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lunedì 15 aprile 2024

Quel che resta di Ettore Romagnoli. Di Giuseppe Moscatt

Quel che resta di Ettore Romagnoli
Giuseppe Moscatt


Discepolo di Nietzsche? Precursore di Pasolini? Maestro di Peter Brook? Oppure genio e sregolatezza alla maniera di Peter Stein, maestro tedesco a lui tanto vicino quanto gli erano lontani il fior fiore della filologia tedesca, dal Keck al Blass, studiosi di acribia classica dimenticati o svalutati anche per opera sua? Ovvero, filologo e filosofo della storia, particolare ed universale e via discorrendo. Quando ci si trova dinanzi ad un autore e ad un'opera d'arte, Romagnoli si chiedeva da sempre come riproporla dopo secoli dalla loro pubblicazione. Oppure essere traduttore letterale, o farne fotografia, oppure dipingerla come la vede un nuovo e moderno esecutore? Ettore fu campione di soggettivismo culturale, oppure fu un meditabondo passionale che vuole dare alla storia un fine al di fuori del materialismo storico di cui era impregnata la critica letteraria della sua epoca e nelle forme della più per lui stupida impostazione?
 
Leggiamo un passo invero della sua seconda prefazione al volume più autobiografico che scrisse, Minerva e lo scimmione, del settembre del 1917, quando a 46 anni insegnava letteratura greca a Catania, ormai pronto alla direzione artistica del Teatro Greco di Siracusa, dissepolto da una classe dirigente locale ben diversa dalla precedente poco colta ed ora molto più legata ad interessi meno materiali ed economici, cui Romagnoli non aveva mai prestato attenzione negli anni della sua formazione prettamente lega al mondo antico. Classe guidata dal Conte Gargallo, che poi alla fine degli anni '20 lo giubilerà sia per una giusta alternanza nella direzione artistica, ma anche per le tradizionali oscillazioni politiche di cui il Fascismo non era affatto esente. Scriveva dunque il Romagnoli all'inizio del nuovo secolo:
Veniamo adesso agli studi storici. Esiste un dubbio se un gran poeta, diciamo Vincenzo Monti, fu battezzato il 15 sera od il 16 mattina? Tizio, sitibondo di verità, sale a Genova, accorre sui luoghi, importuna gente, compulsa archivi, scopre l'atto di battesimo, il padrino, la madrina, il prete che lo battezzò, il chierichetto che perse l'acqua santa, e quanto ebbe di mancia, e gli assistenti, e la progenie degli assistenti, e poi scrive un articolo, due monografie, tre polemiche e perfino un volume di 650 pagine. Tizio è un imbecille.
 
