csárda |
I colloqui nella csárda e nel bosco. Il corteggiamento congeniale
I tavoli e le panche dove ci
eravamo seduti erano di legno scuro e massiccio, probabilmente lo stesso delle
querce del grande bosco di Debrecen, visto che la puszta è
priva di alberi.
Elena ordinò un caffè e
dell’acqua, io lo stesso: volevo parlarle e ascoltarla con totale lucidità.
Sapevo di dovere esprimermi, a
parole e a modo di fare, con uno stile non ordinario: se non avessi trovato
quello dell’uomo essenzialmente bello e buono tw'/ o[nti kalo;ς kajgaqovς, sarei stato ricusato per la
seconda volta, e per sempre.
Era necessario pensare molto bene
al contenuto e alla forma della mia espressione: scegliere quello che dovevo
dire, a{ te lektevon, e dirlo in maniera
elegante wJς lektevon.
“Posso assumere tre ruoli - pensai
- non di più: lo studioso - artista, lo sportivo, e l’uomo capace di amare una
donna dandole gioia e aiuto. Più dilettoso in questa parte, piuttosto austero
nelle altre due. Dovevo essere semplice nell’eleganza, simplex munditiis.
Questa triplice gamma proposi
alla mia parte di attore, mentre facevo il regista di me stesso.
Dovevo mettercela tutta per
piacerle, e ce la misi, e fu sufficiente.
“Senti, Elena”, le dissi. “Ti
chiami Elena, vero?” La bella donna annuì.
Non dissi che Eschilo
etimologizza il suo nome con “colei che distrugge le navi”, annienta gli uomini
e le città”[1].
Infatti, a parte che l’etimologia è fantasiosa, io da quella donna mi aspettavo
tutt’altro che distruzione: doveva essere colei che mi avrebbe costruito e
fatto diventare quale volevo e ora sono vicino a essere, dopo 49 anni passati
come le nuvole nel cielo.
“Che cosa è l’amore per te?” Le
domandai. Molto direttamente, forse anche troppo, volevo saggiare il terreno
della sua disponibilità erotica e dirle qualche cosa di incoraggiante all’eros,
se, rispondendo, mi avesse dato la pur minima occasione di farlo.
Rispose: “E’ un sentimento
positivo: che la mia umanità si espande e comunica qualche cosa di buono. Siamo
qui al mondo gli uni per gli altri.
Io adesso provo amore,
individualmente, per un uomo che mi aspetta in Finlandia, ma generalmente lo
sento per tante persone, per tutte spero, e per ogni creatura vivente.
Condivido la simpatia universale, il nesso tra tutti gli aspetti di quanto è
vivente”.
Riflettei un momento su questa
risposta, degna del suo stile. Quella donna nobilitava la vita.
“Sì è in gamba come pensavo, è
del mio stampo e della mia levatura. Purtroppo ha un compagno, ma non credo ne
sia innamoratissima. In fondo il suo amore singolo non esclude l’umanistico,
un mare magnum dal quale può emergere l’individuazione per
un’altra persona. Potrei essere io da come attentamente mi guarda. Sarebbe la
mia salvezza dal naufragio sempre temuto, naufragium ubique est.
Ora devo trovare un pensiero profondo tuffandomi come un palombaro nell’anima
mia e nella sua, poi faò in modo di esprimerlo con parole belle e luminose. Il
mio amore per Elena deve assumere la forza di un fremito cosmico. Devo farle
sentire che questa cupido extra me propagandi è divina”
Quindi, assecondando la mia
speranza, domandò: “E per te, l’amore cos’è?
Scusami, non ricordo il tuo
nome”.
“Gianni. Per me prima di tutto è
emozione: esaltazione estetica dello spirito annoiato dall’ottusità e dalla
disonestà dei più, dalle filastrocche dei luoghi comuni. Io non riesco ad amare
generalmente o tutt’al più le persone adulte delle quali in passato mi sono
fidato troppo, e le conseguenze sono state penose. Caso mai, anzi senz’altro,
umanisticamente amo i ragazzini, i miei allievi. Sì, quelli li amo comunque,
siccome non trovano ridicolo e innaturale che non diffidi di loro, che voglia
aiutarli a crescere buoni e forti. Gli alunni mi curano l’anima[2]”.
