Frisso ed Elle in un affresco pompeiano |
Alcimede la
madre ansiosa di Giasone si rammarica che Frisso non sia morto con Elle e non
sia sparito nei flutti con il montone. Invece il il mostro cattivo emise una
voce umana.
Un acuto
dolore (263) prendeva ogni donna e pure Esone tenuto a letto dalla vecchiaia
gemeva.
La madre
piangeva come una fanciulla che conduce una vita penosa sotto la matrigna la
quale la rimprovera e abbraccia la nutrice
Alcimede
continua a deprecare la fuga di Frisso.
Frisso ed Elle erano figli di Atamante e Nefele. Ino, figlia di Cadmo e successiva moglie
di Atamante, vuole uccidere i due fanciulli i quali però fuggono sul’’ariete
dal vello d’oro. Elle precipita in mare, mentre Frisso arriva da Eeta e sposa
Calciope, sorella di Medea e generano Argo. Il montone viene sacrificato e il
vello appeso a una quercia nel bosco sacro ad Ares
Atamante ebbe
altri due figli da Ino: Learco e Melicerte.
Ino suscitò
l’odio di Era poiché aveva allevato Dioniso, figlio di sua sorella Semele e di
Zeus. La gelosissima consorte del re degli dèi spinse Atamante[16] a uccidere il figlio Learco, e Ino
a gettarsi nel mare, con l’altro figlio Melicerte in braccio. Quindi la donna
venne trasformata in una Nereide dal nome di Leucotea (cfr. Odissea,
V, 333- 335) mentre il bambino divenne il piccolo dio Palemone. Dante ricorda
questa versione del mito deducendola dalle Metamorfosi di
Ovidio ( IV, 512- 542): “Nel tempo che Iunone era crucciata/per Semelè contra
‘l sangue tebano,/come mostrò una e altra[17] fiata,/Atamante divenne tanto
insano,/che veggendo la moglie con due figli/andar carcata da ciascuna
mano,/gridò: “Tendiam le reti, sì ch’io pigli/la leonessa e’ leoncini al
varco”; /e poi distese i dispietati artigli,/prendendo l’un ch’avea nome
Learco,/e rotollo e percosselo ad un sasso;/e quella s’annegò con l’altro
carco”. (Inferno, 30, 1- 12). Una pazzia simile a quella di Agave
nelle Baccanti di Euripide.
Giasone
stesso non comprende il senso dell’impresa e dice alla madre che le lacrime non
servono a tenere il male lontano. Le chiede di non andare a salutare le navi:
sarebbe un , un augurio funesto.
Giasone
viene poi paragonato ad Apollo.
Apollonio
sceglie la sfera olimpica
Vengono
ricordati i luoghi sacri ad Apollo: Delo, Claro, Pito. E’ un topos della poesia
classica. A Delo Apollo nacque e cambiò nome all’isola: da Ortigia (la quaglia)
a Delo (la chiara).
Si
levò un grido enorme.
Poi c’è uno
dei tanti atti mancati: una vecchia sacerdotessa di Artemide, non può
avvicinare Giasone per la folla (cfr. il mancato incontro con Eracle in Libia).
Arriva anche
Acasto, figlio di Pelia, contro il volere del padre (323)
Giasone
tiene un discorso ai compagni. Chiede loro di scegliere un capo indicando il
carattere collettivo dell’impresa. Tutti indicarono Eracle. Ma l’eroe declina
l’invito indicando Giasone. Giasone si alzò contento e accettò. Nel parlare
Eracle è autoritario (non si alza), Giasone diplomatico: è l’opposizione tra
eroismo arcaico e diplomazia oratoria.
Giasone
propone un sacrificio ad Apollo e una cena
Prima però
viene messa in mare e ancorata la nave. Tifi venne scelto come Pilota (cfr.
Monti)
Vincenzo
Monti Ode al signore di Montolfier del 1784
Quando
Giason dal Pelio/spinse nel mar gli abeti,/e primo corse a fendere/co’ remi il
seno a Teti;//su l’alta poppa intrepido/col fior del sangue acheo/vide la
Grecia ascendere il giovinetto Orfeo.//Stendea le dita eburnee/su la materna
lira;/e al tracio suon chetavasi/de’venti il fischio e l’ira.//Meravigliando
accorsero/di Doride le figlie[18],/Nettuno ai verdi alipedi/lasciò cader
le briglie.//Cantava il vate odrisio[19]/d’Argo la gloria intanto/e dolce errar
sentivasi/su l’alme greche il canto”[20].