Dietro queste parole l'acredine passionale dello studioso lo rende meno insigne, benché giustificato da un inizio di carriera coerente non indenne di fraintendimenti, legati sia alla novità antifilologica che lo assorbì fino alle prime pubblicazioni (si veda Vigilie italiche, raccolta di breviari intellettuali, n. 99 del 1917) dove iniziò a lapidare la cultura filologica tedesca nelle 2 edizioni del suo famoso pamphlet, Minerva e lo Scimmione dello stesso anno, che per i toni e gli scopi innovatori gli precluse all'inizio la carriera universitaria, a fatica riguadagnata per la rilettura delle opere classiche e proprio durante la Grande Guerra. Da cosa gli derivò il livore antitedesco della filologia germanica, che negli studi superiori classici di allora era perfino lingua d'esame finale? Sicuramente dalla lettura diretta di un eretico qual era Friedrich Nietzsche e della sua La nascita della tragedia e dello spirito della musica (prima edizione del 1872).
Il mestiere di grecista lo imparò meglio dal classicista Enea Piccolomini, col quale a 22 anni si laureò analizzando esegeticamente Aristofane. Proprio in quell'occasione si trovò a leggere il principe della filologia germanica di metà '800, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, sul tema maggiormente discusso delle origini della tragedia greca, ricercato negli anni '80 dell'800 non solo dal vecchio esegeta, ma anche da un giovane talentuoso, Fritz Nietzsche, già noto per la sfegatata amicizia col nuovo imperatore della musica tedesca, Richard Wagner. Mentre Wilamowitz, Mommsen e Beloch osannavano il fondatore della letteratura tedesca, l'illuminista Friedrich August Wolf (1759-1824), antichista e padre della filologia acribica che scrutava il testo classico come si analizzava un minerale in laboratorio, senza pensare a cosa può servire e perché lo si è estratto dalle miniere più accidentate e malagevoli del Paese; il giovane Nietzsche andava al di là del problema minuto cui costoro si preoccupavano e non capiva la ragione per cui la Grecia era considerata il popolo d'eccezione di altri popoli, per esempio il Germanico. Nietzsche si chiedeva perché mai i teutonici restavano ai margini della storia europea, mentre la dominazione di Roma ed il pensiero cristiano permanevano fino all'illuminismo. Nietzsche rilevava un sentimento peculiare di come invece il popolo tedesco aveva resistito nel corso dei secoli ad ogni influenza esterna. Era per la Grecia allora lo spirito di Eschilo quello genuino da risvegliare, anche se c'era un risvolto dionisiaco che emergeva di quanto in quanto sul formale spirito apollineo, come nelle Baccanti del morale Euripide. Una rivolta intellettuale che fulminò positivamente il giovane Romagnoli e che ritrovò ampliata nelle commedie di Aristofane.
 
Benché la vecchia classe dei filologi reagisse con meraviglia a questa duplicità di spiriti nell'unico corpo drammatico - ma Goethe non aveva detto ahimè, due anime abitano nel mio essere descrivendo i Dolori del giovane Werther?- la dottrina filologica di maggioranza accusava Fritz di avere confuso il giudizio estetico col metodo scientifico e di avere introdotto il metro del primo nel secondo, esaltando il testo poetico trascurando il contesto da cui derivava. Era invece proprio quello che prima Nietzsche, e poi il discepolo Romagnoli, quello cui si voleva significare, partendo sì dalla leggenda, ma poi calandola nella storia, selezionando il mito dalla storia stessa. Ma il processo non poteva essere inverso? Se il mito è legato all'uomo e ha le forme della tragedia, perché questa non può essere letta e tradotta, per Romagnoli, in un evento tragico metastorico ora per allora? Aristotele, qualche decennio dopo Euripide, proprio nell'Estetica aveva disegnato la figura interpretativa della catarsi, il sentimento umano, magari mitico, ma non irreale, che aveva valore educativo e quindi estetico. Un bagaglio di vita vissuta che rende partecipe il pubblico a ciò che assiste e che può spingere la massa inerte a pensare fuori dal political correct.
Ettore concordava con la follia soggettivista di Fritz e criticava aspramente la ragioneria capziosa della scuola storicista, che si fidava della tecnica e della scienza materialista, che spingeva ormai la borghesia capitalista verso la guerra di classe. Egli si era formato nella Roma classica del liceo Visconti, ha ascoltato Wagner, pur preferendo il Verdi della Traviata e dell'Otello. Vedeva le commedie del Praga sulla crisi della famiglia, nonché Ibsen che scolpiva la caduta del mito dell'onestà professionale e perfino della famiglia; giudicava con severità la crisi della Banca Romana e la sconfitta di Adua, mentre da libero docente a Roma e poi da professore di ruolo a Catania, insegnava non solo la letteratura classica, ma perfino impartiva lezioni universitarie di lingua e letteratura tedesca, commentando di prima mano quanta superficialità trovava nelle traduzioni italiane dei classici greci e latini che avevano perso il senso interiore della tragedia umana. Non faceva mistero di rileggere Omero, Pindaro, Orazio e Virgilio in quanto uomini validi per tutte le stagioni, al di sopra della letterarietà e della metrica carducciana.
 
