Il picnic crepuscolare. Elena alla finestra del collegio di Debrecen
Il giorno seguente cercai distrazione dalla dolce, materna Sarjantola parlando e giocando con gli amici e i conoscenti che in quel luogo e in quel tempo erano già, e ancora, molti; insomma feci un tentativo di togliere significati speciali a quella donna che era bella, fine e buona quanto si vuole, ma era pure incinta di un altro uomo.
Magari era stata ingravidata da un gonzo tra il sonno e la veglia, in un letto freddo, in un amplesso senza passione né attenzione, pensavo.
Comunque l’immagine di lei, eternamente viva , mi volteggiava sempre davanti e mi assillava.
Non potevo essere più forte di Zeus che ha potere sul cosmo, eppure è schiavo di Afrodite. Del resto la mia intenzione in quella circostanza non era lo scatenato libertinaggio del dio che è stato il primo dongiovanni della storia. Il mio amore era Uranio, figlio di Afrodite Celeste, non quello Pandemio, plebeo siccome figlio di una Venere volgare.
La tenacia del sentimento e del proposito voleva dire che Elena, anche solo se la pensavo, mi insegnava più cose e più importanti di quante ne potevo imparare dal resto dell’ambiente di studio e di eros, dove, in seguito a quattro estati di varie esperienze, avrei potuto passare un quinto mese piacevole con una ragazza gradevole, lieta e disinvolta, come avevo fatto l’anno precedente, o anche vivere un amore mensile allegro con una femmina umana già conosciuta bene o con una carina ancora intentata, una donna che significasse qualcosa, ma non mi obbligasse a pensarla continuamente e spietatamente al pari di Elena, intensa e piena di simboli come un’opera d’arte, e pure problematica da ogni punto di vista.
Non volevo soffrire troppo per Elena dalla bella chioma[1], eppure non riuscivo a staccare il mio pensiero da lei, e ne dedussi che lasciar trascorrere invano quel mese importante, ossia ricco di rapporti con il passato e con il futuro, come lucidamente lo prevedevo, passarlo con una donna qualsiasi, anzi con qualsiasi altra donna, non era destino per me e non mi conveniva; allora dovevo impegnare tutte le mie forze in un rapporto pur faticoso e travagliato con quella perché mi guidasse a conoscere nuovi e reconditi aspetti dell’anima mia.
Non potevo eliminare Elena per non annichilire il mio progressi.
Ci sono difficoltà e ascese impervie che non dobbiamo evitare poiché ci salvano da cadute retrograde in precipizi scoscesi.
Il più delle volte quando rinunciamo a un’impresa possibile, temendo di non averne la forza, di fatto non ne abbiamo la voglia. Ma certe rinunce ad affrontare gli ostacoli pervi o impervi che siano, possono spedirci all’ospizio.
Nel pomeriggio venne a cercarmi Katalin. Mi invitò a una cena in un giardino situato nella zona universitaria. Con noi ci sarebbero stati altri giovani ungheresi; io potevo portare Claudio che piaceva a una sua amica, una montagna di donna con i fianchi enormi cinti di drappi coloriti.
“Un porcone”, la definì impietosamente l’amico, come la vide. Subito dopo però aggiunse: “questa ingrassa campando a lardo e burro, tuttavia grugnisce di voglia anche erotica: potrei levargliela facendo la cosa più degenerata della mia vita”. Parole sconce, prive di carità.
Comunque avremmo arrostito della carne e, probabilmente seduti, o distesi sull’erba del prato ameno, avremmo dato spinta e incentivo alla parte orgiastica dell’incontro bevendo il vino rosso tipico della terra magiara, l’Egribikavér, ossia il “sangue di toro di Eger”.
Dopo cena, siccome il marito di Katalin era andato, per affari suoi, sul lago Balaton, cioè agli antipodi della peraltro piccola terra magiara, io e la bella sposa lasciva avremmo potuto fare l’amore grattandoci piacevolmente a vicenda dovunque la carne ci prudeva e ci spingeva a farlo. Con il consorte di lei non ci sarebbe stata la lotta dei tori che si battono per la giovemca. Tanto meno una zuffa generale tra Italiani e Ungheresi.
Il programma mi lusingava e, per dirla tutta, mi stuzzicava. Il destino mi offriva il destro concreto di sfuggire a un amore pieno di problemi quanto una tragedia greca. “Molte sono le cose inquietanti, e nulla è più inquietante di Elena”, pensai[2].
Katalin non era una cima, ma, te lo rammento lettore, era una vera bellezza. La donna più bella tra quante, del resto non tante, non ho conosciuto del tutto mentre avrei potuto farlo. Libertino a metà. Troppi scrupoli.
