Presento post insieme i post che il computer non mi ha pubblicato in
questi ultimi giorni
L’umanesimo quale amore per la natura
Teocrito 315-260
I codici conservano 30 carmi di Teocrito con
il nome di eijduvllia, in esametri,
più il carme figurato Su'rigx, zampogna, e 22
epigrammi presenti anche nell'Antologia
Palatina.
Alcuni sono propriamente
bucolici, altri di ambientazione urbana, altri encomiastici (per Tolomeo
Filadelfo e la moglie Arsinoe, per Ierone II di Siracusa
Sono
prevalentemente in dialetto dorico. Il
metro è l’esametro
E’ la poesia bucolica che ha
procurato la fama a Teocrito.
Vediamo il VII
idillio chiamato Le Talisie.
Qaluvsia
festa
delle primizie e della mietitura-qaluv~ abbondante, fiorente, qavllw fiorisco.
Simichìda l’io narrante il Trovatore-alter ego di
Teocrito- incontra il capraio Licìda che aveva un gevlw~ un sorriso sulle labbra e gli chiede dove vada in quell’ora
meridiana aJnika
dh; kai; sau'ro~ ejn aiJmasiai`si
kaqeuvdei , 22- la lucertola dorme nei muriccioli di pietra.
Teocrito nacque a Siracusa
(cfr. idillio XVIII, La conocchia) e
questi muretti di pietre sovrapposte senz’altro nella zona si trovano ancora.
La natura Di Teocrito è estiva e mediterranea .
Il motivo della lucertola
verrà ripreso da Virgilio che presenta una natura meno assolata e luminosa.
La Bucolica
I racconta l’esproprio di un
contadino in favore di un veterano della guerra civile , mentre la proprietà di
Virgilio viene salvata da Ottaviano.
L’ultimo verso (83) descrive il calare del sole sulla campagna e
sulla tristezza dell’ espropriato: “maioresque
cadunt altis de montibus umbrae”.
L’amore è tormentoso
Nella Bucolica II il pastore
Coridone ama il bell'Alessi. Formosum pastor Corydon ardebat Alexin , 1. Non è
contraccambiato e ne soffre
O crudelis Alexi, nihil mea carmina curas?
Nil nostri miserere? Mori me denique coges (7).
Coridone non ha tregua:
Viceversa le greggi e le
lucertole possono riposare
Nunc etiam pecudes umbras et frigoria captant
Nunc
viridīs etiam occultant spineta lacertos (9) ora i rovi spinosi nascondono anche le verdi
lucertole.
Torniamo al VII idillio di
Teocrito
Simichìda e Licìda, il capraio, vanno insieme alla festa
rurale della mietitura e si propongono
di cantare insieme i canti dei pastori:"boukoliasdwvmesqa"(35-36). –boukoliavzw-
Licida propone una canzoncina
(meluvdrion, 50) che rivela l'aspirazione a un carme di
dimensioni modeste e un'affinità con la poetica di Callimaco (310-235) : la
vittima sacrificale sia pure opima, ma la poesia e la Musa devono essere snelle
e raffinate.
E infatti quando per la prima volta misi la tavoletta
sulle mie ginocchia, mi disse Apollo Licio:
"bisogna, poeta, la vittima nutrire il più
possibile
grassa, ma la Musa, o caro, deve essere fine;
inoltre anche questo io ti prescrivo: di calcare le
strade
che i carri non battono, di non spingere il cocchio
sulle stesse orme degli altri né su una strada larga, ma per sentieri
non calpestati, anche se ti spingerai per una via
piuttosto stretta" (Aitia- 21-28) .
Di nuovo le Talisie: il canto di Licida
comincia con un protreptikovn per l'amato (canto esortativo) e continua con una
serenata d'amore omosessuale.
Simichida-Teocrito dice che può
reggere il confronto con Licìda che pure è il miglior suonatore di zampogna tra
pastori e mietitori.
