"Megaron" dell'università di Debrecen |
Il ricevimento del rettore. Il secondo approccio. Il giro nella puszta
Dopo la festa della conoscenza, per due
giorni interi non la rividi, né la sentii, ma non smisi di cercarla con gli
occhi, con le orecchie e perfino con il naso, ovunque mi aggirassi, pensandola
spesso, quasi sempre: sul prato, nel grande bosco, in piscina dove nuotavo di
giorno, allo stadio dove correvo a mezzogiorno e al tramonto per rendere
appetitosi il desinare, la cena e dopo tutto anche me stesso a quella donna,
poi la pensavo di notte quando vagavo da solo per l’oscurità dei sentieri della
grande foresta, e la mattina seguente dentro l’università, durante gli
intervalli tra le lezioni, come facevo nei corridoi del liceo Mamiani di Pesaro
quando, diciassettenne, ero innamorato di una fanese bionda.
Un amore mai contraccambiato, una
triste smania da adolescente. L’insuccesso di allora si rivelò con il senno del
poi, una fortuna grande.
I bersagli mancati non sono adatti a
noi, e il successo vero è fallirli.
“Questa volta, però, guai a te se manchi
il bersaglio perfetto”, mi dissi.
Mi venne in mente quanto dice Socrate
nel Fedone platonico: l’uomo quando indaga intorno a sé e su
altre cose deve cercare il meglio e la perfezione, ma durante questa ricerca
egli conosce anche il peggio perché la scienza che li riguarda è la stessa
(97d).
Altrettanto si può dire della
ricerca delle donne.
Pure nella mensa cercavo Elena, tra lo
schioccare dei piatti e il vociare delle inservienti. Non la incontravo, ma
l’avevo in mente, e sentivo il bisogno ansioso di vederla, di parlarle ancora,
di ascoltarla, per fare l’amore con lei e formare un modello dentro di me, un
paradigma di vita amorosa trionfante. Volevo entrare in comunione con quella
donna per diventare migliore. Inaccessa tentare era il mio
imperativo. Amare quella donna per un mese valeva più di quanto avrei potuto
apprendere dai libri negli anni seguenti: da lei imparavo i più. Comunque amare
valeva più un qualche sapere - sofo;n ti
- appreso leggendo. L’avevo intuito già allora.
Mi avevano colpito gli sguardi di lei e
i suoi atteggiamenti appropriati alle parole che diceva, piene di senso e non
banali. Avevo invece dei dubbi sullo stile mio, sull’eloquio inadeguato alla
sua bella persona, e cercavo un’altra occasione per muovermi e parlare meglio:
una sorta di esame di riparazione nella scuola dell’amore.
Parlare male fa male all’anima, avevo
letto in Platone[1], con Elena avevo
avuto la prova che le parole insignificanti danneggiano anche l’amore.
Alla donna che mi aveva messo
nella fiamma di Eros per liberarmi dal sovrappeso di scorie e farmi diventare
quello che sono davvero, dovevo significare con lingua non inerte ma diritta,
con parole plastiche, che non ero un uomo volgare, nemmeno banale: dovevo
accendere scintille d’amore anche dentro di lei, dirle che amavo la vita,
credevo nell’educazione, volevo sapere di letteratura, di filosofia, di arte,
di cinema, la più moderna e progressiva delle arti[2]; che avevo voglia di
fare sport con metodo, per mantenere la migliore delle forme a me possibili.
Questo e altro potevo realizzare, pensavo, se quella donna bella e fine mi
avesse aiutato.
Dovevo incontrarla di nuovo per tentare
ancora la sorte: dopo la sera della conoscenza, la certezza di cambiare in
meglio la vita mia non c’era, ma “Cloto filando fa girare ogni fato - ripetei[3] - speranzoso e
devoto.
E se lei continuerà a non
incoraggiarmi - conclusi - insisterò con dieci bocche, dieci lingue per bocca e
con voce di miele, o di ferro[4]”.
Finché, due giorni più tardi, la
vidi di nuovo seduta nel Megaron, la grande sala centrale dell’Università.
