Nell’epoca ellenistica l'uomo di cultura vede circonfusa di luce radiosa la vita di pastori e contadini, con tutto il primitivo ad essa attinente. Nel III secolo a. C: Callimaco apprezza la felicità della misera capanna di Ecale eponima dell’epillio che racconta l’ospitalità offerta a Teseo, e Aconzio, l’innamorato inventore delle scritte pubblicitarie segli Aitia, cerca la solitudine in mezzo ai boschi. La natura è il paradiso perduto dei moderni uomini civilizzati.
Teocrito vuole attuare un ritorno alla natura, alla sfera vitale cui si sente avvinto in maniera indissolubile.
Nelle città si cercava l'avvicinamento alla natura con mezzi artificiali: i Tolomei fecero piantare giardini e boschetti ad Alessandria; ad Antiochia i Seleucidi fecero costruire passeggiate con giochi d'acqua.
Nel II d. C. Adriano farà ricostruire a Tivoli una riproduzione in miniatura della la valle di Tempe sottostante l’Olimpo e attraversata dal fiume Peneo.
Ad Alessandria era stata eretta una collina artificiale. I templi si costruivano a contatto con la natura in boschi o su promontori marini; del resto già i templi antichi di Dodona, di Delfi, di capo Sunio erano tali. Olimpia si trova ancora in un luogo tra i più ameni tra quanti ne ho visti in Europa.
Nell’età ellenistica poi in quella romana anche i privati si facevano costruire dimore con giardini e fontane, case dalle pareti affrescate con paesaggi . L'arredamento diviene più curato rispetto all'età classica quando interessava meno poiché si passava la vita fuori di casa.
Allora la plastica si occupava essenzialmente del corpo umano; nel III secolo troviamo accenni paesaggistici anche nelle sculture, come il Fauno Barberini steso su una roccia.
“Nell’età ellenistica tale stato d’animo si estese a cerchie più ampie. Quando il Filadelfo (282-246), tormentato dalla podagra, vide sulla riva del Nilo dei fellah che consumavano il loro misero pasto, si rammaricò: “Ahimé, non essere venuto al mondo nella condizione di uno di costoro!”[1]. Natura divenne la parola di moda, e alla gioia istintiva che il cittadino, ormai straniato dalla campagna, prova al contatto con gli alberi e le sorgenti, con i frutti maturi e il canto delle cicale, si associò una forma di rimpianto romantico per la vita dell’uomo allo stato di natura”[2].
Omero non trascurava la natura: il mare, i campi, il cielo con le aurore e i tramonti. Poi i lirici hanno trasfuso nella natura tanti dei loro sentimenti, Saffo in primis.
Nell’Atene del V secolo il sentimento della natura era meno forte: nella polis democratica prevale l’interesso politico.
La tragedia non dà grande spazio alle descrizioni della natura prima dei due drammi più recenti tra quelli che si sono arrivati: l’ Edipo a Colono di Sofocle e le Baccanti di Euripide rappresentati alla fine del secolo.
Il Fedro di Platone rappresenta Socrate che si scusa con Fedro dicendo di essere filomaqhv~, uno che ama imparare: “ ta; me;n ou\n cwriva kai; ta; devndra oujde;n m j ejqevlei didavskein, oiJ d j ejn tw`/ a[stei a[nqrwpoi” (230d), il luoghi di campagna dunque e gli alberi, non vogliono insegnarmi niente, gli uomini della città, invece sì.
Vediamone il contesto di questa dichiarazione
Nel prologo del dialogo, Socrate descrive il paesaggio che incornicia la passeggiata fuori le mura e[xw teivcou~ (227A). Il filosofo indica e descrive a Fedro un bel luogo di sosta. C’è un platano alto e molto frondoso, poi c’è un agnocasto, un grosso cespuglio rigoglioso che stende sul terreno un’ombra bellissima, e offre un piacevole profumo con i suoi fiori viola. Sotto il platano ujpo; th`~ platavnou scorre una fonte gradevolissima- phgh; cariestavth rJei`- (230B) di molta acqua fresca. Non mancano statue che fanno ritenere il luogo sacro alle Ninfe e ad Acheloo. Gradevole e dolce pure è il venticello del luogo. E un melodioso suono estivo risponde al coro delle cicale- qerinovn te kai; liguro;n ujphcei` tw`/ tw`n tettovgwn corw`/ (230 C), ma la cosa più elegante è l’ aspetto dell’erba- to; th`~ pova~- disposta in un dolce declivio. Essa è cresciuta in modo che vi si possa appoggiare la testa.
Quindi Socrate ringrazia Fedro che gli ha fatto da guida in quel luogo.
Ma Fedro gli risponde : “tu o mirabile Socrate, sembri un tipo stranissimo- ajtopwvtatov~ tis faivnh/ (230C) in quanto pari un forestiero condotto da una guida, non uno del luogo. Tu non esci dalla città neppure per recarti fuori le mura- exw teivcou~- 230 D.
Socrate allora gli chiede scusa per la sua filomaqiva che lo trattiene in città. Egli ama imparare dunque, e impara dagli uomini, poiché la sua sapienza è sapienza umana- ajnqrwpivnh sofiva- come dice difendendosi nell’Apologia scritta da Platone (20d).
Confrontabili con questo tipo di umanesimo più attento all’uomo che alla natura sono alcune parole attribuite da Plutarco al capo politico di Atene che pure il personaggio Socrate del Gorgia di Platone critica aspramente.
Durante le estati della fase archidamica (431-421) della guerra del Peloponneso molti ateniesi volevano combattere contro gli Spartani invasori per difendere la campagna e i raccolti dalla devastazione bellica, ma Pericle cercava di calmarli dicendo che gli alberi potati e tagliati ricrescono in breve tempo-levgwn wJ" devndra me;n tmhqevnta kai; kopevnta fuvetai tacevw"- mentre gli uomini una volta morti non è facile che ci siano più (Plutarco, Vita di Pericle, 33, 5).
Molto attento alla vita delle piante è invece Trigeo il vignaiolo della Pace (421) di Aristofane come pure Diceopoli della commedia Acarnesi (425). Sono contadini che soffono prima di tutto le devastazione dei campi causate dagli opliti spartani.
Torneremo sulla natura celebrata dai lirici dei secoli VII e VI e dalla poesia ellenistica
Bologna 6 aprile 204 giovanni ghiselli.
p. s.
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