Anche io sono una sonora bocca delle Muse (kai; ga;r ejgw; Moi'san kapuro;n
stovma, v. 37).
Mi considerano ottimo
cantore, ma se contendo con i poeti Asclepiade e Filita, sono come la rana con
i grilli. Mentre Simichida diceva così però rideva.
Allora Licida disse: ti do il
mio bastone poiché sei un virgulto di Zeus tutto forgiato sulla verità. Io odio
l’architetto che vuole costruire una casa alta come l’Oromedonte e i cucùli
delle Muse che fanno cucù (kokkuvzonte~, 48) affannandosi
invano di imitare l’aedo di Chio cioè Omero.
Di nuovo la poetica della
brevità del carme
Quindi Simichida canta altri
amori omosessuali
Ha fatto starnutire gli
Amori. Arato arde fin nelle ossa per amore di un ragazzo. Il poeta chiede a Pan
di compiacere Arato. Se Pan non lo farà, sia maledetto.
Dunque gli Amori simili a
pomi rosseggianti devono colpire con le frecce l’amabile Filino che non ha
pietà di Arato. Filino è bello ma è già più maturo di un pomo e le donne
dicono: ahimé, Filino, il tuo bel fiore cade (to; toi kalo;n a[nqo~ ajporrei') 121. Smettiamo di stare davanti alla porta chiusa di
Filino. A noi stia a cuore la tranquillità (ajsuciva). E’
l’ideale del saggio teorizzato dai filosofi ellenistici portato nel campo
dell’amore.
Finito il canto,
Simichida-Teocrito riceve l’investitura: Licida gli diede lagwbovlon il bastone per colpire le lepri, come dono ospitale
da parte delle Muse.
Quindi Simichida va alla
fattoria di Frasidamo dove si sdraia con altri.
Sul capo stormivano ai[geiroi pioppi
neri e ptelevai,
olmi. Risuonava l’acqua sacra che sgorgava dall’antro delle ninfe; sui rami ombrosi le cicale bruciate dal sole- aijqalivwne~ tevttige~- frinivano senza riposo e un
gracidio gorgogliava da lontano (thlovqen) nelle fitte spine dei rovi ( 139-140)
Cfr. Leopardi: “allora-che, tacito, seduto in verde zolla,-delle sere io
solea passar gran parte-mirando il cielo, ed
ascoltando il canto-della rana rimota alla campagna!”[1].
Cfr. anche D’Annunzio: “La
figlia dell’aria[2]-è
muta; ma la figlia-del limo lontana,-la
rana-canta nell’ombra più fonda-chi sa dove, chi sa dove!”[3].
Cantavano allodole e
cardellini e[stene
trugwvn, gemeva la tortora, volteggiavano
intorno alle fonti veloci le api- xouqai; mevlissai
143.
Dappertutto un profumo di
pingue raccolto, dappertutto un profumo di frutti durante tutto l’anno
o[cnai, pere, ai nostri piedi, ai nostri fianchi ma'la le mele rotolavano in gran quantità e rami carichi di
susine si piegavano fino a terra (144-146).
Cfr. Odissea VII, 120-121 il giardino della reggia di Arete: o[gcnh ejp j o[gcnh/ ghravskei,
mh'lon d j ejpi; mhvlw/- aujta;r ejpi; stafulh'/
stafulhv, su'kon d j ejpi; suvkw/”. Pera
su pera, mela su mela, grappolo su grappolo fico su fico.
Ogni albero fruttificava ejpethvsio~ 118 in ogni stagione
Cfr. Tasso, Gerusalemme liberata, XVI, 11: “Nel
tronco istesso e tra l’istessa foglia-sovra il nascente fico invecchia il
fico”. E’ il giardino di Armida.
Poi il canto del vino.
