giovedì 11 aprile 2024

Ifigenia CXXVI Il ricevimento del Rettore. Le due bionde e quella bruna bruna

 

Il 24 luglio c’era il ricevimento del Rettore dell’Università di Debrecen.

Era la bella festa pomeridiana che diede l’avvio ai tre amori più importanti della mia vita: quello con Elena nel 1971, con Kaisa nel 1972, con Päivi nel 1974.

 Dopo il primo che ha avviato la storia più bella della trilogia amorosa con la più bella e buona dele mie amanti, avevo ritualizzato gli altri due ripetendo le mosse che avevano funzionato bene e scartando quelle improduttive. Verso sera avevo portato le ragazze, una alla volta pr carità,  nella csárda di Hortobágy dove avevo cercato di manifestare alle corteggiate il meglio di me per affascinarle e gettare le basi di un amore mensile che poteva però diventare eterno almeno nel ricordo.

A un tratto la ragazza bionda che avevo notato la sera precedente e mi aveva sorriso contraccambiata,  volse lo sguardo nella mia direzione. L’aurichiomata aveva la carnagione chiara e gli occhi azzurri: come si accorse che la guardavo e non levavo gli occhi da lei, protese verso di me la mano destra che stringeva un bicchiere pieno di “sangue di toro”[1] brillante come un rubino, in segno di brindisi credo, e mi accarezzò  il volto abbronzato con uno sguardo carico di simpatia femminile.

“Ecco di nuovo l’eterno, meraviglioso richiamo dei sessi!”, pensai.

Senza indugio ricambiai con piacere il simpatico gesto. Ci guardavamo da un tavolo all’altro. Io ero intruppato con gli Italiani. Dovevo avere conservato una  forma discreta: i mesi dell’intensiva cura erotica ricevuta da Ifigenia mi avevano fatto bene più di quanto quella ragazza balzana mi avesse danneggiato con i suoi scarti di umore. Nel bicchiere avevo messo dell’acqua, ottima[2] tra tutte le bevande, terapeutica più di ogni farmaco, preziosa pura e casta e così via. In ogni caso, che mi astenessi dall’alcol era uno dei segni della forza che sentivo dentro di me.

Il proposito di rimanere fedele a Ifigenia perfino nell’abbondanza di Debrecen, con il senno di adesso mi pare follia e spreco di occasioni che non ritornano se non vengono acciuffate, ma quella sera di luglio la volontà di aspettare  il destino a me assegnato, e assecondarlo qualunque esso fosse,  infondeva in me una calma interiore che, trapelando, mi faceva apparire misurato nei gesti, equilibrato, sicuro e perciò più piacente che mai.

Un amore vero o presunto, comunque carnalmente goduto , tra gli altri vantaggi ha pure quello, tutt’altro che trascurabile, di imbellire gli amanti.

 

Dopo la festa pomeridiana, calando la sera, andai a passeggiare sui sentieri del bosco. Camminavo come dentro di me mentre  ritrovavo e ripassavo sopra tante tracce della mia vita: vedevo gli alberi di maestà dodonea, il ponticello sul laghetto, i pesci rossi che vi nuotavano, i cespugli che lo incorniciavano, il vecchio Vigadó e altro.

 Dopo questo ripasso, andai a sedermi in una rientranza della facciata dell’edificio universitario, una specie di nicchia con una panchina di pietra. La fontana antistante, mentre verso le otto e mezza precipitava la notte, si accese di luci multicolori che resero i vigorosi zampilli simili, in formato miniore, ai fuochi d’artificio lanciati per la festa solenne del 20 agosto a illuminare il grande scenario di Buda e di Pest, al di qua e al di là del Danubio. Era e sarebbe stata l’ultima sera della borsa di studio piena di ricordi e speranze,

 

A un tratto mi venne in mente una fantasticheria del dicembre del ’68 lontano: avevo 24 anni, scrivevo dalla mattina a tarda notte, senza vedere nessuno, per finire la tesi di laurea e consegnarla prima dello scadere dei termini, prossimi ormai, al segretario iracondo della mia facoltà. Un buon uomo del resto.

Dal primo settembre avevo lavorato continuamente, senza concedermi una mezza giornata di pausa.

Il 24 luglio del 1979 dunque, percorrendo all’indietro il fiume del tempo, dello scorresre del sangue e dei sentimenti miei, mi tornò davanti quella notte remota.

Ero a Bologna in una stanza di una casa vecchia e non tanto calda.