Con questo stato d’animo, mi recai al picnic sul prato. Era il tramonto di una sera estiva, “piena di voli”[3] e propizia all’oblio della finlandese pregnante: una di quelle sere di luglio nelle quali si gode la potenza dell’estate matura, scemata ancora di poco rispetto al culmine di giugno, eppure in misura percettibile dalla posizione del sole occidente già retrocesso dal nord, e visibile nei colori meno vivaci; comunque si preannunciava una di quelle notti ancora brevi e calde, dall’aria liscia, calma e odorosa dove è piacevole indugiare a oltranza, anche fino all’aurora dagli occhi lucenti, per non perdere, con sconsolato rimpianto durante il semestre invernale oscurato da lunghe nuvole inquiete, un dono di Dio raro, bello e fugace come la gioventù, come l’amore, come la stessa vita. Garrivano tutt’intorno le rondini, le rane remote del laghetto cantavano alla boscaglia. Le azzurre cetonie ronzavano ancora lampeggiando nell’aria arrossata dagli ultimi raggi. Un vello prpureo guarnito da bioccoli d’oro si stendeva sul cielo dalla parte della puszta. Alle carezze del vento caldo, ondeggiava adagio il mare verde della grande foresta spessa e viva.
Tutto il paesaggio si rallegrava e comunicava letizia. Il 1971 è stato l’anno più bello del secolo per quanto riguarda i rapporti tra gli umani educati bene, l’acme della solidarietà, dell’uguaglianza, dell’amicizia, dell’amore.
Poi è iniziato il regresso verso la diffidenza e l’egoismo. E’ intervenuto il potere, pauroso di perdere colpi. Infatti ha colpito duramente per tutti gli anni Settanta e anche dopo. Doveva ribadire se stesso: spaventare gli uomini, spingerli a diffidare a odiarsi a vicenda per sottometterli e venire amato lui solo.
Si respirava con gioia la dolce e piena tranquillità della bella stagione suscitata dall’aurea Afrodite che ama il sorriso. Quanto a fare l’amore con Katalin, avrei deciso più tardi. Avevo intenzione di mangiare e bere non troppo, studiando la situazione, e considerando bene se mi conveniva, e piaceva davvero lasciare cadere il sentimento forte, inquietante appunto, e molto difficile da concretizzare, per l’artistica, pierfrancescana donna del parto, in cambio di un’orgia non dionisiaca, né apollinea, insomma non santa, con una ragazza tanto giovane e bella, quanto disordinata, stonata e confusa. Veramente la sera prima avevo promesso a Elena che sarei andato a cercarla, ma questo, casomai, potevo farlo più tardi, anche molto più tardi. Erano appena le otto. “C’è tempo per mangiare, bere, osservare e decidere”, pensai. “Tutto il tempo”.
Ma quando ebbi assaggiato un poco di carne arrostita e bevuto un bicchiere di sangue di toro, sentivo angoscia per quanto dicevano quei giovani consumisti magiari, seriamente occupati a parlare di vestiti, di motori, di scarpe. Lo facevano in modo tale da offendere la mia sensibilità estetica ed etica, mentre il fumo della carne arrostita dal cupo fulgore del fuoco contaminava la dolce aria notturna con volute dense e acri che prendevano a schiaffi il cielo e nascondevano tutte le stelle. “Eschilo sostiene che Giustizia brilla nelle case dal povero fumo[4]”
pensai, “ma questo, prima che povero è un fumo brutto e irritante”.
Gli uccelli più delicati cadevano uccisi dal vapore infuocato e finivano arrostiti anche loro.
Lì, nonostante la bellezza di Katalin, non c’era cosmo, ma guazzabuglio e caotica stupidità. La quintessenza dell’insignificanza era seduta in quel prato di ottenebrati dall’ignoranza. Si ingozzavano con appetito disonesto denaturando la natura. Tendevano i colli e le mani cupide freneticamente verso il cibo e le bevande. Alcuni soffiavano pure con bocca sconvolta, come dragoni affamati.
Facevano singhiozzare le tortore della grande foresta.
Non c’era verso di scambiarci delle idèe.
A un tratto mi alzai per allontanarmi da quei giovani, segno oltretutto del fallimento educativo di un regime che volevo credere molto migliore del nostro. Io ho sempre auspicato una società di donne e uomini uguali, dove non ci siano odiose sperequazioni. Una comunità di persone buone e contente. L’uguaglianza è legge di natura, è legge cosmica cui si sottopone perfino la luce: " l'oscura palpebra della notte e la luce del sole infallibile, percorrono uguale il ciclo annuo”, dice Giocasta al figlio prepotente[5]
che ha fatto l’elogio della tirannide, “un’ingiustizia fortunata”[6] secondo la madre.
“Questi non sono comunisti aristocratici ma consumisti plebei.