Simichida chiede alle ninfe Castalidi (della Castalia di Delfi) che abitano i
gioghi del Parnaso se quel vino è lo stesso che Eracle offrì a Chirone
nell’antro roccioso di Folo. Oppure quello che fece danzare Polifemo, il
pastore dell’Anàpo, un fiume della Sicilia, presso Siracusa cfr. Tucidide VI,
96, 3.
E’ il vino ismarico,
ricordato da Archiloco, quello che Màrone di Ismaro, sacerdote di Apollo, donò
a Odisseo (Odissea, IX, 40)
Snell.
XVI L'Arcadia.
Quello di Teocrito non è un mondo patetico come quello di Virgilio ma
ironico-realistico. Teocrito rappresenta questi pastori in forma
scherzosa. Lo scherzo deriva dalla consapevole dissonanza tra l'elemento
popolare e quello letterario raffinato
Virgilio
presenta un Teocrito rifatto in termini sentimentali e nello stesso tempo dà
maggiore importanza all'elemento storico (cfr.
La più matura delle sue
poesie è le Talisie con la gara
poetica tra Licìda e Simichìda (Teocrito). Ci sono riferimenti colti,
per cui i canti sono apprezzabili solo da chi possiede una solida cultura
letteraria. Rimane comunque il sentimento della natura con le cicale che, ebbre
di sole, strillano nel denso fogliame a non finire.
Il mito della natura, scrive Pasolini, è un “mito antihegeliano e
antidialettico , perché la natura non conosce i “superamenti”. Ogni cosa in
essa si giustappone e coesiste…la “mitizzazione” della natura implica la
“mitizzazione” della vita quale era concepita dall’uomo prima dell’era
industriale e tecnologica, all’epoca in cui la nostra civiltà si organizzava
intorno ai modi di produzione agraria ”[4].
Nel X idillio, i Mietitori, c’è Milone, l’ agricola bonus come Aristeo
che obbedisce alla madre, poi c’è Buceo che è preso da dementia come Orfeo che nella
IV Georgica, disobbedisce agli ordini
di Plutone e Proserpina.
Milone è infaticabile, mentre
Buceo, innamorato da dieci giorni, è svogliato.
Milone avverte Buceo che la
ragazza da lui amata è brutta, una locusta, ed è dai facili costumi.
Ma dice Buceo: non solo Pluto
è cieco (tuflov~, cfr. Pluto di Aristofane, 90-92) bensì anche Eros, oltre essere dissennato.
Milone consiglia a Buceo di
alzare un canto : lavorerai meglio.
Buceo canta: “ Bombica è
incantevole- Bombuvka
carivessa 26, la chiamano secca e bruciata dal sole (ijscna;n aJliovkauston), ma per me ha
l’incarnato di miele. Cfr. Lucrezio IV
1160 nigra melǐchrus est.
Anche la viola e il giacinto
sono scuri. I tuoi piedi sono astragali (ossicini).
Poi canta Milone una canzone
in lode dell’agricoltura e del lavoro che evita il sonno. Esorta i mietitori a
cominciare quando si sveglia l’allodola e a continuare fino a quando va a
dormire, senza smettere durante l’ora canicolare (to; kau'ma).
Hegel nell’Estetica scrive che l’idillio “nel senso moderno del termine”
raffigura l’uomo nella sua innocenza. Ma
“fa astrazione da ogni più profondo interesse universale della vita spirituale
ed etica”
Vivere
innocentemente significa pensare solo a mangiare e bere “e anche ciò solo con
cibi e bevande molto semplici, ad esempio latte di capra o di pecora, solo
eccezionalmente di mucca; inoltre erbe, radici, g6hiande, frutti, formaggi,
mentre il pane, credo, non è già più da considerare molto idillico; la carne
invece dovrebbe essere già permessa, perché i pastori e le pastorelle idillici
non vorranno sacrificare certo tutto il gregge agli dèi”.
