NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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lunedì 17 febbraio 2020

Le Argonautiche di Apollonio Rodio. VII. Primo canto delle "Argonautiche"


Frisso ed Elle in un affresco pompeiano
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Alcimede la madre ansiosa di Giasone si rammarica che Frisso non sia morto con Elle e non sia sparito nei flutti con il montone. Invece il il mostro cattivo emise una voce umana.
Un acuto dolore (263) prendeva ogni donna e pure Esone tenuto a letto dalla vecchiaia gemeva.
La madre piangeva come una fanciulla che conduce una vita penosa sotto la matrigna la quale la rimprovera e abbraccia la nutrice
Alcimede continua a deprecare la fuga di Frisso.

Frisso ed Elle erano figli di Atamante e Nefele. Ino, figlia di Cadmo e successiva moglie di Atamante, vuole uccidere i due fanciulli i quali però fuggono sul’’ariete dal vello d’oro. Elle precipita in mare, mentre Frisso arriva da Eeta e sposa Calciope, sorella di Medea e generano Argo. Il montone viene sacrificato e il vello appeso a una quercia nel bosco sacro ad Ares
Atamante ebbe altri due figli da Ino: Learco e Melicerte.
Ino suscitò l’odio di Era poiché aveva allevato Dioniso, figlio di sua sorella Semele e di Zeus. La gelosissima consorte del re degli dèi spinse Atamante[16] a uccidere il figlio Learco, e Ino a gettarsi nel mare, con l’altro figlio Melicerte in braccio. Quindi la donna venne trasformata in una Nereide dal nome di Leucotea (cfr. Odissea, V, 333- 335) mentre il bambino divenne il piccolo dio Palemone. Dante ricorda questa versione del mito deducendola dalle Metamorfosi di Ovidio ( IV, 512- 542): “Nel tempo che Iunone era crucciata/per Semelè contra ‘l sangue tebano,/come mostrò una e altra[17] fiata,/Atamante divenne tanto insano,/che veggendo la moglie con due figli/andar carcata da ciascuna mano,/gridò: “Tendiam le reti, sì ch’io pigli/la leonessa e’ leoncini al varco”; /e poi distese i dispietati artigli,/prendendo l’un ch’avea nome Learco,/e rotollo e percosselo ad un sasso;/e quella s’annegò con l’altro carco”. (Inferno, 30, 1- 12). Una pazzia simile a quella di Agave nelle Baccanti di Euripide.

Giasone stesso non comprende il senso dell’impresa e dice alla madre che le lacrime non servono a tenere il male lontano. Le chiede di non andare a salutare le navi: sarebbe un , un augurio funesto.
Giasone viene poi paragonato ad Apollo.
Apollonio sceglie la sfera olimpica
Vengono ricordati i luoghi sacri ad Apollo: Delo, Claro, Pito. E’ un topos della poesia classica. A Delo Apollo nacque e cambiò nome all’isola: da Ortigia (la quaglia) a Delo (la chiara).
 Si levò un grido enorme.
Poi c’è uno dei tanti atti mancati: una vecchia sacerdotessa di Artemide, non può avvicinare Giasone per la folla (cfr. il mancato incontro con Eracle in Libia).
Arriva anche Acasto, figlio di Pelia, contro il volere del padre (323)
Giasone tiene un discorso ai compagni. Chiede loro di scegliere un capo indicando il carattere collettivo dell’impresa. Tutti indicarono Eracle. Ma l’eroe declina l’invito indicando Giasone. Giasone si alzò contento e accettò. Nel parlare Eracle è autoritario (non si alza), Giasone diplomatico: è l’opposizione tra eroismo arcaico e diplomazia oratoria.
Giasone propone un sacrificio ad Apollo e una cena
Prima però viene messa in mare e ancorata la nave. Tifi venne scelto come Pilota (cfr. Monti)
Vincenzo Monti Ode al signore di Montolfier del 1784
Quando Giason dal Pelio/spinse nel mar gli abeti,/e primo corse a fendere/co’ remi il seno a Teti;//su l’alta poppa intrepido/col fior del sangue acheo/vide la Grecia ascendere il giovinetto Orfeo.//Stendea le dita eburnee/su la materna lira;/e al tracio suon chetavasi/de’venti il fischio e l’ira.//Meravigliando accorsero/di Doride le figlie[18],/Nettuno ai verdi alipedi/lasciò cader le briglie.//Cantava il vate odrisio[19]/d’Argo la gloria intanto/e dolce errar sentivasi/su l’alme greche il canto”[20].
Monti vorrebbe avere la cetra e le capacità poetiche di Orfeo per celebrare il “ della Senna…novello Tifi invitto” (vv. 21- 22), ossia lo stesso Montgolfier: “Deh! perché al nostro secolo/non diè propizio il fato/d’un altro Orfeo la cetera/se Montgolfier n’ha dato?” (vv. 29- 32)
Non da tutti è celebrata e ben vista l’impresa degli Argonauti
Seneca contrappone l'età preargonautica a quella successiva a Tifi, il pilota della nave Argo: "Ausus Tiphis/pandere vasto carbǎsa ponto/legesque novas scribere ventis" (Medea, vv. 317- 319), Tifi osò distendere le vele sul vasto mare e dettare leggi nuove ai venti
L' di Tifi è simile a quella di Serse che cercò di unificare i mondi ben separati dell'Asia e dell'Europa gettando un giogo sull'Ellesponto e tentando di sottomettere la Grecia

