Debrecen di notte |
Risposi che fa parte del bene tutto quanto favorisce la vita. Il male, viceversa è ciò che la danneggia.
Aggiunsi che volevo insegnare ai ragazzini anche il
coraggio di confutare i luoghi comuni privi di fondamento razionale e reale.
Cercavo di capire, di imparare, di fare tante cose, ma la meta più alta, il
bersaglio sublime della mia ricerca era lei, Helena, la finlandese bruna bruna
che un demone buono mi aveva fatto incontrare inopinata, misteriosa e
meravigliosa, là, nel grande bosco in mezzo alla vasta pianura ungherese.
Volevo scoprire il significato dell’enigma incarnato da lei.
La bella donna aveva sul volto un sorriso calmo, di
soddisfazione profonda.
Quella sera di luglio, nella foresta di Debrecen, a un
tratto Helena disse che stava imparando ad amarmi. Stavo per impazzire di gioia
eppure, invece di baciarle le mani benedicendola, ebbro e frenetico di
gratitudine, ricorsi a un’astuzia indegna dell’uomo che mi proponevo di
sviluppare in me stesso, una mossa scacchistica di cui avevo sperimentato
l’efficacia in passato.
“Ci risiamo!” dirai tu, lettore. Ti rispondo che quando
non facevo calcoli prendevo fregature e bastonature da tutte le parti. E’ pur
vero che Elena non meritava artifici.
Tuttavia calcolai che mi conveniva dissimulare la
felicità. Questa poteva stordirmi e
spingermi a tentare un affondo che magari lei si aspettava, ma dal quale voleva
forse ancora sottrarsi gettandomi nella disperazione.
Rapidamente decisi che avrei sferrato l’attacco (1)
finale in un momento in cui la bella donna fosse ancora più intenerita e priva
oramai di ogni remora o scrupolo ritardante. Decisi di essere io quello che
procrastinava, l’accorto cunctator amoria. Per l’affondo
risolutivo sarebbe arrivato un momento migliore.
Dopo un paio di frasi generiche, quasi insulse, dissi
che oramai si era fatto tardi, che il giorno dopo c’era lezione e, dunque, si
doveva tornare in collegio. Quindi mi alzai, quasi di scatto, dalla panchina
dove ci eravamo seduti. In realtà non era tardi: era, sì e no, mezzanotte,
l’aria era calda, il cielo sereno, e comunque durante il mese “debrezino” di
studio-vacanza, ma più vacanza che studio, non era abitudine mia né dei miei
amici andare a letto prima delle due. Allora non provavo la fame urgente dello
studiare per imparare, una fame che sentirò più tardi e ancora più tardi
arriverò a soddiasfare, quando sarò arrivato all’accumulazione e alla sazietà
dell’erudizione, del to; sofovn, il
sapere neutro che non è sapienza e non sa di vita, non crea la vita come invece
fa sofiva, la sapienza che è femminile
(2) Ora, alla resa dei conti, posso
dire che ho imparato dalle mie amanti, Helena in primis, più che dai libri i
quali pure mi hanno istruito e formato non poco.
Oso addirittura affermare che mi hanno aiutato a
trovare le amanti migliori
Le parole e le
idee me le hanno insegnate gli autori, ma la vita l’ho appresa e l’ho presa
dalle donne, le donne mie benedette che Dio le rimeriti.
Rientrato in collegio, rimasi alzato a scherzare
giovanilmente con Claudio, tornato soddisfatto dalla festa nel giardino dei
crapuloni, e con Alfredo, contorto e lascivo, reduce dall’avere “puntato” non
so quante Russe. Andava cercando di rimediare un po’ di sesso: “Qui a Debrecen
- diceva - dovrebbero darci vittu (3) e alloggio, ma io finora ho
avuto solo l’alloggio e muoio di fame”.
E Fulvio, il
caro amico di Parma commentava: “Eh, che voglia di brugna!”
Talora ritardavamo il primo sonno fino al
biancheggiare del cielo con l’alba che a Debrecen in luglio si fa vedere verso
le tre.
Spesso la gioventù non conosce la giusta misura.
A volte i miei contubernali facevano irruzione nelle
docce delle femmine russe che, molestate, strillavano a squarciagola, o
ululavano, tutte nude.