Se il comunismo non è capace di educare i giovani, non potrà durare a lungo. La storia, anzi la cronaca per ora ha dato torto a questo regime, ma io non do ragione alla cronaca e ce la metterò tutta per educare quanti mi ascolteranno, all’onestà, alla giustizia e all’eguaglianza senza la quale non possono esserci né libertà né giustizia”.
Mi venne in mente Platone: “nella società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere nobilissimi: infatti né la violenza, né l’ingiustizia, né gelosie né invidie possono nascervi”[7].
Uno di quei poveretti mi domandò quanti cavalli avesse la mia “bella macchina nera”. Non lo sapevo, proprio non lo sapevo, e non mi interessava saperlo. Contro la volgarità e la stoltezza, l’unico argomento è il silenzio. Grazie alla coscienza che stavo prendendo dalla finnica mia, la rozzezza mi appariva più rozza, la stoltezza più stolta.
Pensai del resto che i poveri saranno sempre fregati finché ammireranno e cercheranno di scimmiottare i reputati ricchi.
La pubblicità gioca su questa misera mimèsi imposta miserabili.
Di bere altro vino, pur buono, in mezzo a quella greggia stremata, di fare l’amore con Katalin, pur bella e disponibile assai, in quanto la poveretta, errando, vedeva in me un giovin signore dell’agognato mondo capitalistico, non mi andava. Il desiderio mio unico e fisso era lei: Elena.
“C’è un mondo diverso, altrove”, mi dissi.
Ero pieno dello spirito santo di quella donna rimasta in collegio, anche se alcuni presenti vedendomi tanto distratto potevano pensare che fossi pieno di vino come l’amico Danilo. Invece si stava compiendo il giorno della mia Pentecoste[8]
Lo spirito santo di Elena era sceso nell’anima mia.
Sentivo con dolore la mancanza e l’atroce bisogno di quella mirabile donna finlandese, delle parole, dello stile, dell’aspetto di lei. Mi scusai con Katalin, poco cortesemente, anzi un poco crudelmente, ma del tutto sinceramente: non potevo rimanere, poiché mi mancava una persona che a sua volta aveva bisogno di me. Parlavo senza imbarazzo, siccome dicevo parole sentite profondamente. “Senti Katalin - dissi con aria compunta - tu sei splendida, debreceni Venus vagy, la Venere di Debrecen sei, e probabilmente un giorno rimpiangerò di non avere fatto l’amore con te. Adesso però sono innamorato di un’altra e devo, e voglio andare da lei. Sono in preda al delirio amoroso: non posso fare diversamente”. Ci rimase male parecchio, ma non cercò di trattenermi. Balbettò alcune parole insignificanti, che non ricordo. La memoria è un affresco scrostato delle parti meno belle. O di quelle migliori, secondo il carattere.
Gli altri crapuloni, sparsi sul prato del fumo che oscurava le stelle, nemmeno si accorsero che me ne andavo, sicchè io, alzata appena la mano per un saluto collettivo e generico, mi lanciai di corsa verso la radura del laghetto illuminato dalla luna scoperta.
Non avevo scordato la mia parte, come succede a un attore stupido[9] Soffrivo la mancanza di una relazione amorosa profonda, mi sentivo come viene descritto Eros, figlio di Penia, la Povertà, nel Simposio di Platone: un mendicante dell’amore e della bellezza.
Passai, sempre di corsa, sopra il ponticello di legno che risuonò non cupamente al battito svelto dei miei agili piedi, attraversai d’impeto il piazzale con la fontana dagli zampilli “variopinti, come la mia vita”, pensai, vedendo l’acqua che saltava policroma per i raggi che la vestivano a festa.
La luce che mi sentivo dentro però veniva da Elena.
In poco tempo arrivai sul prato antistante il collegio dove la mia compagna, speravo, mi stava aspettando. Se non era già andata via. Speravo, temevo, pregavo.
“La terra è in mezzo alle stelle che danzano gioiosamente guidate da Dio, e sulla terra, qui a Debrecen, ci sei tu, e forse mi pensi, e mi aspetti, e sei innamorata di me”.
Infatti, infatti Elena c’era: era stata provvida la rinuncia a ubriacarmi di vino, a digrignare i denti e ingozzare tanta carne degli spiedini di porco, ottima l’abnegazione dimostrata nel non rimanere a lisciare, a sfregare, la carne ben tornita di Katalin, anche se il premio doveva rimanere soltanto quello: avere visto Elena che mi aspettava in camera sua affacciata alla finestra aperta sul prato umido di rugiada che luccicava di luna. Innumerevole sorriso dei roridi steli[10].
Vedere la sua figura nobile mi riempì di alta letizia. “Dio, accetto l’augurio”, pensai.