D'Annunzio lo ispirò, per la sensualità del verso e del contenuto spiccatamente erotico. Poi ritrovò uno storico - il Beloch - invitato dal Crispi a tenere lezioni in Italia di storia tedesca, scoprì così un tedesco come lui fautore della Classicità nel mondo. Questi lo avvicinò all'archeologia, rivedendo la vecchia tecnica capillare delle iscrizioni, anche da questi lette in senso ampliato rispetto ai canoni superficiali tradizionali. In altri termini, la sua feconda attività di traduttore - citiamo fra le tante opere fra il 1906 e il 1937, I drammi satireschi (1914-1919), Il teatro greco, (1919); le numerose traduzioni dei drammi dei tragici greci che conosciamo, spesso presenti negli scaffali di molti siracusani che fin dagli anni '20 e al 1960 frequentavano abitualmente il Teatro Greco, che leggevano estasiati le opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide in un linguaggio nuovo rispetto a quello delle scuole classiche di allora, dove prevaleva la retorica minuziosa rispetto alla sostanziale conquista di verità umana che erompeva dal verso ritmico e che spiegava i tormenti e le gioie dello spirito dell'uomo-Omero, dell'uomo Euripide, dell'uomo Aristofane, quest'ultimo spesso abbandonato dalle scuole classiche tedesche dove l'erotismo prorompente di quell'autore veniva scambiato come mera pornografia.
 
Il triennio a Catania (1906-1909) non solo lo vide in rotta di collisione col mondo accademico (a suo modo, dileggiato nel libretto Paradossi Universitari, 1919), ma lo rievocherà, non senza spunti fra la polemica e l'amara ironia, con cenni già presenti nel pamphlet del 1917 succitato, proprio nel non trovare consensi immediati alla sua tecnica traduttiva a senso, da scrittore moderno, senza i paludamenti che il Monti e l'Alfieri avevano introdotto in età romantica. Aderì dunque alle tecniche scientifiche del verso, che avevano avuto nel Platen in Germania una notevole approvazione negli eruditi, anche se Leopardi aveva mostrato qualche dubbio sulla resa popolare del significato presuntivamente alto da offrire al lettore. Le traduzioni di opere comiche soprattutto avevano reso il testo classico denso di un colore idiomatico assoluto per la varietà dei vocaboli, che quindi esprimevano il meglio il messaggio dell'autore. Prendiamo per esempio il primo verso dell'Iliade tradotto da Ippolito Pindemonte:
Tu o Diva, cantami l'ira funesta del Pelide Achille che addusse infiniti lutti agli Achei, travolse molte generose alme di eroi anzitempo all'orco ed abbandonò lor salme, orrido pasto di cani e di agnelli (così di Giove l'alto disegno s'adempia) da quando primariamente disgiunse aspra contesa il re dei prodi di Atride ed il divo Achille. Scrive invece Ettore: Cantami, l'ira, o Diva, d'Achille Figliol di Peleo funesta , che agli Achei fu causa di doglie infinite, e molte alme d'eroi gagliardi travolse nell'orco, ed i corpi abbandonò preda ad i cani e banchetto agli augelli.
 