 Mi ero coricato da poco: fissavo il soffitto segnato da una striscia di luce giallognola che entrava dagli scuri soltanto accostati. Quel giorno della mia vita mortale avevo scritto parecchie pagine dalla mattina presto a mezzanotte, quasi senza intervallo, e, prima di riprendere a lavorare con lena, avrei dovuto dormire, ma non oltre le sette.

Dovevo terminare la tesi, sulla poesia ungherese del Novecento, non più tardi del 5 febbraio; scrivevo da tre mesi ed ero arrivato appena a metà. Volevo dormire, però la paura angosciosa di non compiere il grande lavoro che doveva arrivare a seicento pagine dattiloscritte, non mi lasciava prendere sonno.

Allora decisi di non cercare l’assopimento e di intrattenere pensieri confortevoli: rinnovellare mentalmente le più belle esperienze della mia vita. Pensavo  alle assemblèe studentesche del ‘68, ai discorsi politici che reclamavano giustizia, uguaglianza, solidarietà tra gli umani, alle due estati già passate in Ungheria, al grande bosco di Debrecen,  alle feste nella Nyári Egyetem, alla bionda Eeva Vuortama quando mi portò una rosa la sera dell’ addio, alla grande fontana antistante la bella facciata dell’Università estiva che si specchia nell’acqua multicolore quando schizzano gli zampilli variopinti dalle fonti vivaci intorno alla vasca, e si accendono le tante finestre del maestoso edificio  insieme con le stelle del cielo sereno, azzurro dopo il tramonto del sole.

Con questi ricordi mi consolavo della vita dura e deserta che menavo da mesi. Quindi pensavo che dopo la laurea avrei cominciato a insegnare, allora bastava volerlo, magari spostandosi verso nord est, poi, in luglio, proseguendo verso oriente, sarei tornato a Debrecen, sarei andato alla festa della conoscenza, e, finita questa, mi sarei seduto su una delle panchine di pietra inserite nelle nicchie della facciata dell’Università estiva.

Avrei aspettato il passaggio delle ragazze che uscivano dalle feste tenute nel grande salone dell’Università. Immaginavo che tra quelle studentesse carine ci fosse  una ragazza italiana bella e intelligente, una sul tipo di una splendidissima bionda che avevo sentito parlare con eleganza in primavera dentro l’Università di Bologna occupata da noi studenti, Dadi si chiamava quella ragazza, aveva un dente un po’ fuori posto eppure era bella, espressiva, luminosa: brillava di un fuoco interiore, aveva lunghi capelli, era ben fatta, allettante, armoniosa come una dea, chiara nella pelle liscissima, e aveva occhi d’oro brunito dolci e vivaci. Ebbene, se  quella creatura perfetta mi fosse passata accanto lì a Debrecen, dove Eros faceva incontrare ragazze e ragazzi perché si amassero senza timori, l’avrei chiamata e se non mi avesse sentito, l’avrei inseguita. Le avrei chiesto di stare con me, di fare una bambina con me. Tali progetti facevo nella solitudine semifredda della stanzetta dove vivevo, da anacoreta, gli ultimi giorni della mia vita universitaria bolognese.

Dopo tale fantasticheria della fine del ’68, ero andato avanti altri dieci anni con il metodo degli amori estivi per le finlandesi estive di Debrecen e delle relazioni poco impegnative con donne insignificanti in Italia, senza impiegare il cuore e la mente con le colleghe che incontravo nell’ambiente del lavoro iniziato nel 1969.  

Quelle cercavano un fidanzamento santificato dai genitori. Non erano fatte per me. Ero libero e tale volevo rimanere

Nell’autunno del ’78 però avevo smesso di procedere metodicamente per la strada degli amori mensili, innamorandomi di Ifigenia, una collega bruna bruna. Sposata invero

Ordunque, il 24 luglio del ’79, mentre ero seduto sulla panchina a ricordare, vidi passare l’aurichiomata tedesca che, se non altro per i capelli e i colori, poteva ricordarmi la Dadi della fantasticheria. La giovane donna si accorse di me, si voltò e mi salutò con un sorriso. Per un momento sentìi l’impulso, quasi il riflesso condizionato, di avvicinarmi e proporle una gita a Hortobágy oppure una cena all’Aranybika. Pensai che molto mi sarebbe stato perdonato se avessi amato molto, ricominciando con quest’altra straniera che mi aveva fatto tornare in mente la Dadi agognata undici anni prima e mi allettava assai.

 

Bologna 11 aprile 2024 ore 18, 19 giovanni ghiselli

p. s

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[1] E’ il nome di un vino rosso ungherese “Egri bika vér”, sangue di toro di Egere.

[2] Cfr. Pindaro, Olimpica I

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