Callimaco nacque intorno al 310 a Cirene la città fondata da Batto del quale il poeta si dirà discendente. Andò presto a vivere ad Alessandria dove riuscì a entrare nella corte di Tolomeo II Filadelfo (283-246) prima, e successivamente in quella Tolomeo III Evergete (246-221) che aveva sposato Berenice, di Cirene anche lei.
Callimaco Morì verso il 240.
Questo poeta in alcuni versi programmatici raccomanda la brevità o sottigliezza delle composizioni, ma questo canone, ripreso da Catullo (95) e dai poetae novi di Roma, non significa che l'autore debba scrivere poco, bensì evitare i lunghi poemi epici sul tipo delle Argonautiche del suo discepolo infedele Apollonio Rodio, o della Tebaide del ridondante Antimaco (V-IV) menzionato negativamente nel carme 95 di Catullo.
Calimaco in effetti produsse molto e in parecchi generi: dalle Tavole Pivnake~ , un catalogo bibliotecario a studi di carattere scientifico o erudito, a versi di vario metro, distici, esametri, giambi.
Di tutto questo ci sono arrivati 6 Inni agli dèi,
una sessantina di Epigrammi ,
13 Giambi ;
inoltre centinaia di frammenti degli Aitia (le origini), un poema eziologico, che cioé cerca, appunto, origini e cause,
e frammenti dell'Ecale un epillio o poemetto che racconta l'impresa di Teseo contro il toro di Maratona osservata da un punto di vista non eroico ma umile e agreste.
Caratteristiche della poesia callimachea sono, oltre la brevità, l'erudizione, talora soffocante, come per intenderci in certi carmina docta dei suoi emuli latini- Catullo e Properzio, talora lieve e assimilata bene, ma sempre presente, e non è inesatto definire "di seconda mano" i suoi versi: tanto più che egli stesso affermava:"ajmavrturon oujde;n ajeivdw, non canto nulla che non sia testimoniato (fr. 612 Pfeiffer).
Altre caratteristiche sono la cura formale e l'ironia con la quale l'autore cerca di prendere distanza dai sentimenti e dalle passioni descritte per non cadere nel patetico, ritenuto antiquato e di cattivo gusto.
Sentiamo Bruno Snell: "cultura è per lui quella vasta forma del ricordo che non solo sa mettere spiritosamente in contatto cose fra loro distanti e divertire con sorprendenti trovate l'ascoltatore, ma che abbraccia anche, con largo sguardo, le varie parvenze della vita" (Il giocoso in Callimaco , La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 382 .),
.
Partiamo dagli Aitia , il poema in distici, lungo (constava di 4000 versi divisi in 4 libri) ma non costituito da un tema unico-
“Mi disse Apollo Licio:
"bisogna, poeta, la vittima nutrire il più possibile
grassa, ma la Musa, o caro, deve essere fine;
inoltre anche questo io ti prescrivo: di calcare le strade25
che i carri non battono, di non spingere il cocchio sulle stesse orme degli altri né su una strada larga, ma per sentieri
non calpestati, anche se ti spingerai per una via piuttosto stretta".
Prima regola dunque : la poesia deve essere breve. Il fr. 465 Pfeiffer dice:"Kallivmaco" oJ grammatiko;" to; mevga biblivon i[son e[legen ei\nai tw'/ megavlw/ kakw'/", il filologo Callimaco sosteneva che un grande libro è uguale a un grande malanno.
Il tema dell'invidia torna nell' Inno II ad Apollo, alcuni esametri (105-112) del quale fanno:
"L' invidia disse di nascosto agli orecchi di Apollo:
" non ammiro il cantore che non canta temi grandi quanto il mare".
Apollo respinse l'invidia con il piede e parlò così:
"grande è la corrente del fiume di Assiria, ma molta
lordura della terra e molta spazzatura trascina sull'acqua.
Le api portano l'acqua a Demetra non da ogni parte
ma quella che pura e incontaminata zampilla
da sacra sorgente piccola vena, fiore sublime.
Un'immagine del genere troviamo nel Cimbelino di Shakespeare:"I mari sovrani generano mostri; i poveri tributari, i fiumi, danno invece alla nostra mensa pesci squisiti" (IV, 2).
Ebbene il "sottilizzarsi" della Musa risale a Euripide secondo Aristofane che nelle Rane (vv. 941-942) gli fa dire, in polemica con la magniloquenza di Eschilo:" i[scnana me;n prwvtiston aujth;n kai; to; bavro" ajfei'lon-ejpullivoi" kai; peripavtoi"" io prima di tutto resi sottile l'arte e le tolsi pesantezza con giri di parolette brevi.