In verità come spiega più volte, il Nostro traduttore non cambiava affatto lo spirito del poeta classico. Soltanto dava al testo una traduzione più popolare, fermo restando il ritmo recitativo per contrastare l'usura del tempo. In fondo, è la stessa opera dello storico che deve mantenere la memoria di un evento, senza dilungarsi su particolari esterni che se rimarcati più volte, disperdono la centralità del messaggio. Arte che lo portò a trasferire la parola letteraria alla parola scenica, come aveva fatto lo Shakespeare nei confronti del Giulio Cesare di Plutarco, un autore ellenico che più volte era stato usato dal Bardo come canovaccio per le sue tragedie. Non mancò anche di contattare Pirandello col quale collaborò anche quando portò in scena al Teatro Greco di Siracusa il dramma satirico Il Ciclope di Euripide, rappresentato per la prima volte in siciliano.
Il metodo ebbe un successo enorme, anche perché - come ebbe a scrivere nel saggio critico del 1917 - l'opera d'arte è l'immediato riflesso dello spirito divino. E ad essa bisogna avvicinarsi come il credente alla sacra Particola: le minute poste di spesa, che servono a completare un bilancio, qui non servono a nulla, anzi sono profanatrici e non devono avere libero corso.
 
Quando però nel 1921 i Futuristi, calati in massa a Siracusa per contestare le cc. dd. feste classiche, lo presero di mira come passatista d'inciampo per la nuova Italia fascista; Ettore - al colmo del successo culturale per le sue battaglie di traduttore e di direttore artistico dell'Istituto Nazionale del dramma antico fin dal 1914 - per la sua natura di uomo libero e passionale, subì un trauma psicologico non indifferente. Si può dire che il sodalizio positivo culturale fra il fondatore dell'Istituto, il nobile siracusano Mario Tommaso Gargallo, lo scenografo Duilio Cambellotti e lo stesso Romagnoli, era già esploso con i cicli di rappresentazioni classiche al rinnovato Teatro Greco antico di Siracusa. Qui, fra il 1914 ed il 1927, le traduzioni rivoluzionarie di Ettore dall'Agamennone di Eschilo (1914) delle Nuvole di Aristofane, ed i Satiri alla Caccia di Sofocle - oltre che per le Baccanti, la Medea di Euripide e l'Edipo Re di Sofocle - fecero scuola per la storia del Teatro classico in Italia e nel mondo. La regia dello stesso traduttore e le innovazioni scenografiche, i disegni, i manifesti ed i costumi del Cambellotti - esponente di spicco del movimento futurista, peraltro contrario ad eccessi anticlassici del Marinetti capo di quella corrente - trovarono tracce significative nella stampa popolare dell'epoca. Per esempio, il giornale La Tribuna del maggio 1927 ci racconta una folla innumerevole presente alla incomparabile magnificenza dall'evento - la Medea di Euripide - e l'immenso teatro non è stato più capace di contenere il pubblico.
 
Il notista racconta l'assoluto silenzio del pubblico, fra irrefrenabili applausi; nonché la chiarezza della recitazione di Letizia Maria Celli e Gualtierio Tumiati. In ultimo, una riforma del vecchio Ente però non piacque al Romagnoli e che forse ne accelerò l'uscita di scena. Va ricordato che già nel 1921 lo scontro con i nazionalisti ed i giovani fascisti non era stato ben digerito. La citata invasione dei futuristi siciliani fu preannunziata da una coloritura di manifesti per Siracusa che annunziavano l'arrivo imminente del Marinetti che aveva più volta annunziato la sua opposizione alla esumazione del teatro antico... Gargallo, Cambellotti ed il nostro traduttore tremavano al pensiero di una rappresentazione critica proprio nel sacro luogo che nel 1914 aveva accolto la splendida edizione dell'Agamennone di Eschilo e che negli stessi giorni aveva rivisto rappresentare Le Coefere, con musiche anche di Giuseppe Mulè, sodale di Ettore e che aveva avuto la maestria di mettere in musica le teorie del traduttore sulla musica greca. Molti aderenti del Comitato Promotore erano però di area di opposizione al Fascismo, già maturo in Sicilia in violenze ed intimidazioni. Si parlò perfino di volere stuprare il Teatro Greco.
Il 18 aprile Marinetti arrivò e trovò invece l'accoglienza positiva di Mario Gargallo e di Cambellotti, ma il silenzio assordante di Romagnoli, aprì un primo solco fra i tre. Ed al Teatro Epicarmo la pace sopravvenne, anche perché il pubblico non mancò di discutere - spesso più che in modo meramente animoso - le tesi oltranziste del Marinetti, il quale comprese che un irrigidimento identitario non avrebbe giovato all'alleanza con il Partito fascista locale, conservatore nelle idee e molto legato agli introiti dei commercianti locali nei giorni delle Rappresentazioni. Poi vennero le edizioni del 1924 - con la citata perla del Ciclope di Euripide in siciliano - e quella del 1927, con il caso della Medea che tramutò gli eventi in spettacolo popolare. In quegli anni, però la presa del potere del Fascismo ed il suo intrigarsi nella realtà culturale del Paese con veline e divieti, non piacque al libertario Romagnoli, iniziato alla Massoneria fin dal 1903 e poi nel 1904 addirittura Maestro Massone.
 