La loro occupazione consiste nel
sorvegliare, insieme al fedele cane, per tutto il santo giorno l’amato gregge,
essere pii e mansueti, suonare il flauto e la zampogna oppure canticchiare
qualcosa ma soprattutto amarsi reciprocamente con la massima tenerezza e
innocenza. “Con tutto il sentimentalismo possibile coltivare amorevolmente
sentimenti tali che non disturbino questa condizione di quiete soddisfatta”.
Questo sarebbe l’idillio da Virgilio in avanti
“I Greci
invece, nelle loro raffigurazioni plastiche, ebbero un mondo più gaio: il
corteggio di Bacco, satiri, fauni, che, raggruppati anodinamente intorno a un
dio, si sforzano di elevare la natura animale ad una letizia umana entro una
vitalità e verità interamente diverse da quella pretenziosa innocenza pia e
vuota. Lo stesso nucleo di una concezione viva…è ancora riconoscibile nei
bucolici greci, per es., in Teocrito…Virgilio è già più freddo nelle sue
Egloghe, ma il più noioso è Gessner[5],
al punto che oggi non lo legge più nessuno” Ma ha avuto un certo successo,
soprattutto tra i Francesi, per “il sentimentalismo che sfuggiva il tumulto e
le complicazioni della vita…e l’assenza completa di ogni vero interesse, per
cui furono evitati tutti gli altri rapporti con la nostra cultura che potevano
arrecare turbamento”[6].
Né
Teocrito né Virgilio scrivono per il
popolo, con la prospettiva di un popolo libero e colto che le legge o li
ascolta come facevano Eschilo, Sofocle, Euripide, Erodoto e Tucidide.
I
poeti ellenistici dovevano e volevano piacere ai tiranni.
Il decadere della libertà di
espressione comporta la decadenza della cultura, a partire dalla cultura umana,
l’ajnqrwpivnh
sofiva che stava a cuore agli Ateniesi
fino a Socrate. Nell’età ellenistica abbiamo una poesia che Snell chiama post filosofica.
"Questi
poeti ellenistici erano, per dirla in una parola, post-filosofici, mentre i
poeti arcaici erano pre-filosofici" (…)
Teocrito e il più notevole di
tutti, Callimaco, portarono la poesia a una nuova fioritura. Post-filosofici
sono questi poeti, nel senso che non credono più nella possibilità
di dominare teoreticamente il mondo e nell’esercizio della poesia, a cui
Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano
dall’universale e si rivolgono con amore al particolare”( La cultura greca e le origini del pensiero europeo p.371 e p. 372).
Aggiungo che questa poesia non è soltanto post-
filosofica è pure post-politica se confrontata con le tragedie greche. E pure
post umanistica perché il poeta dipende dal volere del committente: Teocrito
scrive un encomio di Tolomeo e uno di Ierone e pure il mimo cittadino Le Siracusane contiene elogi di Tolomeo
Filadelfo e della regina Arsinoe .
Callimaco rende omaggio alla
regina Berenice
La vicenda del ricciolo sparito era la conclusione
degli Aitia : Callimaco, con grazioso omaggio cortigianesco e
raffinata perizia letteraria, canta l'assunzione in cielo della ciocca di capelli offerta da Berenice perché suo marito, Tolomeo III Evergete,
tornasse salvo e vittorioso da una spedizione militare contro Seleuco II di
Siria (anno 246). Già l'astronomo di corte Conone aveva riconosciuto il
ricciolo sparito dal tempio di Arsinoe Zefirite in una nuova costellazione da
lui scoperta tra l'Orsa maggiore e la Vergine; ebbene il poeta diede il proprio
contributo all'apoteosi della chioma regale con i distici che fanno parlare gli
stessi capelli "incielati". Il testo è troppo mutilo per consentirci
una traduzione letterale; i versi più chiari e interessanti sono quelli con i
quali il ricciolo ricorda la potenza
ineluttabile del ferro che scavò il monte Athos per consentire il passaggio
delle navi di Serse, quindi lamenta la crudeltà di questo metallo trovato dalla
stirpe maledetta dei Calibi[7],
in quanto l'ha staccato dal capo augusto
della regina la cui lontananza è dolorosa più di quanto sia motivo di piacere e
di orgoglio trovarsi tra gli astri.