In un famoso epigramma (A. P. XII, 43) Callimaco ribadisce questa concezione non popolare dell'arte:
"Odio il poema ciclico,- ejcqaivrw to; poivhma to; kuklukovn- né mi piace
la via qualunque che porta molti qua e là.
Detesto anche l'amante che vaga, né bevo
dalla fonte comune- oujd j ajpo; krhvnh~ pivnw-: tutto quanto è popolare mi ripugna- sikcaivnw pavnta ta; dhmovsia-
Lisania, tu bello sì sei bello suv de; naivci kalo;~ kalov~-, ma prima che lo ripeta
con chiarezza l'eco, uno dice-altri lo possiede- ajlla; a[llo~ e[cei".
Una dichiarazione di poetica che viene ripresa dai latini: oltre Catullo, Lucrezio il quale nel primo libro del De rerum natura (I, 926-928) scrive:
"avia Pieridum peragro loca nullius ante
trita solo. Iuvat integros accedere fontis
atque haurire, iuvatque novos decerpere flores ", percorro i luoghi impervi delle muse mai calpestati prima dal piede di alcuno. Mi piace avvicinarmi alle fonti intatte e attingere, mi piace cogliere fiori nuovi.
Virgilio nella Georgica III (291-292) scrive:
"sed me Parnasi deserta per ardua dulcis/raptat amor ", ma un dolce amore mi rapisce attraverso le aspre solitudini del Parnaso.
La vicenda del ricciolo sparito era la conclusione degli Aitia : Callimaco, con grazioso omaggio cortigianesco e raffinata perizia letteraria, canta l'assunzione in cielo della ciocca di capelli offerta da Berenice perché suo marito, Tolomeo III Evergete, tornasse salvo e vittorioso da una spedizione militare contro Seleuco II di Siria (anno 246).
Conone l’astronomo di corte riconobbe la chioma incielata in una stella; il ricciolo comunque dice alla regina che ha lasciato il suo capo contro la propria volontà.
Anche Catullo nel carme 66 fa parlare la capigliatura (caesaries ) con note di rimpianto:"invita, o regina, tuo de vertice cessi ,/invita ", contro voglia o regina mi sono allontanata dal tuo capo, contro voglia, le fa dire, con un verso (39) che verrà in gran parte utilizzato anche da Virgilio (Eneide , VI, 460) a proposito della partenza quasi coatta di Enea dal lido cartaginese:"invitus, regina, tuo de litore cessi ", contro voglia o regina mi allontanai dalla tua costa.
Nell'episodio di Aconzio e Cidippe , una famosissima storia d'amore compresa nel terzo libro degli Aitia, poi imitata da Ovidio nelle Heroides (XXI lettera: Cidippe ad Aconzio) il poeta di Cirene afferma che l'ampiezza e la varietà del conoscere è un bene soltanto se conferisce a chi lo possiede e lo usa la capacità di padroneggiare la lingua:
" il molto sapere è un grave male, per chiunque non è padrone
della lingua: è proprio come per un bambino avere un coltello"(fr.75 Pf, vv. 8-9).
Il sapere non è sapienza è un celebre verso delle Baccanti :"to; sofo;n d j ouj sofiva"(395).
Questo racconto è il mito della nascita delle scritte pubblicitarie.
Lo fa notare Bettini quando afferma che "anche i pubblicitari sono degli Aconzi"[1]. Il giovane Aconzio obbligò Cidippe, sul punto di maritarsi con un altro, a sposare lui scrivendo delle parole: "La scrittura di Aconzio è il seme di tutte le scritture astute, e l'unico modo per sottrarsi alla sua trappola sarebbe quello di non leggerla. Ma è possibile?"[2].
Indubbiamente a Callimaco l'argomento e il genere letterario interessano meno della forma che deve dare una giustificazione estetica.
La trama infatti può essere di ambientazione cortigiana come abbiamo visto, ma anche semplice e umile quale troviamo nell'epillio in esametri Ecale dove si racconta come Teseo, la notte prima della lotta contro il toro di Maratona venne ospitato dalla vecchina Ecale in una casetta rustica con cibo campagnolo.
Anche questo epillio includeva un aition (origine), in quanto Teseo al ritorno dallo scontro con il toro trovava la vecchietta morta e istituiva in suo onore le Ecalesie, gare di corsa, poi fondava il santuario di Zeus Ecalio.