“Ciao”, dissi, come giunsi anelo sul rettangolo di erba illuminata non solo dalla casta diva celeste ma anche dalla luce della finestra che incorniciava Elena. La donna, “sì lieta come bella”[11], aveva un’espressione di contentezza, forse proprio perché mi aveva visto arrivare. Traluceva dagli occhi ridenti la gioia dell’attesa appagata. Elena aveva un’anima più buona e meno contorta della mia. Anche per questo l’amavo.
“Ciao, sono venuto qua di corsa per te”. Ripresi fiato quasi subito, siccome quell’estate correvo sistematicamente, ossia tutti i giorni, anche due volte al giorno, cinquemila metri allo stadio. In meno di diciotto minuti e 30 secondi. Pure atleta a metà. Comunque dovevo essere in forma perfetta per l’amore che mi spettava e aspettava.
Con Elena però non sono rimasti a metà: ho fatto il massimo che si poteva.
Dovevo avere un aspetto quintessenziale, artisticamente stilizzato.
Ci ero vicino. Sentivo che padroneggiavo il mio corpo, lo dirigevo dove e come volevo, quasi senza fatica. Non ero appesantito da carne che non fosse la mia. Avevo voluto una figura priva di ridondanze, effigies ingenii mei, un’immagine del mio carattere che cercavo di scolpire nella roccia del Bene e del Bello.
Fatta una breve pausa, ricominciai: “Scusa, ho dovuto riprendere fiato. Poco fa mi trovavo dall’altra parte del bosco con gente che non mi piaceva, persone poco belle, poco fini, e ho sentito la mancanza, il bisogno della tua nobile semplicità”[12].
Elena riversò su di me la luce scintillante del volto.
Attraverso l’aria serena brillava la luce del suo sorriso armonizzato con lo splendore del cielo.
Disse le parole che speravo: “Anche tu mi sei mancato. Nel pomeriggio ho provato a parlare con altri, ma non ho sentito niente di interessante.
Luoghi comuni, stupide banalità, il rovescio dell’intelligenza. Io mi trovo bene, mi sento a mio agio con te, Gianni. Tu hai qualche cosa di speciale, di geniale, per lo meno di congeniale a me. Ho avuto nostalgia di gente del tuo stampo, insomma di te. Scusa un momento, mi cambio e vengo. Cosa vuoi che mi metta? ”
Le vedevo soltanto una maglia bianca a righe azzurre.
“Vestiti di bianco, tesoro, di bianco e sportiva, se puoi”.
Mi riferivo a un suo vestito senza maniche, di spugna, che le arrivava un palmo sopra le ginocchia rotonde e le stava magnificamente. Era come la proiezione di un aspetto della sua persona morbida, delicata, accogliente. Io, per godermi in pieno l’aria calda della notte dolcissima, e pure, a dirla tutta, per sfoggiare la linea recuperata con fatiche, disciplina e successi davvero olimpici dopo l’ orrido ingrassamento dei cento giorni in caserma, ero uscito in calzoncini succinti e maglietta di cotone, molto attillata. Elena si ritirò dalla finestra. Frattanto levai gli occhi al cielo con gratitudine. Era la prima volta, arrivato a ventisei anni otto mesi e qualche giorno, che una donna di cui ero innamorato mi contraccambiava e forse, probabilmente, sarebbe venuta a letto con me. Quella notte, ero sicuro, l’avrei almeno baciata. Avrei assaporato la sua lingua materna, nutrice e santa.
Avrei poi raggiunto lo scopo finale con un discorso articolato in un preludio pieno di pathos suadente, una parte centrale argomentativa, e un’efficace esortazione persuasiva. Una morbida trama inserita in un ordito molto robusto.
gianni 17 febbraio 2020
[1] Elevnh~ e[nek j hjukovmoio, Esiodo, Opere e Giorni, 165
[2] Avevo in mente lo squillo iniziale del I stasimo dell’Antigone: "polla; ta; deina; koujde; n ajn - qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332 - 333).
[3] Cfr. Pascoli, Paulo Uccello, 16 - 17
[4] Divka de; lavmpei me; n ejn - duskavpnoiς dwvmasin, Agamennone, 773 - 774.,
[5] Cfr. Euripide, Fenicie, 543 - 544.
[6] Euripide, Fenicie, 549
[7] Leggi, 679b - c.
[8] Cfr. Nuovo Testamento, Atti degli Apostoli, 2: Et cum compleretur dies Pentecostes repleti sunt omnes Spiritu Sancto… alii autem irridentes dicebant: “Musto pleni sunt isti”.
[9] Cfr. Shakespeare, Coriolano, V, 3 .
[10] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon gevlasma (vv. 89 - 90) . innumerevole sorriso/delle onde marine .
[11] Dante, Paradiso I, 28
[12] Cfr. la nobile semplicità e la quieta grandezza (edle Einfalt und stille Gröbe) delle statue greche in Pensieri sull’imitazione dell’arte greca di J. Winckelmann.