Feci una pausa breve, poi
conclusi: “Dell’amore individuale e sessuale penso che sia la cosa più
importante della vita e del mondo intero. Se non lo fosse, la genesi non
comincerebbe di lì, scrisse, a ragione, un poeta italiano suicida nel
dopoguerra”[3].
Mi guardava con interesse sempre
maggiore.
Poi disse: “Tu mi sembri un uomo
strano, singolare. Prima, osservandoti nel salone dell’università ho notato che
hai qualche cosa di particolare negli occhi”.
“Sono molto miope e ho le lenti a
contatto” feci con ironia palese, e con modestia ostentata, del tutto falsa.
Sapevo bene, già allora, che gli occhi sono il centro dell’energia erotica.
Si nescis, oculi sunt in amore
duces [4], ricordai senza dirglielo. Ho la
tendenza a citare e devo guardarmi dal cadere nel cattivo gusto, nella parte
dell’erudito ombroso e ingobbito: “davanti a lui ogni uccello giace spennato”[5]. Le citazioni non possono essere
più che i cavalli laterali della troika. Gli altri due destrieri siano
sentimento e fantasia. La ragione rimanga l’auriga.
Che ne dici lettore? Cito troppo?
Sono un pedante mezz’orbo di occhi e di mente? Fammelo sapere con tutta
franchezza.
Elena sorrise e continuò. “Quello
che dici, mi conferma che non sei una persona comune. In te ci sono dolori
molto sofferti, ma c’è anche qualche cosa di intelligente e di buono che può
prevalere, se qualcuno ti aiuta”.
Colsi la palla al balzo,
immediatamente, con zampata da giovane leopardo affamato, e dissi: “Aiutami tu.
Tu puoi farlo perché mi piaci, mi emozioni, mi costringi a pensarti, mi stimoli
a fare bella figura.
Ti sono molto grato di avermi
interpretato tanto benevolmente.
Anche io in te ho visto qualche
cosa di non ordinario, e fin dalla prima sera, quando tu non mi avevi notato”.
“Non c’era abbastanza luce a
quell’ora”, si scusò.
“Lo immaginavo. Sotto quella luce
incerta, non c’era neppure la luna - ironizzai - non potevi notare una presenza
riservata, introversa come la mia. Io invece ti ho notata lo stesso, perché tu
eri luminosa come un giorno senza nubi, o come luna piena che risplende nelle
notti serene e quasi nasconde le stelle. Tu brilli sempre, anche adesso:
rifulgi di luce corporea, e di luce interiore. Io vorrei orientare la mia vita
sul corso della tua luce”.
Dovevo tradurre il mio desiderio
di quella donna in immagini lucide e profondamente emotive.
“Io… io credo che mi
innamorerei di te senza riserve, credo che potrebbero unirci ponti vertiginosi
se tu non fossi legata a un altro.”
“Già. Peccato che l’altro non
veda in me quanto vedi tu”. Questa risposta, sussurrata, mi parve un altro
particolare decisivo. Lo era.
Afrodite e suo figlio mi stavano
togliendo ogni dubbio.
“Forse non siete abbastanza
sintonizzati, dico spiritualmente”, azzardai, tutto contento, e rivolsi un
sorriso amichevolmente giocondo a Fulvio che, tutto travagliato, cercava di
comunicare con l’ imbambolata.
“Può essere” fece Elena con un
sorriso tra l’ironico e il mesto. “Scusa, devo dire due parole alla mia amica”.
Pensai che stesse manifestando
una stravagante autonomia dal suo uomo, una libertà dalle convenzioni sociali
in base alle quali la fidanzata avrebbe dovuto respingere con sdegno, perfino
con “santa” ira il mio corteggiamento, almeno nella fase iniziale. Non avevo
mai incontrato una donna così educata e nello stesso tempo tanto “dissoluta”,
in senso buono, ossia sciolta dal perbenismo piccolo borghese tipico delle
promesse spose italiane, particolarmente di quelle bruttine o “racchie da
ridere” come si dice a Pesaro.