Virgilio non si vergogna mai
di incensare i suoi protettori: la I
Bucolica racconta la raccomandazione grazie alla quale il poeta ha potuto
salvare i suoi poderi.
“O Meliboee, deus nobis haec otia fecit.
Namque erit ille mihi semper Deus; illius aram
Saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus”
Questo “dio”è Ottaviano.
E meno male che i sacrifici
sull’altare del nume non offrono vittime umane. Lo sviluppo senza progresso già
denunciato da Pasolini si sta coprendo di sangue: sacrifica ogni giorno dei lavoratori al Moloch
del lucro.
Bologna
11 aprile 2024 ore 18, 12 giovanni ghiselli
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La nobile competizione benefica per la
città.
“La nobile gara benefica per la
città,/chiedo al dio di non/interromperla mai” prega il coro di vecchi tebani
nel secondo stasimo dell’Edipo re di Sofocle (vv. 879-881)
Questa nobile gara benefica per la polis- to; d’ e[con- povlei pavlaisma- è la competizione
politica fatta di parole. Quando non c’è la gara di parole politiche restano le
parole retoriche e, soppresse anche queste, la parola che rimane è quella delle
armi.
Bologna 12 aprile 2024 ore 9, 58 giovanni
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Vicende esemplari
Si dice che l’eroe tragico
combatte con il destino. Non si dice tutto però. Infatti la soluzione avviene
quando il protagonista della tragedia capisce che il destino contro il quale
lotta è il suo stesso fato, il proprio incoercibile fato. E lo accetta smettendo
di lottare contro se stesso.
Tale è la conclusione dell’Edipo a Colono di Sofocle.
Lo stesso esito troviamo nel romanzo di Buzzati Il deserto dei Tartari.
Esemplari anche per noi sono
queste vicende.
Bologna 12 aprile 2024 ore
10, 27 giovanni ghiselli
La fine di Nerone
Vivo turpiter, deformiter quasi come Nerone e anche io, come l’imperatore
prossimo a uccidersi, dico ouj prevpei moi, ouj prevpei,
non si addice a me, non si addice. Che cosa? Il fatto che il mio computer non
fa passare i post nel blog e devo bussare alla porta dei vicini- ora questo ora
quello- per pubblicare.
Per non disperare mi
dico in dialetto “chiedi a quel malèè, prova da cl’aaltré!”
Pregate per me prima che
chieda l’aiuto di Epafrodito.
Disperato
il figlio di Agrippina, il nipote dell’eroe Germanico, citò un verso dell’Iliade
{Ippwn m j wjkupovdwn ajmfi; ktuvpo~ ou[ata bavllei (X, 535), il fragore di cavalli dai
piedi veloci, mi percuote le orecchie.
Cfr. ktuvphse me;n Zeuv~ dell’Edipo a Colono di Sofocle (1606) e il tuono nell’ultomo capitolo del romanzo La montagna incantata di T. Mann.
Quindi
Nerone ferrum iugulo adegit iuvante Epafphrodito a libellis
(Svetonio, Vita, 49) si cacciò il ferro in gola aiutato da Epafrodito segretario addetto alle suppliche.
Prometto
a chi mi vuole bene che non lo farò. Questo infatti è un esempio negativo
Bologna
12 aprile 2024 ore 11, 06 giovanni ghiselli
Ifigenia CXXVII
La bionda mi salutò alzando
la mano sinistra. Allora mi alzai e contraccambiai il saluto ma non la seguìi.