Il giorno seguente cercai distrazione dalla dolce, materna Sarjantola parlando e giocando con gli amici e i conoscenti che in quel luogo e in quel tempo erano già, e ancora, molti; insomma feci un tentativo di togliere significati speciali a quella donna che era bella, fine e buona quanto si vuole, ma era pure incinta di un altro uomo.
Magari era stata ingravidata da un gonzo tra il sonno e la veglia, in un letto freddo, in un amplesso senza passione né attenzione, pensavo.
Comunque l’immagine di lei, eternamente viva , mi volteggiava sempre davanti e mi assillava.
Non potevo essere più forte di Zeus che ha potere sul cosmo, eppure è schiavo di Afrodite. Del resto la mia intenzione in quella circostanza non era lo scatenato libertinaggio del dio che è stato il primo dongiovanni della storia. Il mio amore era Uranio, figlio di Afrodite Celeste, non quello Pandemio, plebeo siccome figlio di una Venere volgare.
La tenacia del sentimento e del proposito voleva dire che Elena, anche solo se la pensavo, mi insegnava più cose e più importanti di quante ne potevo imparare dal resto dell’ambiente di studio e di eros, dove, in seguito a quattro estati di varie esperienze, avrei potuto passare un quinto mese piacevole con una ragazza gradevole, lieta e disinvolta, come avevo fatto l’anno precedente, o anche vivere un amore mensile allegro con una femmina umana già conosciuta bene o con una carina ancora intentata, una donna che significasse qualcosa, ma non mi obbligasse a pensarla continuamente e spietatamente al pari di Elena, intensa e piena di simboli come un’opera d’arte, e pure problematica da ogni punto di vista.
Non volevo soffrire troppo per Elena dalla bella chioma[1], eppure non riuscivo a staccare il mio pensiero da lei, e ne dedussi che lasciar trascorrere invano quel mese importante, ossia ricco di rapporti con il passato e con il futuro, come lucidamente lo prevedevo, passarlo con una donna qualsiasi, anzi con qualsiasi altra donna, non era destino per me e non mi conveniva; allora dovevo impegnare tutte le mie forze in un rapporto pur faticoso e travagliato con quella perché mi guidasse a conoscere nuovi e reconditi aspetti dell’anima mia.
Non potevo eliminare Elena per non annichilire il mio progressi.
Ci sono difficoltà e ascese impervie che non dobbiamo evitare poiché ci salvano da cadute retrograde in precipizi scoscesi.
Il più delle volte quando rinunciamo a un’impresa possibile, temendo di non averne la forza, di fatto non ne abbiamo la voglia. Ma certe rinunce ad affrontare gli ostacoli pervi o impervi che siano, possono spedirci all’ospizio.
Nel pomeriggio venne a cercarmi Katalin. Mi invitò a una cena in un giardino situato nella zona universitaria. Con noi ci sarebbero stati altri giovani ungheresi; io potevo portare Claudio che piaceva a una sua amica, una montagna di donna con i fianchi enormi cinti di drappi coloriti.
“Un porcone”, la definì impietosamente l’amico, come la vide. Subito dopo però aggiunse: “questa ingrassa campando a lardo e burro, tuttavia grugnisce di voglia anche erotica: potrei levargliela facendo la cosa più degenerata della mia vita”. Parole sconce, prive di carità.
Comunque avremmo arrostito della carne e, probabilmente seduti, o distesi sull’erba del prato ameno, avremmo dato spinta e incentivo alla parte orgiastica dell’incontro bevendo il vino rosso tipico della terra magiara, l’Egribikavér, ossia il “sangue di toro di Eger”.
Dopo cena, siccome il marito di Katalin era andato, per affari suoi, sul lago Balaton, cioè agli antipodi della peraltro piccola terra magiara, io e la bella sposa lasciva avremmo potuto fare l’amore grattandoci piacevolmente a vicenda dovunque la carne ci prudeva e ci spingeva a farlo. Con il consorte di lei non ci sarebbe stata la lotta dei tori che si battono per la giovemca. Tanto meno una zuffa generale tra Italiani e Ungheresi.
Il programma mi lusingava e, per dirla tutta, mi stuzzicava. Il destino mi offriva il destro concreto di sfuggire a un amore pieno di problemi quanto una tragedia greca. “Molte sono le cose inquietanti, e nulla è più inquietante di Elena”, pensai[2].
Katalin non era una cima, ma, te lo rammento lettore, era una vera bellezza. La donna più bella tra quante, del resto non tante, non ho conosciuto del tutto mentre avrei potuto farlo. Libertino a metà. Troppi scrupoli.