Monti
vorrebbe avere la cetra e le capacità poetiche di Orfeo per celebrare il “
della Senna…novello Tifi invitto” (vv. 21- 22), ossia lo stesso Montgolfier:
“Deh! perché al nostro secolo/non diè propizio il fato/d’un altro Orfeo la cetera/se
Montgolfier n’ha dato?” (vv. 29- 32)
Non da tutti
è celebrata e ben vista l’impresa degli Argonauti
Seneca contrappone
l'età preargonautica a quella successiva a Tifi, il pilota della nave
Argo: "Ausus Tiphis/pandere vasto carbǎsa ponto/legesque novas scribere
ventis" (Medea, vv. 317- 319), Tifi osò distendere le vele sul
vasto mare e dettare leggi nuove ai venti
L' di Tifi è simile a quella di Serse che cercò di unificare i mondi ben
separati dell'Asia e dell'Europa gettando un giogo sull'Ellesponto e tentando
di sottomettere la Grecia
Seneca
attraverso questo secondo coro della Medea maledice la navigazione come attività troppo audace per
l'uomo:" Audax nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida
rupit/terrasque suas post terga videns/animam levibus credidit auris… "
(vv. 301- 304), Audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i
perfidi flutti e vedendo alle spalle la sua terra affidò la vita ai venti
incostanti. Il primo a violare il mare è stato Giasone la cui audacia e perfidia
ha trovato degni antagonisti nei freta perfida.
Il terzo coro, con
l’ultima strofe saffica, consiglia "vade, qua tutum populo priori;/rumpe nec sacro, violente, sancta/foedera
mundi! " ( Medea, vv. 605- 606),
procedi per dove il cammino è stato sicuro alla gente di prima; e non spezzare
con violenza le sacrosante regole del mondo.
Quindi i coreuti Corinzi procedono con questo avvertimento:"Quisquis
audacis tetigit carinae/nobiles remos nemorisque sacri/Pelion densa spoliavit
umbra,/ quisquis intravit scopulos vagantes/et tot emensus pelagi
labores/barbara funem religavit ora/raptor externi rediturus auri,/exitu diro
temerata ponti/iura piavit./Exigit poenas mare provocatum "
( Medea, vv. 607- 616), tutti quelli che toccarono i remi famosi
della nave audace, e spogliarono il Pelio dell'ombra densa della foresta sacra[21]; chiunque passò tra gli scogli vaganti
e, attraversati tanti travagli del mare, gettò l'ancora su una barbara
spiaggia, per tornare impossessatosi dell'oro straniero, con morte orribile
espiò le violate leggi del mare. Fa pagare il fio il mare provocato.
Giasone
prega Apollo ricordandogli tu stesso sei (414), causa delle fatiche. A Pito l’oracolo
gli aveva promesso la guida e il successo del viaggio.
La fiamma del sacrificio splende e l’indovino
Idmone ne trae un augurio propizio. L’impresa avrà successo ma costerà infinite
prove e fatiche infinite ( , 441, cfr. Odissea I). Idmone sa che dovrà morire ma
parte lo stesso. Il banchetto degli altri è lieto, ma Giasone era cupo nel
volto ed era (460).
Quindi Ida
lo rimprovera, non senza bestemmiare come aveva fatto l’Aiace di Sofocle (Aiace,
vv. 768- 769). Dice che fino a quando ci sarà Ida tutto andrà a buon fine,
anche se un dio si oppone. A me neanche Zeus giova quanto la lancia (468)
Di questo bestemmiatore parla anche Pindaro nella Nemea X, la grande ode di Castore e Polluce. Ida trafisse Castore, adirato per i buoi rubati dai Dioscuri. Il fratello di Ida, Linceo, dal Taigeto aveva visto i Dioscuri nascosti nel cavo di una quercia. Aveva l’occhio più acuto tra i mortali. Castore morì, e Polluce ammazzò Linceo. Ida venne folgorato da Zeus.”E bruciarono nella solitudine” (v. 73). E’ dura l’eris con i più forti.
Polluce cedette parte della propria immortalità a Castore redento da
alterna morte.
Anche Teocrito (XXII, 210- 211) ricorda la morte di Ida. Il contempor divom finisce come Capaneo.