La ragazza si mosse dalla parte del suo gruppo
e si unì a loro: si dirigevano verso la fermata del tram per andare a
bere e ascoltare musica in un locale del centro,
Non risposi dunque al
richiamo della tedesca se non con un cenno di cortesia tra compagni di scuola,
quindi non la raggiunsi e non la invitai
a passare a fare lìamore con me nell’automobile come avevo fatto
sbrigativamente con Nefertiti tre anni prima.
Così realizzavo la fantasticheria della notte
remota successiva al dì nel quale avevo scritto diverse pagine della tesi di
laurea.
A una possibile avventura con una straniera, a
un altro peregrinus amor e concubitus
vagus da aggiungere alla collezione, avevo preferito una ancora possibile
relazione di maggiore durata e impegno con una donna italiana bruna bruna.
Poco più tardi salìi in
camera: sempre la stessa degli anni passati quando scherzavo giovanilmente con gli amici e con le
amanti: la numero 4 del III piano del II collegio. Sedetti nello studio che
divideva le due parti.
Scrissi a Ifigenia facendole
sapere che soffrivo la mancanza di lei e che lì a Debrecen dove pur non c’era carenza
di persone simpatiche e mi accompagnavano ricordi anche belli, costitutivi di
parte non piccola della mia identità, mi
sentivo dimezzato senza di lei, però grazie a tale dolore ero del tutto sicuro
di amarla. Aggiunsi che quella sera non mi sarei unito ad alcuna brigata più o
meno lieta, ma sarei rimasto solo per pensare a lei, la mia compagna ricca di
mito e di poesia.
.
Il giorno seguente, 25 luglio
1978, lo passai in solitudine fino alle 10 di sera. Lessi e studiai
“Ifigenia, tesoro, tu non sei
qui, ma il ricordo del tuo sorriso abbronzato e festivo decora tutte le ore
della mia giornata solitaria, studiosa e riflessiva. Ricordo il tuo splendido
corpo che, svestito a festa, illuminava le stanze di casa mia, cupe altrimenti
nella tetra atmosfera della nostra città dove lunghi sono gli inverni; ricordo
le tue gonne che, quando mi correvi
incontro, si sollevavano al vento di primavera profumandolo con l’odore santo
della tua pelle; ricordo come il tuo corpo brunito, all’inizio di questa
stagione, faceva gioire l’aria marina quando andavamo sul moscone, al largo
della spiaggia di Pesaro per fare l’amore, e le farfalle ci danzavano intorno i
loro valzer pieni di armonia. Io ti amo,
Ifigenia, ti amo. Questi ricordi mi mantengono vivo, emozionato, attivo anche
nella tua assenza pur dolorosa, e il tuo sorriso illumina, riempie di vita il
mio cervello che altrimenti si stancherebbe nello studio della storia
dell’imperialismo romano e di Proust, sensibilissimo e raffinato ma spesso
privo di potenza verbale e di capacità sintetica. Ho con me la copia del volume
L’ombra delle fanciulle in fiore che
mi regalasti, e non manco mai di accarezzare, odorare, baciare la pagina sacra
con le parole della tua dedica ricca di amore. Così il profumo di te, portato
dal vento dell’ovest, mi ispira, mi spinge a correre lo stadio più di una volta
al giorno con tutte le forze, a cronometro, e mentre spremo con gioia i liquidi
del mio corpo agonista, mi sembra di avere un orgasmo con te.
La tua presenza in carne
deliziosa e ossa modellate con arte, la tua parola intuitiva, poetica, amore,
mi manca a tal punto che, quando l’effluvio odoroso di te, portato dal vento
occidentale, si attenuerà, allora io, invece di andare allo stadio, situato
dalla parte nord orientale dei selvosi Carpazi, andrò verso la parte
occidentale di Budapest e di Hortobágy, dov’è la grande pianura ricca di
girasoli: là correrò, anelando, mentre i soffi dell’aria odorosa di te mi
benediranno e mi renderanno beato con il tuo aroma tutto intero prima che
questo sia stato filtrato dalle avide, invide foglie assorbenti della grande
foresta di Debrecen. Io allora continuerò a inebriarmi dell’essenza
preziosa esalata dalla tua carne
divina.