Parlava con una bionda. Eravamo al “ricevimento del Rettore”: la festa
pomeridiana. Nel mezzo della sala c’era un tavolo grande coperto di piatti con
dolci, e irto di bottiglie con liquidi vari, per lo più alcolici. Mi sentivo
meno insicuro che al primo incontro serale: questa volta ero entrato sapendo
già chi cercavo e che cosa volevo; inoltre, nel pomeriggio estivo il salone
veniva irradiato da un sole ancora alto attraverso il lucernario del soffitto,
e quando sono evidenziato e rallegrato da una fonte luminosa, massime se
naturale, mi sento più bello e meno insicuro che nella penombra, più capace di
comunicare simpatia a chi mi piace, forse perché provo una simpatia grande per
la fiamma del dio che nutre la vita e la riempie di colori vivaci. Sentivo
rifulgere dentro di me la forza santa del primo tra tutti gli dèi, come lo
chiama il primo fra tutti i poeti, il pio Sofocle nell’Edipo re[5].
Il liquore solare potenziava la
mia bellezza, qualunque essa fosse, e la mia intelligenza.
L’eroica luce del sole illumina le opere
buone dei buoni e scopre gli obbrobri dei malvagi che infatti, come denuncia
l’apostolo giovane, preferiscono le tenebre.
Pregai dunque il dio di attribuirmi una
vita piena della sua luce e di darmi la fulgida donna che amavo. Mi preparavo a
incontrarla, a parlarle, e pensavo che anche le mie parole dovevano essere
piene di luce e avere la forza della bellezza, della persuasione. Senza
verbosità astratta e insignificante, senza arzigogoli e ghirigori che non
dicono nulla, come tanti che avevo sentiti dai noiosi inamabili e
infrequentabili. Uomini e donne che si gettano nel fiume della vita come
rottami.
L’amore genererà il comprendere, questo
poi magari la sofferenza invertendo i termini della legge eschilea tw'/
pavqei mavqo" [6]. Ma ne varrà la pena. Il dolore giunge anche a chi non ama, il capire
attraverso il dolore solo a chi ama.
A dire tutta la verità, quando vidi il
termine fisso dei miei continui pensieri, sentii il bisogno di farmi coraggio
con una palinka all’albicocca, una specie di grappa ungherese,
un farmaco per la mia insicurezza: infatti, nonostante la preparazione mentale,
la santa luce del sole estivo, e l’ottimismo di fondo, io con la bella donna
che, probabilmente annoiata, dopo due soli balli con me, era tornata
direttamente al tavolo suo, ero svantaggiato in partenza. Come nella vita del
resto. Stavo risalendo la china lunga ed erta, uno Stelvio dalla parte di Prato
da fare in bicicletta in non più di due ore[7].
Sono venticinque chilometri di salita
ora più dura, ora meno.
Dovevo provarci di nuovo.
Dopo avere bevuto, non a dismisura, e
averla guardata con una certa insistenza, non proprio con fissità, ma in modo
piuttosto tenace, senza del resto venirne contraccambiato, se non di sfuggita,
mi avvicinai a lei mentre beveva una birra, con lentezza, e parlava con voce
bassa, adagio, alla vicina, verosimilmente un’altra finnica, bionda però, e non
bella. Aveva le gote rossicce e lo sguardo stralunato.
Salutai Elena con calore, ma lei,
quasi stupita, sembrava non ricordarsi, o sovvenirsi appena, di me; quindi, con
fatica e imbarazzo, cercai di rammentarle il nostro incontro serale; poi, in
modo diretto, giacché oramai era l’unica cosa da fare, la ratio extrema,
dissi che due sere prima io l’avevo notata subito per il suo stile, e non
l’avevo scordata neppure per un momento. Anzi, avevo premeditato un nuovo
colloquio tra noi. Avevo passato due giorni aspettando di incontrarla un’altra
volta per dirle che avrei voluto conoscerla meglio.
Speravo che potessimo parlare ancora.
“Quando e di che cosa? ” mi domandò con
miglior labbia e senza intonazione retorica, guardandomi, del resto, con
un’espressione di curiosità vagamente ironica. Sembrava volesse lasciare la
scelta e l’iniziativa a me, visto che ero, e chissà perché, tanto interessato a
un colloquio con lei.
Notai che mi stava guardando in maniera
già un poco meno generica. La mia proposta diretta doveva averla interessata in
qualche modo. Il suo sguardo sembrava aggiungere alle parole: “E allora? Quali
argomenti possiamo avere in comune noi due? Dimmelo tu, visto che ci tieni
tanto”.