Il 1925 è l'anno della apparente scelta politica definitiva: vale a dire l'esplicita adesione al Regime partecipando al Convegno Nazionale per la cultura fascista di Bologna, divenendo addirittura Accademico d'Italia nel 1929, dichiarando con autorevolezza che Mussolini è prima di tutto filosofo. Scelta che non è una mera piroetta opportunista, ma è la consapevolezza di una rivoluzione culturale di cui si sentì investito nelle polemiche in cui si era volutamente intrigato, dalla Questione Omerica contro il giovane filologo Nicolini interpretando soggettivamente la lettura del Vico; alla visione storicista di Croce e Buonaiuti, riaprendo le porte alla concezione mediterranea di Nietzsche. Romagnoli fu anche personalmente coinvolto nelle frequenti visite a Siracusa ed a Gela, città che nel momento del suo massimo apogeo culturale - il 1922 - si onorarono di riconoscergli la cittadinanza onoraria. Eppure un primo scricchiolio alla sua egemonia culturale gli venne da una critica di un classicista tedesco che lo aveva avvicinato ad inizio secolo, quando appena laureato alla Sapienza di Roma col Piccolomini, avevano insieme scoperto il filo rosso fra due autori tedeschi, Eduard Mörike e Wilhelm Busch; e Aristofane e Plauto, ricordati solo marginalmente dalla scuola di Girolamo Vitelli, che non faceva mistero di essere il proconsole di Wilamovitz in Italia per l'adottare la critica testuale storico-critica. Era Karl Vossler, traduttore di Dante in lingua tedesca, che visse in Italia dal 1907 al 1910: uno dei maggiori italianisti di primo '900, che apprezzò la verve giovanile di Romagnoli e che trasferì in Germania l'estetica idealistica del Croce, sposando la creatività linguistica dell'uomo classico dove il verso di Dante venne affiancato alla poetica di Herder e Goethe.
Il dolce stil novo di Dante apparve così in tedesco e il canto ottavo dell'Inferno, commentato dal giovane Ettore, gli fece da modello per la traduzione in tedesco del poema nel 1942. Ma il livore antitedesco con cui Romagnoli aveva caratterizzato la filologia germanica dell'epoca, rea di avere lodato l'acribia grammatica dei classici e di avere anteposto la accettazione sociale positivista allo spirito ideale dell'autore, facendo l'estetica una mera ancella della poesia, dimenticando l'Uomo nel suo essere immortale (frase che Vossler riportò scandalizzato al Croce): minarono l'impero intellettuale che Ettore stava governando nei primi anni del dopoguerra. Ma il tradimento dei chierici che lo amareggiò fino ad abbandonare il prestigioso timone delle feste classiche a Siracusa, fu la scelta di Gargallo e del Dramma Antico di posticipare le opere programmate in tempi più lunghi.
 