Ciao. Come vedi, ti penso
Tuo
gianni”
Tali iperboli barocche
generava la mia smania amorosa.
Bologna 12 aprile 2024 ore 19, 22 giovanni ghiselli
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Ifigenia CXXVIII. La rinuncia
senza ragione del perfetto imbecille
Fino alle 10 di sera passai le ore del 25 luglio in funzione della
scuola e dell’amante italiana, studiando, correndo, nuotando, abbronzandoni e
salmodiando tanti Osanna piuttosto
che gridare Evoè danzando con Dioniso
e le sue menadi dai capelli fluttuanti nel vento.
Suonata la ventiduesima ora
del giorno, decisi di uscire con l’intenzione non equivoca di andare all’Aranybika per bere un bicchiere di vino,
uno solo. Poi sarei tornato e avrei studiato fino all’una di notte. Dopo avere
gioito innocentemente del “Sangue di toro di Eger”, avrei versato altro sangue
mio nell’impegno dello studio e della
scrittura, sempre sperando che mi
apparisse l’immagine di Ifigenia la bella, la buona, la santa.
La mia follia era quasi completa.
Mi incamminai dunque tacito e
solo lungo la strada compresa tra il prato delle abbronzature, dell’antica
attesa di Helena[8],
di Kaisa, di Päivi, a destra, e, sulla sinistra il collegio delle baldorie
ancora più antiche[9],
tutto terminato con l’ascesi appena compiuta.
Un’ascesi
da anacoreta invasato dal demone del perbenismo sessuale piuttosto
che un esercizio da studioso amante dei
classici greci e latini. E delle donne.
Sul prato c’erano diversi
giovani: tra gli altri la bionda ninfa salutata la sera precedente. Quando mi vide passare, si separò dal gruppo,
mi raggiunse e mi chiese se volevo andare a bere del vino con lei.
Rimasi un attimo incerto, ci
pensai un momento e decisi che non dovevo superare la giusta misura: quel
giorno infatti non avevo sacrificato un ariete e una pecora nera come aveva
fatto Odisseo per vitalizzare con il loro sangue le teste svigorite dei morti[10],
bensì impiegato diverse ore del tempo oramai quasi estremo della mia gioventù a
un idolo che probabilmente non era santo del tutto.
Dopo le tante
ore di studio, di corse, nuotate,
riflessioni, sempre da solo, mi ero conquistato il diritto di concedermi
un poco di compagnia, di svago, di deconcentrazione da me stesso, da Ifigenia e
dal nostro rapporto non garantito.
Si apriva uno spiraglio per
l’ equivocazione gesuitica.
Ma si richiuse presto per
colpa mia. Una colpa dell’intelligenza, un errore erotico, efferato quasi
quanto un crimine. Non c’è cosa più
amara della stupidità.
Pensai, del resto senza sbagliarmi, che la
bionda belloccia non doveva essere una persona triviale, se non altro per il
fatto che aveva visto qualche cosa di strano-a[topon-
di buono e forse perfino di bello, nella
mia persona non ordinaria. Anche Ifigenia del resto aveva detto che, salva la
fedeltà dovuta e promessa, la sera sarebbe uscita in compagnia se avesse
incontrato persone interessanti. Neppure lei sdegnava il vino, vero “equivocator with lechery”[11].
La bionda che mi aveva invitato si chiamava Silvia,, o chiama se vive ancora non solo nel mio rimpianto, aveva venticinque anni, era tedesca, di Berlino est, ma da tempo viveva e lavorava quale interprete e traduttrice a Budapest dove si era sposata e poi separata da un certo Virág del quale comunque conservava il cognome poiché le piaceva.
Virág è una parola ungherese che significa “fiore”.