Mi sentii incoraggiato, e, sorridendo,
risposi: “il più presto possibile! Adesso! . Se vuoi, ti porto a vedere
la puszta, la grande pianura senza alberi. Conosco una csárda dove
suonano egregiamente le danze ungheresi di Brahms, si beve del vino buono e si
può parlare stando in pace. Sono sicuro che abbiamo qualche cosa da dirci,
forse anche molte..
Hai un’aria da persona riflessiva. Mi
piacerebbe sapere che cosa pensi, e dirti a mia volta quanto spero possa
interessarti di quello che penso io, rispondendo alle tue domande, se me le
farai. Sono molto curioso di te. Credo che noi abbiamo quache cosa in comune”.
“Che cosa?” , domandò lei, forse per
vedere se parlavo a vanvera.
“La voglia di imparare, di conoscere
aspetti belli della vita, di ricordarli. Oggi potremo raccogliere impressioni
preziose e farne tesoro. Potremmo trarre tutta l’energia che è contenuta nei
nostri semi”.
Elena fece un sorriso non privo di
simpatia e di consenso.
Sicché aggiunsi: “Vorrei ammogliarmi con
l’energia immortale che vedo nel cosmo e nelle persone di grande formato”.
“Che cosa cerchi di dirmi?
“Che tu mi piaci molto”
“Anche tu sei un bel tipo però”,
concluse, forse alludendo al mio strano modo di esprimermi, poco naturale
invero anzi piuttosto artefatto e piuttosto forzato. Non so se le piaceva ma
avevo capito che la incuriosiva. Per questo insistevo
Dal fatto che evidentemente
cercavo di fare bella figura con lei, aveva compreso che chiedevo il suo aiuto.
E non me lo negò. Con questo suo
soccorrermi mi diede la forza e la voglia, che non ho più perduto, di offrire
il mio soccorso ad altri bisognosi di forza, coraggio e di affetto.
Anzi, lo feci con Elena stessa una
ventina di giorni più tardi, come vedremo.
La donna bella e fine mi guardava con
un’espressione sempre meno generica, quasi benevola, comunque non riluttante.
L’altra mi fissava con gli occhi sgranati e poco espressivi: non capivo nemmeno
se fosse in grado di comprendere quanto dicevo nel mio inglese trattato come se
fosse una lingua neolatina, cioè inglesizzando molte parole italiane o
pronunciando le inglesi non neolatine, con un forte accento pesarese, tra il
marchigiano e il romagnolo.
“Se vuoi, puoi invitare anche la tua
amica”, dissi, accennando con il capo alla biondastra imbambolata e poco
attraente, a dire il vero.
Accanto alla bellezza, la non avvenenza
si accentua e appare deforme.
“In questo caso, chiamo un mio amico
italiano intelligente; così, in modo più vario, ci scambiamo notizie sulle
culture, credo alquanto diverse, dei nostri paesi lontani”.
Il tono doveva essere quello giusto:
Helena, dalla prima curiosità quasi stupita, era passata a uno sguardo sempre
più attento. Anche l’idea di farla salire sulla mia automobile nuova e poco
comune, mi faceva coraggio nella mia debolezza di allora. Mi aveva guardato con
simpatia, finalmente: forse si era accorta che non ero brutto del tutto, né
integralmente cretino, né proprio vuoto e volgare. Quindi, con tono ed
espressione non avversi alla mia proposta, si rivolse in finlandese a quell’altra
chiedendole, immagino, che cosa ne pensasse. La bionda tardava a rispondere.
Allora l’idolo mio cominciò a parlarle in inglese, probabilmente per
significarmi che potevo intervenire in favore del programma.
Lo feci con foga, caldeggiando la puszta sconfinata,
la caratteristica osteria di Hortobágy, i violini e i cembali degli zigani che
suonano le danze popolari magiare e le danze ungheresi di Brahms. Fuori
dalla csárda invece si poteva ascoltare il canto del vento
estivo che soffiava dalla puszta sulle nove arcate del celebre
ponte e le rendeva arcanamente sonore.
L’altra, l’attonita bionda che si
chiamava Marja Liisa e sembrava intronata, continuava a fissarmi con gli occhi
sbarrati senza dire parola, come Argo, il mostro insonne dalle mille pupille,
messo dal padre Inaco a guardia di Iò, la fanciulla concupita da Zeus. “Chissà
- pensai - forse questa specie di guardiano, o forse di Gorgone è stata posta
alle calcagna dell’idolo mio per controllarla. Cercherò di neutralizzarla. Io
non sono Perseo, mi mancano i calzari alati, ma questa la eludo, stordita
com’è”.