Allora gli scavezzacolli fuggivano, poi, finita la
mattana, venivano a raccontare. Io non partecipavo a quei ioci
inconditi, buffonate bizzarre e porcate obbrobriose, anzi li disapprovavo a
parole, e alle donne mie dicevo che sentivo disgusto profondo e vergogna di
tali compagni di camera e della loro giocondità oscena; aggiungevo quasi
compunto che i miei scherzi, quando mi va di farli, sono molto seri, ma in
verità, arrivata la notte, mi spogliavo di quei paramenti da gesuita e ascoltavo assai divertito i resoconti di quei
lazzaroni, magari chiedendo di conoscerne tutti i dettagli peggiori. E in cuor
mio auspicavo che simili scherzi continuassero, anche per riderne e sentirmi
superiore ai gaglioffi che li mettevano in atto.
Come il Faust di Goethe, ero già troppo vecchio per
partecipare a quei giochi insolenti, ed ero troppo giovane per non amare.
Aspettando l’amore, posavo a pensatore di giorno e
sghignazzavo sulle porcate notturne.
Istrione
e gesuita. In me scorre una vena gesuitica,
magari a rovescio.
A volte, finiti gli scherzi e il loro resoconto, ai
primi albori, partivamo dal collegio per andare a Hortobágy, sul ponte di nove
arcate, a vedere il sole sorgere sopra la grande pianura deserta e priva di alberi.
Eravamo un drappello di dieci giovani: una
carnevalesca processione di satiri ebbri e sileni panciuti talora accompagnati
da menadi più o meno frenetiche.
Quella sera non andammo sulla puszta ma,
tra una risata e l’altra, facemmo comunque le tre. Avevo giocato o “mistificato”,
come si diceva all’epoca, con l’angelo mio dicendole diverse ore prima che
avevo premura di andare a dormire.
Non avevo la forza di essere me stesso fino in fondo,
di diventare quello che sono, accettando il mio vero volto, in quanto non ero ancora
convinto che nessuna maschera avrebbe potuto renderlo più bello. Finiti i lazzi
più o meno osceni con Claudio e Alfredo, fescennini obbrobriosi non privi di
battute pesanti sulle donne presenti in quell’oasi felice di amore e di studio,
meno studio che amore, andai a sedermi sul grande tavolo della stanza compresa
tra le due camere a quattro letti, e scrissi che volevo fare l’amore con Helena
impiegando tutte le forze dell’anima mia. Un’anima dissociata evidentemente.
Nel salutarmi mestamente lei mi aveva detto che i suoi dolori di ventre si
erano acuiti: perciò il giorno dopo sarebbe andate alla clinica delle donne
“pregnanti e malate”. Tale scritta campeggiava sul frontone dell’edificio
compreso nel complesso ospedaliero.
Allora, commosso e un poco pentito del mio calcolare,
le avevo detto: “Conta su di me per qualsiasi cosa tesoro: in qualunque momento
tu abbia bisogno di aiuto, io ci sarò”.
Durante il congedo davanti alla porta del suo collegio
mi era apparsa piccola, indifesa, bisognosa, e avevo sentito per lei una
sollecitudine autentica, piena, disinteressata. Mi ero ricordato di essere un
uomo, non un buffone né un saltimbanco dell’amore (4) .
Quella femmina umana che si fidava di me, era mia
figlia, e questo completava il sentimento d’amore che la figura materna già mi
aveva ispirato.
Prima di andare a dormire, scrissi queste parole:
“Helena mi piace come mai prima nessuna. Mi piace non meno di mia madre. Mi
piace più parlare con lei che fare casino con Claudio e Alfredo. Mi piace
perché è una mamma affettuosa e intelligente, è una sorella splendida, è una
figlia adorata. Domani faremo l’amore, ne sono sicuro. Non lo scrivo profeticamente
ma commisurando le nostre azioni”. Mi affacciai alla finestra completamente
dimentico dei bizzarri malviventi nel mio collegio. L’aurora già scioglieva la
nera notte e tingeva di rosa tutto l’oriente. Brillava la rugiada sui prati
alla limpida luce.
Tutta la vita del bosco ricominciava con un sorriso.
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(1) Eros, Amore, è spesso associato a Eris, la Contesa.
(2) Cfr. "to; sofo;n d j ouj sofiva" (Euripide, Baccanti,
v. 395) , il sapere non è sapienza.
(3) Parola
finlandese che significa “fica”.
(4) Cfr. "Non mihi mille placent, non
sum desultor amoris" (Ovidio, Amores I, 3, 15) a me non ne
piacciono mille, non sono un saltimbaco dell'amore.
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