Seneca attraverso questo secondo coro della Medea maledice la navigazione come attività troppo audace per l'uomo:" Audax nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque suas post terga videns/animam levibus credidit auris… " (vv. 301- 304), Audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e vedendo alle spalle la sua terra affidò la vita ai venti incostanti. Il primo a violare il mare è stato Giasone la cui audacia e perfidia ha trovato degni antagonisti nei freta perfida.
Il terzo coro, con l’ultima strofe saffica, consiglia "vade, qua tutum populo priori;/rumpe nec sacro, violente, sancta/foedera mundi! " ( Medea, vv. 605- 606), procedi per dove il cammino è stato sicuro alla gente di prima; e non spezzare con violenza le sacrosante regole del mondo.
Quindi i coreuti Corinzi procedono con questo avvertimento:"Quisquis audacis tetigit carinae/nobiles remos nemorisque sacri/Pelion densa spoliavit umbra,/ quisquis intravit scopulos vagantes/et tot emensus pelagi labores/barbara funem religavit ora/raptor externi rediturus auri,/exitu diro temerata ponti/iura piavit./Exigit poenas mare provocatum " ( Medea, vv. 607- 616), tutti quelli che toccarono i remi famosi della nave audace, e spogliarono il Pelio dell'ombra densa della foresta sacra[21]; chiunque passò tra gli scogli vaganti e, attraversati tanti travagli del mare, gettò l'ancora su una barbara spiaggia, per tornare impossessatosi dell'oro straniero, con morte orribile espiò le violate leggi del mare. Fa pagare il fio il mare provocato.

Giasone prega Apollo ricordandogli tu stesso sei (414), causa delle fatiche. A Pito l’oracolo gli aveva promesso la guida e il successo del viaggio.
 La fiamma del sacrificio splende e l’indovino Idmone ne trae un augurio propizio. L’impresa avrà successo ma costerà infinite prove e fatiche infinite ( , 441, cfr. Odissea I). Idmone sa che dovrà morire ma parte lo stesso. Il banchetto degli altri è lieto, ma Giasone era cupo nel volto ed era (460).
Quindi Ida lo rimprovera, non senza bestemmiare come aveva fatto l’Aiace di Sofocle (Aiace, vv. 768- 769). Dice che fino a quando ci sarà Ida tutto andrà a buon fine, anche se un dio si oppone. A me neanche Zeus giova quanto la lancia (468)

Di questo bestemmiatore parla anche Pindaro nella Nemea X, la grande ode di Castore e Polluce. Ida trafisse Castore, adirato per i buoi rubati dai Dioscuri. Il fratello di Ida, Linceo, dal Taigeto aveva visto i Dioscuri nascosti nel cavo di una quercia. Aveva l’occhio più acuto tra i mortali. Castore morì, e Polluce ammazzò Linceo. Ida venne folgorato da Zeus.”E bruciarono nella solitudine” (v. 73). E’ dura l’eris con i più forti.
Polluce cedette parte della propria immortalità a Castore redento da alterna morte.