Quindi ruppi gli indugi e dissi: “Va
bene. Ora chiamo il mio amico”.
Allora il bersaglio massimo dei miei
desideri disse con voce soave: “Sì, andiamo nella puszta”.
Veramente si poteva parlare anche lì, ma
la puszta era un pretesto per andare via insieme e creare un
precedente, magari con una complicità da sviluppare. Come quella instaurata con
Fulvio, la prima volta di Debrecen, nel luglio, già allora lontano, del 1966[8].
Corsi a chiamare l’amico, trattenendomi
per non fare salti di gioia. Sì, quella donna, molto probabilmente, era
destino. La stessa Afrodite dal dolce sorriso ci spingeva benignamente
all’unione preparata e benedetta da lei.
“Fulvio”, dissi assai concitato. “sono
innamorato e chiedo il tuo aiuto! Vieni, andiamo via con due donne, due
finlandesi”. Gliele indicai con un cenno forse pur troppo evidente. Fulvio, per
sua cortesia e umanità, infatti era chiaro di quale delle due potevo volere
l’amore con tanto slancio, rispose: “sì vengo volentieri, però ti prego,
lasciami la bionda dagli occhi di Medusa”. Gentile, gentiluomo di Parma.
“Certo” feci “ma vedi di non lasciarti pietrificare”.
Ancora l’amico non aveva ingranato con
la futura moglie, l’insolente del Carso.
“Va bene, va bene”, lo incalzai, “io
voglio la mora. Non è per gioco né per vanità che la voglio. Neanche per fare
numero. Io la amo. Quella non è una donna, è la dèa che completerà la mia
nascita di uomo umano. Accresce la coscienza della mia umanità.
Sbrighiamoci però: non posso
perdere per colpevole inerzia il dono che il destino mi offre con tanta
benevolenza! Ora il tempo per me ha un senso profondo”. Aggiunsi queste parole
con un’enfasi tale che doveva togliere ogni dubbio alle mie intenzioni.
Così tutti e quattro salimmo sulla nera
Volkswagen decappottata. Cercavo di fare bella figura anche guidando
l’automobile. Se non altro, da appassionato ciclista quale sono, davo sempre la
precedenza alle biciclette. Ma anche ai pedoni. Ai più deboli insomma. Da
bambino tenevo per Ettore e per i Troiani. E per gli Indiani massacrati dai
bianchi nei film western. Sono sempre stato dalla parte delle vittime dei
prepotenti.
A metà strada, Elena disse che da come
mi comportavo alla guida sembravo una persona gentile e sicura. Ero tutto
contento. Mi sembrava che un cielo più vasto vestisse il mondo di luce
purpurea. Duravo fatica a non scoppiare di gioia. Ma non dovevo esplodere.
Dovevo procedere accrescendo l’abbrivio del successo appena iniziato. La bella
donna, presa di mira dalle mie brame, dal bisogno del suo corpo e del mio
riscatto, stava entrando in sintonia con me. Non c’è niente di meglio nel breve
e rapido corso di questa vita mortale, attesi come siamo dal triste nocchiero[9] che ci fa fretta
arrivando perfino a gridare mentre dormiamo: “sbrigati, tu mi fai perdere
tempo!”. Allora ci svegliamo risoluti a compiere quanto dobbiamo a noi stessi
prima che sia troppo tardi.
Stavo ritrovando l’amore difficile,
troppo spesso smarrito, di mia madre, della nonna Margherita, di mia sorella,
Margherita anche lei, e delle nostre zie, Rina, Giulia e Giorgia. Le ho
recuperate tutte al mio affetto e alla mia gratitudine grazie anche all’amore
contraccambiato da Elena.
Attraversando la puszta con
gli occhi umidi dalla felicità, notavo con simpatia le oche e le pecore
bianche, gli enormi maiali neri, le falangi di girasoli verdi e gialli, i
cavalli pezzati, le farfalle variopinte, i pozzi dalle lunghe antenne
scenografiche; tutto con simpatia e gioia guardavo, perfino le grosse nuvole
scure e acquose che da occidente minacciavano pioggia.
Scorreva un torrente cromatico con un
mormorio che faceva eco ai miei sentimenti.
Ogni cosa aveva una sua attrattiva
siccome era parte di un processo naturale che mi apparteneva. Era lo scenario
della mia crescita in termini umani.