Potevo continuare a punzecchiarla
in molti sensi.
Si rivolgeva in finlandese alla
biondastra che si trovava in difficoltà a parlare con Fulvio, disorientato
anche lui. Forse pensava alla ragazza carsica che sembrava riluttare. Ero
felice, ogni momento di più. Avevo trovato il tono giusto, atto a suscitare
l’interesse non solo generico della splendidissima donna: procedendo
metodicamente su questa via[6] potevo
farla innamorare di me, e non in modo proditorio o sadico, ossia per umiliarla
e tradire la parola data, ma in buona coscienza e rispettando la santa fides, fundamentum
iustitiae, siccome ero innamorato di lei e sentivo che dalla comunione dei
nostri corpi e dalla trasfusione reciproca delle anime poteva nascere in tutti
e due una maggiore comprensione della vita e di quanto è umano, una
intelligenza indispensabile per la crescita delle nostre persone e della
missione di educatori che ci premeva. Mangiammo un piatto di carne senza le
patate aborrite, insipide come certuni, e per giunta eterne nemiche della santa
snellezza dovuta al mio progetto e a me stesso. Sapevamo entrambi che l’aspetto
ordinato, a partire dalla linea snella, fa parte del dovere dell’insegnante il
quale rappresenta una figura emblematica agli occhi dell’allievo. Come un
principe per il suo popolo. Condividevamo il disprezzo di Hanno Buddenbrook per
i professori connotati dallo squallore[7].
Tornammo Debrecen nella notte
nuvolosa, attraverso la puszta più che mai deserta. Arrivati
nel campus universitario, davanti al kollegium, salutammo Fulvio e
Marja Liisa che non avevano trovato modo né voglia di comunicare e si
separarono subito non senza un paio di smorfie quasi spettrali. Seppi poi da
Helena che tornata in camera trovò la sua contubernale mentre se la prendeva
con i cuscini usando piedi e pugni quali catapulte. Come la vide entrare, la
megera finnica si mise anche a digrignare i denti, poi a gridare gonfiando il
collo. La mia donna, pur forte e coraggiosa, per schivare quella violenza, andò
a chiedere asilo politico in un’altra stanza.
Lo stesso dovrò fare io molti
anni più tardi per evitare una che non mi piaceva e voleva darmi la buona notte
prima accarezzando la mia svogliatezza poi inveendo contro il demone languido,
frigidus sed callidissimus aggiunse, e mi sferrò un pugno nell’occhio
più debole con violenza centaurica. Mi vennero in mente i Centauri stupratori
del frontone occidentale del tempio di Zeus del maestro di Olimpia.
Non riuscii a
dissuaderla cum civilitate né volevo sedarla, e me ne andai a
dormire nel contiguo androceo dove mi accolsero quale martire e, aggiunsero,
vergine.
Subito dopo il congedo dai due
amanti mancati, Elena e io, amanti in pectore, nel petto già
fervido, il mio almeno lo era, ci incamminammo per il bosco segnato da parecchi
sentieri, verso la zona dov’era un laghetto con un ponticello di legno. Al
fianco della bella donna perfino la tenebra mi appariva speciosa.
Giunti là, sedemmo su una
panchina sotto una quercia immensa, sull’orlo dell’acqua. Elena mi parlò della
sua vita in Finlandia, del suo lavoro che amava e del suo uomo di cui, invece,
non sembrava innamoratissima. Disse comunque che voleva rispettarlo, e che gli
voleva bene, particolarmente da quando, negli ultimi tempi, avevano quasi
deciso di vivere insieme perché lei forse, probabilmente, aspettava un bambino.
Quest’ultima notizia mi impressionò, ma non fu un deterrente tale da farmi
cambiare proposito. Anzi, il desiderio di unirmi a lei ne fu incentivato:
all’amore si aggiungeva il gusto del proibito, dell’assolutamente gratuito, e
quello della rivalsa: lei era bella e fine; di lui disse che era facoltoso, una
specie di Puntila brechtiano, non colto, un poco strambo, un poco beone e
fisicamente prestante.