Dopo la mediazione del Gargallo rispetto ai furori futuristi, il potere politico fascista non solo su iniziativa dell'onorevole Fedele, impose un avvicendamento temporale delle rappresentazioni che non era in linea con le idee organizzative del Direttore artistico: ma addirittura incrementò la commercializzazione delle opere con attività collaterali indipendenti dalle direttive artistiche. Di qui la fine del trio organizzativo di cui si disse ed il trasferimento del Romagnoli nel 1927 a Pompei e ad Ostia, dove preparerà I sette a Tebe, l'Antigone e le Nuvole. Che forse i nuovi direttori artistici che dal 1930 al 1936 reggeranno regia teatrale, hanno qualcosa in più del suo stile di direttore assoluto di scena di wagneriana memoria? Nelle tre edizioni che lo videro ormai assente dalla cavea - 1930, Giulio Garavani; 1933, Armando Marchioni ed Ettore Bignone; 1936, Giovanni Alfredo Cesareo, nella veste di traduttori, affiancati però da Franco Liberati nel ruolo di regista – fu sostituito da una nuova classe di intellettuali in armonia al cambio di Regime, votato ad un mutamento di marcia politica delle Arti, esemplificato dal c.d. ritorno all'ordine proclamato da Giovanni Gentile. Si ricordi invero che nel 1929 si era arrivati al Concordato con la Chiesa Cattolica e che le Istituzioni Fasciste non potevano più consentire slanci culturali atei e paganeggianti nei teatri della Nazione, tanto che D'annunzio, Pirandello e Bontempelli dovranno ottenere a fatica l'autorizzazione del Minculpop per le loro ultime opere.
Cosicché quando Romagnoli nel 1931 veniva incaricato quale Accademico d'Italia di preparare le iscrizioni celebrative per due lapidi di marmo da porre sul ponte Littorio di Roma; un moto di gioia dovette averlo rianimato, quasi come Napoleone a Waterloo quando vide gli inglesi di Wellington quasi a subire i suoi attacchi, sicuro che l'armata di Grouchy fosse vicina a bloccare i prussiani di von Blücher. Fuor di metafora, le continue bordate alla cultura tedesca che giudicava obsoleta, incomprensibile, falsa e quanto presupponente, anche quando il Croce ed il Bonaiuti lo avevano ammonito e a non criticare aspramente la tecnica positivista nell'esame storico delle opere classiche, invitandolo a mediare e a non romanzare figure e sentimenti senza adeguati fonti storiche di sostegno - come appunto era avvenuto con le sue analisi critiche su Pascoli e Carducci - erano rimaste inascoltate; Ettore li aveva qualificati come schiavi ed ancelle della logica positivista e freddi poeti del verso.
 
Ma non erano critiche più alla moda perché lo spirito nazionalista germanico soffiava in direzione ben più infuocata del debole venticello della Repubblica di Weimar dove era permesso tutto il contrario di tutto. Al Ministro dei Lavori Pubblici, Araldo di Crollalanza, pervennero invero quattro testi in latino da Lui prodotti in lode della Roma imperiale che Mussolini cominciava a disegnare per il secondo decennio del Regime. Solo che preso dall'onnipotenza culturale che si era creata, da quell'aura di cultura classica superiore che lo impregnava, si direbbe pieno di hybris del sapere; non menzionò la grandeur del Duce ed allora un non ci siamo rimbombò nel famoso studio di Piazza Venezia. Ed al povero Di Crollalanza non restò che riaffidare l'appalto marmoreo ad un modesto lessicografo, Alfredo Panzini, che si prodigò in una triplice menzione di lode del Duce. Ormai Ettore sparì dai Palazzi del Potere. Fu una dimenticanza colposa, oppure un modo soft di uscire dal giro della classe dirigente di prima gestione? Tanto più che il Nume tutelare ideologico, Giovanni Gentile, iniziava pure a deludere le aspettative del Duce, entrando in rotta di collisione col Vaticano, mostrando una certa freddezza col mondo tedesco dopo l'avvento di Hitler. Se lo smacco fu enorme, una nuova via lo attirò e lo convinse, vale a dire l'opzione popolare delle sue opere e della sua vocazione teatrale.
 