L’idillio
XXII canta i Dioscuri: Polluce celebrato come pugilatore, Castore come
guerriero. Qui Amico non muore come in Apollonio ma con il rispetto dovuto
all’avversario. I due figli di Leda salvano gli uomini sul crinale della morte,
in guerra o nella navigazione. Sollevano le navi dall’abisso con i naviganti
che già si aspettavano la morte. Sono (23) cavalieri, citaristi, atleti, aedi.
La nave Argo
giunse presso i Bebrici appena sfuggiti alle rocce cozzanti
Uscirono
dalla giasonia nave anche Castore e Polluce (34) epiteto di Dioniso in Edipo
re (v. . 211). Andarono a una fonte. I ciottoli del fondo
scintillavano come cristallo d’argento e c’erano pioppi, platani, cipressi
chiomati e fiori odorosi, lavoro gradito per le api vellutate.
Là c’era un
uomo immane, , tremendo alla vista, con le orecchie spezzate dai pugni, il
petto gigantesco, petto e dorso turgidi di carne ferrigna (cfr. D’Annunzio: in
ogni muscolo gli fremeva una vita inimitabile) come un colosso battuto col
martello (potrebbe essere l’ della statua del Pugilista di Apollonio Nestorio del I secolo ma che forse
risale a un originale del III secolo. Si trova nel Museo delle Terme di Roma).
I muscoli si
levavano come pietre tondeggianti levigate da un fiume vorticoso. Aveva sul
dorso una pelle leonina
Sfida
Polluce. Arrivano Bebrici e Argonauti come spettatori. Si attrezzarono con le
strisce di cuoio spirando reciproca morte (82)
Il Bebrico
era simile a Tizio che in Od. XI 577 è steso per nove plettri
(29, 57 metri ciascuno) per avere tentato di violentare Latona.
Ma Polluce
lo colpisce più volte fino a renderlo ubriaco di colpi.
Polluce lo
confondeva con finte e infine gli sferrò un pugno al di sopra del naso e gli
lacerò la fronte. Amico cadde ma si rialzò e Polluce gli sfigurava il volto.
Il suo corpo
diventava minuto per il sudore, mentre Polluce si rinvigoriva e assumeva un
colorito migliore.
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[16] “Atamante
era re di Orcomeno in Beozia. Le sue fosche vicende familiari furono un
soggetto prediletto dai tragici. Eschilo compose un Atamante (frr.
1- 4 a Radt) di cui non si sa in pratica nulla; Euripide un Frisso (frr.
819- 838 Nauck- Snell) e una Ino…Sofocle scrisse due tragedie
intitolate Atamante (frr. 1- 10 Radt) e un Frisso (frr. 721- 723
a Radt)”. G. Guidorizzi (a cura di), Igino, Miti, p. 184.
[21] Si noti l’oltraggio
all’ambiente. Anche nella Tebaide di Stazio la
terra soffre il disboscamento dovuto alla costruzione di una pila colossale per
il piccolo Ofelte: “ dat gemitum tellus”(VI, 107), ne
piange la terra. Pale, dea dei campi e Silvano signore dell’ombra della foresta
(arbiter umbrae, v. 111) abbandonano piangendo i cari luoghi del loro
riposo (linquunt flentes dilecta locorum/otia, vv. 110- 111),
mentre le Ninfe abbracciate ai tronchi degli alberi e non vogliono lasciarli: “nec
amplexae dimittunt robora Nymphae” (v. 113).
Nell’Achilleide Stazio ricorda che la costruzione della flotta
necessaria alla guerra contro Troia spogliò delle loro ombre i monti e li
rimpicciolì: “Nusquam umbrae veteres: minor Othrys et ardua sidunt/ Taygeta,
exuti viderunt aëra montes./Iam
natat omne nemus” (I, 426- 428), in nessun luogo le antiche ombre: è
più piccolo l’Otris e si abbassa l’erto Taigeto, e i monti spogliati videro
l’aria. Oramai ogni monte galleggia.
L’Otris è una catena montuosa della Tessaglia; il Taigeto, si sa, è la
montagna che sovrasta Sparta. Chi scrive l’ha scalata da Kalamata alla cima (km
33, 12) in bicicletta in 2 ore, 14 minuti e 27 secondi, alla media di 14, 7 Km
all’ora. All’età di 62 anni e 8 mesi.
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