Con questo stato d’animo, mi recai al picnic sul prato. Era il tramonto di una sera estiva, “piena di voli”[3] e propizia all’oblio della finlandese pregnante: una di quelle sere di luglio nelle quali si gode la potenza dell’estate matura, scemata ancora di poco rispetto al culmine di giugno, eppure in misura percettibile dalla posizione del sole occidente già retrocesso dal nord, e visibile nei colori meno vivaci; comunque si preannunciava una di quelle notti ancora brevi e calde, dall’aria liscia, calma e odorosa dove è piacevole indugiare a oltranza, anche fino all’aurora dagli occhi lucenti, per non perdere, con sconsolato rimpianto durante il semestre invernale oscurato da lunghe nuvole inquiete, un dono di Dio raro, bello e fugace come la gioventù, come l’amore, come la stessa vita. Garrivano tutt’intorno le rondini, le rane remote del laghetto cantavano alla boscaglia. Le azzurre cetonie ronzavano ancora lampeggiando nell’aria arrossata dagli ultimi raggi. Un vello prpureo guarnito da bioccoli d’oro si stendeva sul cielo dalla parte della puszta. Alle carezze del vento caldo, ondeggiava adagio il mare verde della grande foresta spessa e viva.
Tutto il paesaggio si rallegrava e comunicava letizia. Il 1971 è stato l’anno più bello del secolo per quanto riguarda i rapporti tra gli umani educati bene, l’acme della solidarietà, dell’uguaglianza, dell’amicizia, dell’amore.
Poi è iniziato il regresso verso la diffidenza e l’egoismo. E’ intervenuto il potere, pauroso di perdere colpi. Infatti ha colpito duramente per tutti gli anni Settanta e anche dopo. Doveva ribadire se stesso: spaventare gli uomini, spingerli a diffidare a odiarsi a vicenda per sottometterli e venire amato lui solo.
Si respirava con gioia la dolce e piena tranquillità della bella stagione suscitata dall’aurea Afrodite che ama il sorriso. Quanto a fare l’amore con Katalin, avrei deciso più tardi. Avevo intenzione di mangiare e bere non troppo, studiando la situazione, e considerando bene se mi conveniva, e piaceva davvero lasciare cadere il sentimento forte, inquietante appunto, e molto difficile da concretizzare, per l’artistica, pierfrancescana donna del parto, in cambio di un’orgia non dionisiaca, né apollinea, insomma non santa, con una ragazza tanto giovane e bella, quanto disordinata, stonata e confusa. Veramente la sera prima avevo promesso a Elena che sarei andato a cercarla, ma questo, casomai, potevo farlo più tardi, anche molto più tardi. Erano appena le otto. “C’è tempo per mangiare, bere, osservare e decidere”, pensai. “Tutto il tempo”.
Ma quando ebbi assaggiato un poco di carne arrostita e bevuto un bicchiere di sangue di toro, sentivo angoscia per quanto dicevano quei giovani consumisti magiari, seriamente occupati a parlare di vestiti, di motori, di scarpe. Lo facevano in modo tale da offendere la mia sensibilità estetica ed etica, mentre il fumo della carne arrostita dal cupo fulgore del fuoco contaminava la dolce aria notturna con volute dense e acri che prendevano a schiaffi il cielo e nascondevano tutte le stelle. “Eschilo sostiene che Giustizia brilla nelle case dal povero fumo[4]”
pensai, “ma questo, prima che povero è un fumo brutto e irritante”.
Gli uccelli più delicati cadevano uccisi dal vapore infuocato e finivano arrostiti anche loro.
Lì, nonostante la bellezza di Katalin, non c’era cosmo, ma guazzabuglio e caotica stupidità. La quintessenza dell’insignificanza era seduta in quel prato di ottenebrati dall’ignoranza. Si ingozzavano con appetito disonesto denaturando la natura. Tendevano i colli e le mani cupide freneticamente verso il cibo e le bevande. Alcuni soffiavano pure con bocca sconvolta, come dragoni affamati.
Facevano singhiozzare le tortore della grande foresta.
Non c’era verso di scambiarci delle idèe.
A un tratto mi alzai per allontanarmi da quei giovani, segno oltretutto del fallimento educativo di un regime che volevo credere molto migliore del nostro. Io ho sempre auspicato una società di donne e uomini uguali, dove non ci siano odiose sperequazioni. Una comunità di persone buone e contente. L’uguaglianza è legge di natura, è legge cosmica cui si sottopone perfino la luce: " l'oscura palpebra della notte e la luce del sole infallibile, percorrono uguale il ciclo annuo”, dice Giocasta al figlio prepotente[5]
che ha fatto l’elogio della tirannide, “un’ingiustizia fortunata”[6] secondo la madre.
“Questi non sono comunisti aristocratici ma consumisti plebei.
