestro italiano. E di Bellini Wagner aveva già un ottimo giudizio quando già nella prima opera del 1831 - "Le fate" - nelle fasi conclusive aveva già espresso con archi melodici coinvolgenti un notevole concentrato di lirismo che forse aveva maturato nelle taverne di Würzburg, quando nelle sue ore libere dal servile lavoro di maestro di cappella, si era sorpreso del sentimento romantico presente nelle canzonette italiane che risuonavano la sera durante le sue cene solitarie. Nondimeno, la passione immutata per Bellini riemerse nel suo diario di viaggio in Italia, quando nel 1876, nel viaggio di ritorno dopo la parentesi siciliana che sappiamo, volle fermarsi con la famiglia a Napoli per incontrare al Conservatorio tracce di Bellini, sia per sfatare la leggenda del suo disprezzo per la musica italiana contemporanea, sia per confermare quell'amore di gioventù mai represso. Wagner aveva fatto per il suo maestro e amico von Weber. L'incontro è narrato dallo stesso Richard, non senza enfasi nell'episodio dell'abbraccio col Filoramo, splendido ottantenne, al grido di “Bellini! Bellini", dove l'emozione dei due superò le false notizie di ruggine e diffidenze indifferenziate del vate tedesco per la scuola lirica italiana.
Bellini
Incontrò qui Francesco Filoramo, che proprio in quell'anno aveva traslato da Parigi a Catania le spoglie di Bellini, quasi ripetendo quello che il
Ma occorre ora dire che la polemica di Wagner aveva avuto come unico interlocutore Giuseppe Verdi, altrettanto critico del collega. Sappiamo della roventi battaglie di stampa, che oggi però giudichiamo piuttosto provinciali, dopo la prima esecuzione in Italia del “Lohengrin” nel 1871, avvenuta a Bologna, città che non aveva visto alcuna prima delle sue opere. A leggere il successivo pamphlet sui rapporti tra i due giganti - scritto dal Conte Gino Monaldo in una città, Roma nel 1887, dove ormai la querelle andava a stemperarsi - si sottolineò a favore del Wagner che la sua arte era stata alquanto originale per lo spirito metafisico che la impregnava, in armonia sia allo spirito classico e agli usi e costumi di quel popolo, nonché al clima cupo di quella nazione. Forse - continua il Monaldi - la tendenza di quel pubblico allo sbadiglio, la sua resistenza non assoluta alla teatralità imponente della trilogia, lo fecero apprezzare soltanto agli intellettuali stanchi di contrasti sociali che entusiasmavano il pubblico verdiano, dove il dolore d'amore di Violetta, l'offesa al senso paterno di Rigoletto, perfino la drammaticità della guerra de "Il trovatore" e de “La forza del destino" sembravano le circostanze contestuali che le rendevano ormai distanti dal sentimentalismo mediterraneo, ritornato nel quotidiano borghese dell'Italia umbertina. Il lungo silenzio creativo di Verdi fra l' "Aida" (1871) e l' "Otello" (1887), fu visto come un effetto del calo di consensi sul maestro di Busseto, pervenuto forse ad un compromesso creativo con quest'ultimo capolavoro e replicato poi dal “Falstaff” nel 1893. Queste ultime scelte, vennero valutate ben presto come una fase di semplice mediazione rispetto alle grandi opere del passato, quasi un cedimento a favore di quella musica oggettiva propagandata dai fautori di Wagner, più che da Wagner stesso, primo fra tutti il Boito, discepolo sì di Verdi, ma caldissimo introduttore e pretenzioso mediatore fra i due geni. Eppure, la tendenza della musica a divenire più dissonante e a superare la consonanza armonica romantica, era figlia dell'inquietudine storica maturata in tutte le arti di fine '800, come lo provavano la filosofia di Nietzsche, le poesie di D'Annunzio, la sociologia di un Weber e la letteratura di un Mann, fino all'espressionismo culturale di primo '900, con Freud in testa. Insomma, questi ultimi esponenti della cultura a cavallo fra l'800 e il '900, ebbero il coraggio di differenziare, ma non di contrapporre rigidamente i due grandi maestri della musica. Wagner, sulla base di un'idea fissa di rilancio della fantasia e dell'irrequietezza tutta romantica, conquistava l'inesplorato e l'ignoto dell'universo musicale, Verdi invece risaliva alla storia e viveva il suo tempo di contrasti e speranze ormai disilluse nell'età della belle epoque. L'uno nevrotico e creativo, col suo io al centro, le sue paure e le sue poche certezze, vivendo alla giornata e saltando da un lato all'altro delle barricate - anche letteralmente, quando cioè combatté con i democratici a Dresda nel 1848 e poi negli anni successivi scrivendo e guadagnando la fiducia dello schizoide Luigi di Baviera, acquistando credito fra le mure di Bayreuth e attirandosi le ire del suo discepolo Nietzsche, esempio del figlio che odia il padre e ama la madre, qui nel caso la moglie di Richard, Cosima Liszt.
E Verdi, invece, lungi dal raggiungere la pace dei sentimenti, li esasperava nelle opere di mezzo secolo - “Aida", "Simon Boccanegra", "Don Carlos”- tutte legate ai profondi sconvolgimenti socio-culturali dell'Italia che andava a unificarsi politicamente ed economicamente sotto una borghesia non ancora maturata come classe dirigente unitaria, slegata dalla tutela temporale, piuttosto conservatrice e poco liberale, ma alquanto intrisa di reazionarismo culturale. E Bellini? Rimase relegato dalla cultura nazionalista nella “nicchia provinciale dove stava tutto solo”, come ebbero a dire Pizzetti e Papini in pieno Futurismo nel 1916 e come ribadì sostanzialmente Mila negli anni del secondo dopoguerra. Soltanto dopo il '68 si è visto un risorgere internazionale del nostro Cigno, una rinascita culturale favorita dal cinema - ricordate le splendide monografie cinematografiche di Carmine Gallone già nel periodo fascista - mentre le voci straordinarie della Callas, di Del Monaco, fino a Pavarotti per non parlare di Domingo e Carreras tornarono a incantare il pubblico locale e internazionale. Ci volle l'analisi spregiudicata degli anni della Camerata di Milano a risuscitare la figura internazionale di Bellini - e di Donizetti, altro sconosciuto autore contemporaneo di Vincenzo - per riscoprire un passo sconosciuto del giovane Wagner dove si afferma che “la musica di Bellini è strettamente legata al testo”, e dunque ritrovare nel binomio col librettista Felice Romani il forte lirismo dei dialoghi strettamente connessi alla musica, pilotata dal recitativo imperante, che richiamava contenuti poetici densi di richiami classici, di forte individualismo, magari senza quello spirito avventuroso nato dai conflitti sociali e famigliari, centrali nella dialettica verdiana, ma quasi sullo sfondo nel dramma wagneriano, tutto chiuso nell'animo dei protagonisti. Il comune terreno lirico, dunque, fra Wagner e Bellini, e il conflitto insanabile, ma non irrimediabile né infinito, con Verdi, peraltro rinforzato dalle scelte di Puccini, che seppe però meglio mediare nei colori popolari delle musiche la conflittualità dell'io col mondo. A voler rispolverare oggi la questione, è un dato statistico che nel 2019 335 spettacoli hanno visto primeggiare Verdi e solo 117 sono stati per Wagner (in Italia, Verdi a Wagner, 39 a 41). Un sostanziale pareggio, sperando che Bellini funga da terzo partito in una gara proporzionale che farebbe tanto bene alla rinascita della nostra musica nel mondo.

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