Anche Teocrito (XXII, 210- 211) ricorda la morte di Ida. Il contempor divom finisce come Capaneo.
L’idillio XXII canta i Dioscuri: Polluce celebrato come pugilatore, Castore come guerriero. Qui Amico non muore come in Apollonio ma con il rispetto dovuto all’avversario. I due figli di Leda salvano gli uomini sul crinale della morte, in guerra o nella navigazione. Sollevano le navi dall’abisso con i naviganti che già si aspettavano la morte. Sono (23) cavalieri, citaristi, atleti, aedi.
La nave Argo giunse presso i Bebrici appena sfuggiti alle rocce cozzanti
Uscirono dalla giasonia nave anche Castore e Polluce (34) epiteto di Dioniso in Edipo re (v. . 211). Andarono a una fonte. I ciottoli del fondo scintillavano come cristallo d’argento e c’erano pioppi, platani, cipressi chiomati e fiori odorosi, lavoro gradito per le api vellutate.
Là c’era un uomo immane, , tremendo alla vista, con le orecchie spezzate dai pugni, il petto gigantesco, petto e dorso turgidi di carne ferrigna (cfr. D’Annunzio: in ogni muscolo gli fremeva una vita inimitabile) come un colosso battuto col martello (potrebbe essere l’ della statua del Pugilista di Apollonio Nestorio del I secolo ma che forse risale a un originale del III secolo. Si trova nel Museo delle Terme di Roma).
I muscoli si levavano come pietre tondeggianti levigate da un fiume vorticoso. Aveva sul dorso una pelle leonina
Sfida Polluce. Arrivano Bebrici e Argonauti come spettatori. Si attrezzarono con le strisce di cuoio spirando reciproca morte (82)
Il Bebrico era simile a Tizio che in Od. XI 577 è steso per nove plettri (29, 57 metri ciascuno) per avere tentato di violentare Latona.
Ma Polluce lo colpisce più volte fino a renderlo ubriaco di colpi.
Polluce lo confondeva con finte e infine gli sferrò un pugno al di sopra del naso e gli lacerò la fronte. Amico cadde ma si rialzò e Polluce gli sfigurava il volto.
Il suo corpo diventava minuto per il sudore, mentre Polluce si rinvigoriva e assumeva un colorito migliore.

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[16] “Atamante era re di Orcomeno in Beozia. Le sue fosche vicende familiari furono un soggetto prediletto dai tragici. Eschilo compose un Atamante (frr. 1- 4 a Radt) di cui non si sa in pratica nulla; Euripide un Frisso (frr. 819- 838 Nauck- Snell) e una Ino…Sofocle scrisse due tragedie intitolate Atamante (frr. 1- 10 Radt) e un Frisso (frr. 721- 723 a Radt)”. G. Guidorizzi (a cura di), Igino, Miti, p. 184.

[17] Aveva provocato l’incenerimento di Semele.
[18] Le Nereidi.
[19] Tracio.
[20] Ode Al signor di Montgolfier (vv. 1- 20), del 1784, in quartine di settenari.
[21] Si noti l’oltraggio all’ambiente. Anche nella Tebaide di Stazio la terra soffre il disboscamento dovuto alla costruzione di una pila colossale per il piccolo Ofelte: “ dat gemitum tellus”(VI, 107), ne piange la terra. Pale, dea dei campi e Silvano signore dell’ombra della foresta (arbiter umbrae, v. 111) abbandonano piangendo i cari luoghi del loro riposo (linquunt flentes dilecta locorum/otia, vv. 110- 111), mentre le Ninfe abbracciate ai tronchi degli alberi e non vogliono lasciarli: “nec amplexae dimittunt robora Nymphae” (v. 113).
Nell’Achilleide Stazio ricorda che la costruzione della flotta necessaria alla guerra contro Troia spogliò delle loro ombre i monti e li rimpicciolì: “Nusquam umbrae veteres: minor Othrys et ardua sidunt/ Taygeta, exuti viderunt aëra montes./Iam natat omne nemus” (I, 426- 428), in nessun luogo le antiche ombre: è più piccolo l’Otris e si abbassa l’erto Taigeto, e i monti spogliati videro l’aria. Oramai ogni monte galleggia.
L’Otris è una catena montuosa della Tessaglia; il Taigeto, si sa, è la montagna che sovrasta Sparta. Chi scrive l’ha scalata da Kalamata alla cima (km 33, 12) in bicicletta in 2 ore, 14 minuti e 27 secondi, alla media di 14, 7 Km all’ora. All’età di 62 anni e 8 mesi.



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