“Comunque - pensai - ai suoi
occhi non è un magnanimo eroe, come dovrò apparirle io, per vincere la
battaglia erotica. Sì mi aspettava un agone quasi militaresco: “Militat
omnis amans et habet sua castra Cupido”.
Sentite le sue parole, il
mio demone avido, magro, cupamente famelico, mi spingeva più che mai a
corteggiarla perché si unisse con me e mi nutrisse con la sua carne bianca e
sostanziosa, dopo avere abolito tutti i divieti di cui ero stato imbevuto in
famiglia e in parrocchia, tabù che in passato mi avevano oscurato la gioia di
vivere.
“Perché hai scelto quell’uomo?”
Le domandai a bruciapelo.
“Perché è buono, mi dà sicurezza
e il suo aspetto mi piace”.
Gongolando dentro di me
senza farlo vedere, anzi con aria compunta, un poco gesuitica, le feci notare
che non gli aveva attribuito genio né intelligenza, le doti che alle donne di
una certa levatura piace al di sopra di tutte le altre. Infatti sono qualità di
rilevanza cosmica. La potenza suprema che attira le femmine umane belle e fini,
Elena non l’aveva riconosciuta al suo compagno, mentre in me la stava rilevando
e persino potenziando dopo poche ore di conversazione.
La partita a scacchi dunque
poteva procedere. Lo svantaggio della prima serata era stato colmato e si stava
rovesciando in vantaggio.
Per confermarlo, passai
all’attacco. Le domandai: “Sicché non è tanto intelligente il tuo fidanzato?”
“Crede di esserlo” rispose non
senza ironia, aprendo la strada al mio trionfo, infondendo ulteriore coraggio
al demone mio.
“Una precisazione decisiva”,
pensai, “un segno del cielo che significa molto. Un segno che trae l’anima in
alto. Il cielo ora non solo è spra di me, è anche è dentro di me, e io ne colgo
i segni con astrologica filologia e pure con filosofia erotica”.
E subito dissi: “Anche se tu hai
un uomo e aspetti un figlio da lui, io ti amo, e sento che se mi ricambierai,
noi ci rafforzeremo e diverremo più felici, dum vita manebit”[8]. Se non potrai amarmi, io
accetterò questo destino malvagio: sarò un vir fortis cum mala fortuna
compositus”. Cercavo di controbilanciare il mio inglese modesto e troppo
neolatino con il latino vero, quello classico che la bella donna conosceva e
intendeva, come vedremo.
“Forse non aspetto un bambino”,
replicò, “né rimarrò con lui. Sai, io non sto del tutto bene. A volte sento
grandi dolori nel ventre. Quand’ero più giovane, da adolescente, mi hanno
operata. Poi stavo molto meglio, ma ultimamente, con l’interruzione delle
mestruazioni, sono tornati i dolori. Un medico di Yväskylä, poco prima che
partissi, mi ha detto che devo farmi vedere presto, qui a Debrecen. Potrei
essere incinta, ma potrebbe esserci un cancro. Ho paura. Comunque devo fare una
serie di analisi, cominciando dal test di gravidanza. Ho molta paura. Non sono
sicura di aspettare un bambino, né di volerlo, e ho terrore di essere malata a
morte. Poi ho altri timori”.
Qui si interruppe. “Cioè?” le
domandai spaventato, commosso, eccitato. Quella donna era la femmina incinta:
la madre, amata nobis quantum amabitur nulla [9], la mamma che fino allora non
era stata abbastanza affettuosa con me sebbene, ora ne sono certo, mi amasse,
né io ero stato capace di affetti generosi con lei, nonostante l’amassi molto;
Elena era inoltre la giovane bisognosa di aiuto e conforto: la figlia che non
avevo e forse non avrei avuto mai il coraggio di mettere al mondo; era la donna
intelligente, ammirata e desiderata: l’amante e l’amica quale mai avevo incontrato.