Se il comunismo non è capace di educare i giovani, non potrà durare a lungo. La storia, anzi la cronaca per ora ha dato torto a questo regime, ma io non do ragione alla cronaca e ce la metterò tutta per educare quanti mi ascolteranno, all’onestà, alla giustizia e all’eguaglianza senza la quale non possono esserci né libertà né giustizia”.
Mi venne in mente Platone: “nella società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere nobilissimi: infatti né la violenza, né l’ingiustizia, né gelosie né invidie possono nascervi”[7].
Uno di quei poveretti mi domandò quanti cavalli avesse la mia “bella macchina nera”. Non lo sapevo, proprio non lo sapevo, e non mi interessava saperlo. Contro la volgarità e la stoltezza, l’unico argomento è il silenzio. Grazie alla coscienza che stavo prendendo dalla finnica mia, la rozzezza mi appariva più rozza, la stoltezza più stolta.
Pensai del resto che i poveri saranno sempre fregati finché ammireranno e cercheranno di scimmiottare i reputati ricchi.
La pubblicità gioca su questa misera mimèsi imposta miserabili.
Di bere altro vino, pur buono, in mezzo a quella greggia stremata, di fare l’amore con Katalin, pur bella e disponibile assai, in quanto la poveretta, errando, vedeva in me un giovin signore dell’agognato mondo capitalistico, non mi andava. Il desiderio mio unico e fisso era lei: Elena.
“C’è un mondo diverso, altrove”, mi dissi.
Ero pieno dello spirito santo di quella donna rimasta in collegio, anche se alcuni presenti vedendomi tanto distratto potevano pensare che fossi pieno di vino come l’amico Danilo. Invece si stava compiendo il giorno della mia Pentecoste[8]
Lo spirito santo di Elena era sceso nell’anima mia.
Sentivo con dolore la mancanza e l’atroce bisogno di quella mirabile donna finlandese, delle parole, dello stile, dell’aspetto di lei. Mi scusai con Katalin, poco cortesemente, anzi un poco crudelmente, ma del tutto sinceramente: non potevo rimanere, poiché mi mancava una persona che a sua volta aveva bisogno di me. Parlavo senza imbarazzo, siccome dicevo parole sentite profondamente. “Senti Katalin - dissi con aria compunta - tu sei splendida, debreceni Venus vagy, la Venere di Debrecen sei, e probabilmente un giorno rimpiangerò di non avere fatto l’amore con te. Adesso però sono innamorato di un’altra e devo, e voglio andare da lei. Sono in preda al delirio amoroso: non posso fare diversamente”. Ci rimase male parecchio, ma non cercò di trattenermi. Balbettò alcune parole insignificanti, che non ricordo. La memoria è un affresco scrostato delle parti meno belle. O di quelle migliori, secondo il carattere.
Gli altri crapuloni, sparsi sul prato del fumo che oscurava le stelle, nemmeno si accorsero che me ne andavo, sicchè io, alzata appena la mano per un saluto collettivo e generico, mi lanciai di corsa verso la radura del laghetto illuminato dalla luna scoperta.
Non avevo scordato la mia parte, come succede a un attore stupido[9] Soffrivo la mancanza di una relazione amorosa profonda, mi sentivo come viene descritto Eros, figlio di Penia, la Povertà, nel Simposio di Platone: un mendicante dell’amore e della bellezza.
Passai, sempre di corsa, sopra il ponticello di legno che risuonò non cupamente al battito svelto dei miei agili piedi, attraversai d’impeto il piazzale con la fontana dagli zampilli “variopinti, come la mia vita”, pensai, vedendo l’acqua che saltava policroma per i raggi che la vestivano a festa.
La luce che mi sentivo dentro però veniva da Elena.
In poco tempo arrivai sul prato antistante il collegio dove la mia compagna, speravo, mi stava aspettando. Se non era già andata via. Speravo, temevo, pregavo.
“La terra è in mezzo alle stelle che danzano gioiosamente guidate da Dio, e sulla terra, qui a Debrecen, ci sei tu, e forse mi pensi, e mi aspetti, e sei innamorata di me”.
Infatti, infatti Elena c’era: era stata provvida la rinuncia a ubriacarmi di vino, a digrignare i denti e ingozzare tanta carne degli spiedini di porco, ottima l’abnegazione dimostrata nel non rimanere a lisciare, a sfregare, la carne ben tornita di Katalin, anche se il premio doveva rimanere soltanto quello: avere visto Elena che mi aspettava in camera sua affacciata alla finestra aperta sul prato umido di rugiada che luccicava di luna. Innumerevole sorriso dei roridi steli[10].
Vedere la sua figura nobile mi riempì di alta letizia. “Dio, accetto l’augurio”, pensai.