“Virág, fiore, Bloom, come l’Ulisse ebreo ungherese
irlandesizzato di Joyce”, pensò subito la mia mente avvezza a vedere le
persone, le cose e il mondo intero nella lunga prospettiva formata dalle
letture dei classici antichi e moderni.
La vita imita l’arte. La vita è allieva dell’arte, avevo imparato da Oscar Wilde.
Forse più avanti quella Silvia tentatrice mi avrebbe suggerito delle corrispondenze tra quanto di bello ricordavo dalle mie letture e quello che potevamo fare di bello e piacevole io e lei nella nostra vita mortale.
Intanto ci avviammo verso l’Obester, un borozó o vineria, insomma una bettola simpatica, antica d’aspetto: una specie di grotta adibita a cantina dove si potevano bere diversi vini ungheresi, compreso l’egribikavér che al fiuto odorava di buono e mi faceva tornare in mente le finniche mie amanti e amate quanto nessuna dopo di loro.
Mentre ricordavo qugli aromi e guardavo la bionda accingendomi a un brindisi propiziatorio con lei, non sapevo ancora se durante la nostra prima serata avrei cercato di stuzzicare le nostre libidini per poi sfogare la mia sensualità bestiale e pure divina, o se sarei tornato da solo nel letto casto dove avrei dedicato la dura rinuncia alla mia Ifigenia che magari mi era altrettanto fedele.
Dopo l’immancabile prosit ci mettemmo a parlare, in inglese.
Si poteva farlo con agio siccome non c’erano violini, né cembali, né, tanto meno, mostruosi apparecchi gracchianti né altri rumori d’inferno che servono a sostituire il silenzio o la chiacchiera vuota delle teste vuote di tutto.
La bionda era meno snella e meno bella di Ifigenia la
bella, ma anche molto meno povera di parole e idee interessanti. Aveva infatti
una formazione assai più consistente di quella
di colei che, forse, chissà, ancora mi aspettava in Italia. Insomma con
la tedesca bionda avevo più argomenti di interesse comune, e Afrodite poteva farci giocare, o duellare, con le
parole, in vista di un letto o di un prato illuminato dai nostri sorrisi,
scaldato dai reciproci, frenetici abbracci,
e reso piacevolmente sonoro da
tripudi lieti, pieni di gratitudine al destino santo che ci aveva fatto
incontrare quella sera d’estate quando eravamo giovani, lieti e ancora capaci
di fare tante cose più o meno belle. Passai un paio di ore che ricordo bene e
rimpiango dandomi del perfetto imbecille per non avere acciuffato l’occasione
di imparare dell’altro da una femmina umana compiacente e intelligente, invece
di macerarmi per un mese intero aspettando una lettera che non sarebbe
arrivata mai.
Qualche cosa comunque ho imparato: a non rifiutare un
bene presente per rimanere immacolato nell’intesa di un bene tanto malsicuro
che non sarebbe arrivato mai.
Bologna 13 aprile 2024 ore 10, 44 giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Le ricordanze 9-13.
[2] La cicala
[3] La pioggia nel
pineto, 89-95.
[4] Saggi sulla politica e sulla società, p. 1461.
[5] Zurigo q730- 1788. Scrisse in tedesco, Idilli, usando Teocroto come modello.
[6] Hegel, Estetica,
pp. 1445-1446.
[7] Cfr. la maledizione del ferro fatta da Erodoto (I,
68, 4): il ferro è stato inventato per il male dell'uomo :"
ejpi; kakw'/
ajnqrwvpou sivdhro" ajneuvrhtai".
[8] Cfr. La storia di Helena suddivisa in diversi capitoli , una storia d’amore
bella assai.
[9] Le prime risalgono al 1966 cfr. il capitolo L’arrivo a Debrecen
[10] Cfr, Odissea, XI; 49 ajmenhna;
kavrhna.
[11] Equivocatore
della lussuria, ne crea gli equivoci. Cfr. Shakespeare, Macbeth, II, 3
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