Le femmine leziose, le sbiadite e
le variopinte, le insipide come patate, le frustrate aggressive, le cretine
integrali, le morte di studio o di sonno, le commedianti incolte, le
chiacchierone petulanti in vari modi incontrate fino a quel momento non avevano
mai suscitato interesse nell’anima mia.
Certo non così grande e forte
“Cioè non so parlare ungherese, e
in clinica temo di non potermi spiegare”.
“Ti aiuto io”, proposi, “io me la
cavo, anzi, per te sarei capace di improvvisarmi eloquente anche in questa
lingua magiara”. Non dissi “ostrogota” poiché l’ungherese e il finlandese sono
lingue imparentate. Sarebbe stato offensivo. Aggiunsi che le mie parole si
sarebbero accese di una luce chiarissima, riverberando la splendente bellezza
di lei. Una bellezza, aggiunsi, che era anche intelligenza e moralità.
“Voglio farmi ricordare da te,
meritando di te” conclusi.
Ma Elena non si lasciò
impressionare granché dal mio slancio: mi prese la mano destra e disse:
“Gianni, io non ho bisogno di un amante. Tu sembri buono. Possiamo essere
amici, se vuoi. In ogni modo mi piaci: sei intelligente, sei simpatico, sei
gradevole. Tu sai piacere, davvero, e io sto imparando a stimarti, a volerti
bene. Però non deludermi con una richiesta che ora non posso esaudire. Adesso non
lo farei con nessuno, nemmeno con lui”.
La guardavo con aria di assenso.
Le dissi: “non preoccuparti. Ti
farò questo piccolo favore senza aspettarmi niente in cambio, se non la tua
simpatia. E su questo non giustificarti, non dire altro. L’aiuto che posso
darti non ha bisogno di lunghi discorsi. Mi vengono in mente alcune parole
dello sposo innamorato, il Commendatore, alla moglie donna Anna, nel Don
Giovanni: ‘Dalla tua pace la mia dipende - quel che a te piace vita mi rende - quel
che a te incresce, morte mi dà’. La musica di Mozart è la voce di Dio, il suo
talento un dono di Dio. Come sei tu per me”.
Canticchiavo e intanto
pensavo: “Sembra un rifiuto, ma non lo è. Mi ha riconosciuto tutte le qualità
per cui una donna di valore ama un uomo. Mi prega di non chiederle amore,
mentre è lei che me lo offre. Sennò tornava in collegio con l’altra, la brutta,
la medusa scema dalle gote accese. La faccenda della lingua ungherese è un
pretesto, magari suggerito dal fato, un’occasione offerta alla crescita della nostra
intesa. I medici ungheresi o vietnamiti della clinica universitaria un poco di
inglese lo sanno. Che noi due si faccia l’amore è destino. Dio stesso lo vuole
e io non recalcitro mai al volere di Dio.
Sono naturalmente, e senza sforzo
alcuno, concorde con Lui e con il destino.
Sono perfino disposto ad
aiutarla gratis et sine corporis voluptatibus, se il
Fato dispone questo e lei davvero non può darmi nulla in cambio. Ma è molto
improbabile, quasi impossibile”.
[3] Cesare Pavese. Precisamente: “Se
il chiavare non fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non
comicerebbe di lì”. Il mestiere di vivere, 25 dicembre 1937. Non mi
ricordo come lo tradussi in inglese
[5] Cfr. Nietzsche, Così parlò
Zarathustra “Guardatevi anche dai dotti! Essi vi odiano: perché sono
sterili! Essi hanno occhi freddi e asciutti, davanti a loro ogni uccello giace
spennato”.
[6] Procedere metodicamente per una
strada è una tautologia: mevqodo~ (methodos)
contiene oJdov~ (hodós)
che significa “via”, “strada”.
[7] "I maestri supplenti o
tirocinanti che lo istruivano in quelle prime classi, dei quali sentiva
l'inferiorità sociale, la depressione spirituale e la poca cura
dell'esteriorità fisica, gli ispiravano, oltre il timore della punizione, un
segreto disprezzo" T. Mann, I Buddenbrook (del 1901), p.
330.
[9] Catullo, 8, 5., amata da me quanto
nessuna sarà amata.
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