Un'imitazione di questo poemetto si trova nell'episodio delle Metamorfosi di Ovidio (VIII, 625-723) dove i vecchi Filemone e Bauci offroni ospitalità a Giove e Mercurio nella loro capanna. Leopardi utilizza un’espressione dell’Ecale (fr. 74, 26-27): a[xwn-tetrigw;~ uJp j a[maxan (l’asse che stride sotto ei carro-e sveglia chi abita sulla strada)
in La quiete dopo la tempesta: “il carro stride-del passeggier che il suo cammin ripiglia” (23-24)
Un'anticipazione dell’ interesse per la vita degli anziani umili si trova nell'Ifigenia in Aulide di Euripide (del 405) quando il grande capo Agamennone dice a un vecchio servitore :"Ti invidio, vecchio,/invidio tra gli uomini chi passa/una vita senza pericoli, ignoto, oscuro;/quelli che vivono tra gli onori li invidio meno"(vv. 17-19). Questi versi, pur poco curati formalmente, prefigurano già il "vivi appartato" di Epicuro e in generale il disimpegno politico dell'intellettuale nella civiltà ellenistica.
Del resto l'invidia del potente per l'umile si ritrova parecchi secoli più tardi in Guerra e Pace di Tolstoj :"-Discutiamo pure-, disse il principe Andrei a Pierre.-Tu parli di scuole-, continuò, e piegava un dito.-Parli di istruzione, eccetera. Cioè vuoi togliere lui,-disse, indicando un contadino che passava davanti a loro levandosi il berretto-, dalla sua condizione d'animale e renderlo consapevole di esigenze morali, mentre a me sembra che l'unica felicità possibile sia la felicità animale...Io lo invidio e tu vuoi farlo diventare come me ma senza dargliene i mezzi. Inoltre tu ti proponi di alleggerire il loro lavoro. Ma, secondo me, per lui la fatica fisica è una necessità, una condizione della sua esistenza, né più né meno come per te e per me lo è il lavoro mentale. Tu non puoi non pensare. Io vado a domire dopo le tre di notte , e ancora mi assalgono dei pensieri (…( Non posso non pensare, così come lui non può non arare e non falciare, altrimenti finisce all’osteria oppure si ammala ( Libro II, 11, pp. 577 e 578) ".
Resta da dire qualche cosa su gli Inni. Sono sei, cinque in esametri e uno, I lavacri di Pallade in distici elegiaci.
I più interessanti sono il sesto, A Demetra , e il terzo,
Ad Artemide . In questo inno il poeta rappresenta la dea bambina che vezzeggia Zeus, mostrando un'altra predilezione dell'arte ellenistica: quella per il mondo infantile in quanto portatore di grazia e di primitività. La piccola sta seduta sulle ginocchia del padre e gli fa:
"Concedimi, papà, di conservare la verginità per sempre,
e di avere molti nomi, poi, perché Febo non venga a gara con me
concedimi frecce e archi, su padre, non ti chiedo una faretra
né un grande arco; per me i Ciclopi subito
fabbricheranno le frecce, per me una cintura flessibile;
ma ti chiedo di cingermi di luce e di una tunica fino al
ginocchio, orlata, per uccidere animali selvatici.
Concedimi sessanta danzatrici oceanine,
tutte di nove anni, tutte ancora bambine senza cintura.
Dammi come ancelle venti ninfe del fiume Amnìso... (vv. 6-15)
Da questi versi si vede un Olimpo non più apollineo, teso a rovesciare il mondo dei Titani e a cosmizzare il caos, ma simile al mondo borghese dove la bambina chiede giocattoli al padre. Il mondo del mito che era stato già attualizzato da Eschilo viene imborghesito da Euripide che per primo scandalizzò il pubblico. Ma al tempo cui siamo arrivati tale procedimento non costituiva più una novità e Callimaco cerca di raggiungere perspicuità ed eccellenza attraverso una forma egregia.
L'Inno VI, A Demetra, narra la punizione di Erisittone che aveva oltraggiato la dea tagliando alberi a lei sacri. Questa lo punì con la bulimia, la fame da bue. Il disgraziato mangiava tutto: pecore, cavalli, compreso quello allevato per la corsa, la mucca di casa e perfino "la gatta che i topi piccini temevano"(v. 110).
Si vede che la storia tragica, e molto attuale poiché non pochi sono quelli che riempiono un vuoto mangiando troppo, prende quella connotazione ironica e graziosa che costituisce l'usuale sigillo callimacheo.
Bologna 18 aprile 2024 ore 11, 29 giovanni ghiselli
p. s.
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