lunedì 15 aprile 2024

La prima lezione dell’estate 1979. Due tipi opposti di insegnamento

Il giorno seguente, 26 luglio, andai alla prima lezione del corso dell’estate 1979. Insegnava lingua ungherese alla classe dalla conoscenza “progredita” una cattiva insegnante che nessuno ascoltava.
Che cosa è una cattiva insegnante? E’ una persona cattiva: impreparata, incolta, egoista: è tale che non sa interessare gli allievi siccome non prova interesse per loro.
A parte l’università estiva di vacanza-studio, nei licei italiani i classici greci e latini si possono insegnare in modo da farli amare o da renderli odiosi: gli stessi autori dagli stessi ragazzi. Per farli amare è necessario averli letti, capiti e amati; poi bisogna ricordarli con precisione,  riferirli e citarne le parole più belle con forza,  vivacità,  entusiasmo. Un riassunto ben fatto di un testo è la base di una lezione buona, cioè interessante e stimolante. Bisogna spiegare l’opera di un autore con l’opera stessa, poi con le altre opere dello stesso autore, e con le opere di altri autori utilizzati dall’autore in questione, quindi con le successive che risentono del testo presentato a una  classe o a un pubblico comunque. Un lavoro enorme, molto difficile a farsi del tutto. Già non è facile a dirsi.
Ma passando tanto tempo a studiare, ci si può avvicinare a una bella lezione. Nelle scuole di questo nostro paese confuso pochi sono gli insegnanti che passano gran parte della giornata sui libri. I più rendono falso il loro lavoro riferendo o addirittura leggendo in classe le parole generiche dei manuali. Senza ricordare nulla a memoria. Senza citare le frasi meravigliose che  stupiscono e colpiscono la sfera emotiva.  Allora gli studenti si annoiano e non ascoltano il cattivo docente. Capiscono che tali insegnanti non si sono adoperati per loro, non hanno studiato le opere dell' autore, o non le hanno capite. Comunque non le hanno imparate e non hanno nulla di buono da offrire alla loro crescita.
Per questo motivo noi appunto non ascoltavamo la pessima professoressa di Debrecen: avrebbe dovuto almeno conoscere la lingua italiana per insegnare agli Italiani la lingua ungherese.
Nelle ore di quella docente noiosa dunque, dalle otto alle undici e trenta, non senza un breve intervallo, leggevo e scrivevo, poiché a mio parere non è doveroso ascoltare chi non rispetta gli uditori parlando senza una preparazione decente.
Leggevo la storia romana del Mommsen e scrivevo a Ifigenia. Rievocavo gli intervalli radiosi nel nostro liceo, quando lei ed io, innamorati, fieri di come eravamo, al suono che annunciava la pausa, uscivamo trionfalmente dalle aule cupe e ci incontravamo nel corridoio tetro, irradiandolo con la nostra felicità; poi facevamo le scale per recarci alla macchina delle bibite  dove prendevamo il caffè, guardandoci negli occhi con desiderio reciproco, con stima, con gioia sicura, e con l’orgoglio di essere una coppia bella, fine e rara.
Eravamo felici nella certezza di essere gli amanti più luminosi, intelligenti e innamorati del mondo. In quel tempo ne eravamo convinti. Ifigenia, dopo avere bevuto il caffè, allungava le braccia all’indietro e, facendo così, protendeva il seno giovane verso di me, nel suo tipico gesto di fervida oblazione gioiosa: io la guardavo con desiderio, con tenerezza, con ammirazione, e con la volontà di aiutarla a divenire una brava insegnante. Ero felice di esserle maestro e pure allievo suo, oltre che  compagno di vita. Insieme saremmo diventati ottimi dicitori di parole e non meno buoni operatori di fatti. Fu un’illusione, ma, almeno per me, è stata un’illusione benefica. Ancora adesso, quarantasei primavere più tardi, credo che la chimera di Ifigenia mi abbia aiutato e reso migliore. Poiché i dolori sono passati lasciando l’intelligenza dei miei e di quelli degli altri, mentre la gioia è rimasta nel fondo dell’anima dove continua a generare splendidi fiori, a produrre ottimi frutti.
A Debrecen, nell’estate del ’79, dunque ricordavo, e rimpiangevo già, quei giorni felici dei mesi passati da poco. Li ho ancora nella memoria quei giorni, e grazie a Dio, me ne vengono in mente diversi altri non meno belli. Quelli dell’offerta di Elena che ho già raccontato. I più belli di tutti. I più educativi.
 Nella caserma, quando non si fa niente, negli ospedali in attesa di responsi fatali o dell’operazione che ci squarcerà, o anche in casa quando si è stanchi e  soli del tutto, e per farci un poco di compagnia ci guardiamo nello specchio, o per incoraggiarci un poco stringiamo la mano sinistra con la destra, sono sempre siffatti i ricordi che aiutano a procedere: memorie ridenti dei volti che spargevano e riverberavano luce amorosa. Nell’incontro i due amanti annullano tutte le innumerevoli tribolazioni della breve esistenza umana: i loro difetti, l’invidia degli altri, i morbi probabili, l’inesorabile ictus finale, il colpo della morte sicura.
 In quei momenti gli innamorati salgono insieme in un regione elisia, sempre soleggiata e fiorita, dove non arrivano mai le offese del tempo, delle persone cattive, della vecchiaia tremenda, né il decadimento con l’affiochirsi della fiamma vitale, né la caduta nell’abisso finale. Poi l'incanto svanisce, ma non c'è disincanto sufficiente a cancellare dalla memoria quella felicità, a fare appassire quei fiori e marcire quei frutti. E così sia.
Bologna 15 aprile 2024 ore 10, 44 giovanni ghiselli.
  
 

 

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