“Ciao”, dissi, come giunsi anelo sul rettangolo di erba illuminata non solo dalla casta diva celeste ma anche dalla luce della finestra che incorniciava Elena. La donna, “sì lieta come bella”[11], aveva un’espressione di contentezza, forse proprio perché mi aveva visto arrivare. Traluceva dagli occhi ridenti la gioia dell’attesa appagata. Elena aveva un’anima più buona e meno contorta della mia. Anche per questo l’amavo.
“Ciao, sono venuto qua di corsa per te”. Ripresi fiato quasi subito, siccome quell’estate correvo sistematicamente, ossia tutti i giorni, anche due volte al giorno, cinquemila metri allo stadio. In meno di diciotto minuti e 30 secondi. Pure atleta a metà. Comunque dovevo essere in forma perfetta per l’amore che mi spettava e aspettava.
Con Elena però non sono rimasti a metà: ho fatto il massimo che si poteva.
Dovevo avere un aspetto quintessenziale, artisticamente stilizzato.
Ci ero vicino. Sentivo che padroneggiavo il mio corpo, lo dirigevo dove e come volevo, quasi senza fatica. Non ero appesantito da carne che non fosse la mia. Avevo voluto una figura priva di ridondanze, effigies ingenii mei, un’immagine del mio carattere che cercavo di scolpire nella roccia del Bene e del Bello.
Fatta una breve pausa, ricominciai: “Scusa, ho dovuto riprendere fiato. Poco fa mi trovavo dall’altra parte del bosco con gente che non mi piaceva, persone poco belle, poco fini, e ho sentito la mancanza, il bisogno della tua nobile semplicità”[12].
Elena riversò su di me la luce scintillante del volto.
Attraverso l’aria serena brillava la luce del suo sorriso armonizzato con lo splendore del cielo.
Disse le parole che speravo: “Anche tu mi sei mancato. Nel pomeriggio ho provato a parlare con altri, ma non ho sentito niente di interessante.
Luoghi comuni, stupide banalità, il rovescio dell’intelligenza. Io mi trovo bene, mi sento a mio agio con te, Gianni. Tu hai qualche cosa di speciale, di geniale, per lo meno di congeniale a me. Ho avuto nostalgia di gente del tuo stampo, insomma di te. Scusa un momento, mi cambio e vengo. Cosa vuoi che mi metta? ”
Le vedevo soltanto una maglia bianca a righe azzurre.
“Vestiti di bianco, tesoro, di bianco e sportiva, se puoi”.
Mi riferivo a un suo vestito senza maniche, di spugna, che le arrivava un palmo sopra le ginocchia rotonde e le stava magnificamente. Era come la proiezione di un aspetto della sua persona morbida, delicata, accogliente. Io, per godermi in pieno l’aria calda della notte dolcissima, e pure, a dirla tutta, per sfoggiare la linea recuperata con fatiche, disciplina e successi davvero olimpici dopo l’ orrido ingrassamento dei cento giorni in caserma, ero uscito in calzoncini succinti e maglietta di cotone, molto attillata. Elena si ritirò dalla finestra. Frattanto levai gli occhi al cielo con gratitudine. Era la prima volta, arrivato a ventisei anni otto mesi e qualche giorno, che una donna di cui ero innamorato mi contraccambiava e forse, probabilmente, sarebbe venuta a letto con me. Quella notte, ero sicuro, l’avrei almeno baciata. Avrei assaporato la sua lingua materna, nutrice e santa.
Avrei poi raggiunto lo scopo finale con un discorso articolato in un preludio pieno di pathos suadente, una parte centrale argomentativa, e un’efficace esortazione persuasiva. Una morbida trama inserita in un ordito molto robusto.
gianni 17 febbraio 2020
[1] Elevnh~ e[nek j hjukovmoio, Esiodo, Opere e Giorni, 165
[2] Avevo in mente lo squillo iniziale del I stasimo dell’Antigone: "polla; ta; deina; koujde; n ajn - qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332 - 333).
[3] Cfr. Pascoli, Paulo Uccello, 16 - 17
[4] Divka de; lavmpei me; n ejn - duskavpnoiς dwvmasin, Agamennone, 773 - 774.,
[5] Cfr. Euripide, Fenicie, 543 - 544.
[6] Euripide, Fenicie, 549
[7] Leggi, 679b - c.
[8] Cfr. Nuovo Testamento, Atti degli Apostoli, 2: Et cum compleretur dies Pentecostes repleti sunt omnes Spiritu Sancto… alii autem irridentes dicebant: “Musto pleni sunt isti”.
[9] Cfr. Shakespeare, Coriolano, V, 3 .
[10] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon gevlasma (vv. 89 - 90) . innumerevole sorriso/delle onde marine .
[11] Dante, Paradiso I, 28
[12] Cfr. la nobile semplicità e la quieta grandezza (edle Einfalt und stille Gröbe) delle statue greche in Pensieri sull’imitazione dell’arte greca di J. Winckelmann.
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