Mi sentivo in armonia e in comunione con
il mondo, come sempre succede quando si viene contraccambiati nell’amore o
quando si crea qualche cosa di bello. Questo l’avrei fatto più avanti, se
quella donna ispiratrice di sentimenti forti avesse riconosciuto e favorito il
mio genio.
Lo sto facendo ora, 49 anni più tardi,
per voi lettori che mi leggete a centinaia di migliaia nel blog. Sarete molti
più di un milione per le mie nozze d’oro con Elena.
Arrivati a Hortobágy, distante da
Debrecen una trentina di chilometri, entrammo nella grande osteria dove gli
zigani suonavano violini e cembali.
Nella loro musica, già ascoltata negli
anni precedenti in vari locali di Debrecen, e lì nella puszta,
sentivo fin dall’estate lontana del ’71, l’eco di un tempo remoto che però non
mi induceva alla nostalgia, anzi mi dava la spinta a procedere, “soffio
possente di un fatale andare”[10], poiché confrontando il presente con il passato,
notavo un continuo progresso che non si sarebbe arrestato durante la mia vita
terrena, forse neppure oltre la morte. I suoni discordanti che componevano la
mia vita potevano essere armonizzati in una melodia ricca di significato e di
promesse riguardo a successive conquiste in termini di umanità.
“Chi si affatica sempre a procedere
oltre, noi possiamo redimerlo”, dice il coro di angeli nell’atto di salvare
Faust[11]. Questo mi ricordai.
Entrammo e ci mettemmo seduti a un
tavolo situato vicino a una stufa di maiolica o terracotta policroma, bianca e
azzurra come una formella robbiana. Mi vennero in mente quelle viste alla Verna
un pomeriggio nel quale ero salito lassù durante un giro ciclistico della
Toscana. La mattina ero andato a vedere la Maddalena di Arezzo, la
Madonna incinta di Monterchi e la Vergine della Misericordia di
Borgo Sansepolcro: figure semplici e belle, ideali e reali, dolci e risolute
come la donna che stava seduta di fronte a me.
La poesia di spirito e carne di Elena
non stava al di sotto della poesia matematica di Piero, anzi. Confrontavo
ricordando.
Quel giorno dell’estate
precedente, le immagini di Piero della Francesca, il giaciglio dell’onesto
Francesco, lo stesso Gesù della pinacoteca del Borgo, il Cristo che esce dal
sepolcro, “accigliato colono imbalsamato dal sole”[12], mi avevano
riconciliato con la religione cristiana, facendomi antivedere una risurrezione
mia, grazie alle donne belle e fini che avrebbero donato gioia e conforto alle
solitudini immense, alle fatiche erculee dei questa mia vita da asceta pagano
cui sono predestinato da sempre e per sempre.
[1] . Lo afferma Socrate nel Fedone :" euj ga;r i[sqi…a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'"
levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev"[1], ajlla; kai;
kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non
parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle
anime.
[2] Cfr. Sergej Ejzenštein, Memorie, trad. It. Se, Milano
2000, p. 84
[3] Cfr. Seneca, Thyestes 618 - 619 Clotho …
rotat omne fatum.
[4] Cfr. Virgilio, Eneide, VI, 625 – 626
[5] Nell'Edipo re il sole oltre essere " pavntwn qew'n
provmo"" (660), il primo fra tutti gli dei, è anche la
fiamma che nutre la vita, "th;n pavnta bovskousan flovga" (v. 1425); nell'Edipo a Colono (v. 869) è, con una
ripresa dell'idea omerica, "oJ pavnta leuvsswn JvHlio"", Elio che vede tutto. Platone nella Repubblica (508c
sgg.) insegna che il Sole è figlio del Bene che il Bene generò simile a sé:
infatti quello che è il bene (to; ajgaqovn) nel mondo
intelligibile (ejn tw`/ nohtw`/) è Elio nel
mondo visibile (ejn tw`/ oJratw`/). Il dio Elio in effetti occupava il posto che verrà attribuito a Cristo: il
25 dicembre, il solstizio d’inverno nel calendario giuliano[4], prima
dell’affermarsi del cristianesimo, era il dies natalis solis invicti.
La scuola di oggi fatta per raccomandati figli di raccomandati o per figli di
facchini predestinati dall’empia ingiustizia al facchinaggio, non insegna più
queste verità. Continuerò a farlo io con questo blog.
[8] L’ho già raccontato in questo blog
[12] Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi, p. 83.
Ottimo
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