Del resto, il giuramento di fedeltà al Regime imposto quello stesso anno non meritava una risposta così rigida da chi come Lui, uno spirito libero possessivo e convinto come non mai delle sue teorie, aveva in materia avuto favori ed un ottimo conforto alle tormentate vicende della sua carriera universitaria. Sia come sia, oltre alle innumerevoli traduzioni, prefazioni, conferenze e lezioni in Italia ed all'estero, nonché pubblicazioni latine e greche, scrisse un melodramma (Il mistero di Persefone,1929). Peraltro la quasi fuga da Siracusa e da Gela lo portò in quegli ultimi anni di vita a sperimentare in Val Vigezzo ed in Val d'Ossola (a due passi del Canton Ticino) sia la trasposizione di tragedie e commedie classiche mai rappresentate (famosa fu la rilettura in vesti moderne dei Menaechmi di Plauto); sia opere teatrali che scrisse e diresse direttamente. Altre commedie che vennero presentate in prima edizione, che oggi avrebbero un sicuro successo popolare, quali Compensazioni d'amore, Il labirinto ed Il cardinale di Parker. Utilizzò come attori e figuranti gli abitanti della zona e del centro turistico di Malesco, oggi sede di un museo a Lui dedicato. Nondimeno Rovereto possiede buona parte dei suoi scritti ed in tale sede sono stai tenuti ottimi convegni di rilievo sulle sue opere e sul suo pensiero. Dopo la morte nel maggio del 1938, sicuramente amareggiato dopo il discorso del Duce del 1.11.1936 sull'asse Roma-Berlino; la sua polemica sulla filologia come ancella e non come padrona della critica del pensiero classico, in funzione antipositivista e filoidealista; non si è conclusa. Taciuta nelle orazioni funebri di commemorazione per non sollecitare discussioni col nuovo e potente Alleato; sarà poi un abilissimo cultore delle letterature classiche a mediare una volta per tutte la questione. Giorgio Pasquali (1885-1952) ne seguì invero le orme e qui per ragioni di spazio non ne possiamo a lungo parlare, salvo a rinviare ad altra occasione. Pasquali, pur seguendo formalmente gli stilemi filologici del Wilamowitz-Moellendorff e curando per esempio l'edizione dell'Herakles di Euripide, anche in armonia alla acribica filologia bizantina ed in piena sintonia alle idee di Eduard Schwartz sulla selezione delle fonti classiche contaminate; non mancò di accettare la teoria del Romagnoli, quando formulava come la tradizione medievale fosse stata frutto di una molteplicità di qualche archetipo assoluto, figlio di Valori Universali e metastorici. Inoltre badò molto alle manipolazioni dei copisti ed alla valutazione dei codici più recenti ancora nel solco del Maestro di cui si è parlato. Insomma, una tecnica a 360 gradi, motivando la lettura comparativa ed integrativa in relazione allo spirito ritmico ed al significato umano delle parole e dei suoni.
Un’applicazione del linguaggio che Romagnoli aveva inaugurato proprio a Siracusa. E quando Pasolini e Gassman nel 1960 a Siracusa vollero introdurre un nuovo linguaggio, decisamente più prosaico, rivolto alla partecipazione popolare alla tragedia, proprio questo non fu ancora capito e si invocò un ritorno al classico Romagnoli, dimenticando che già quel linguaggio era stato foriero di critiche da parte delle dottrine pangermaniste e positiviste. Una circostanza che fa oggi riflettere su analoghe polemiche sollevate al Teatro Greco in occasione di rappresentazioni dove il contemporaneo sembra sostituire il classico. Un percorso sociologico e storico in cui Romagnoli sta un interprete fra i più brillanti e sicuramente da ristudiare per il suo illuminante contributo.

Giuseppe Moscatt

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