Per l’anno 217 vennero eletti consoli Servilio e Flaminio che aveva sconfitto i Galli. Scipione viene mandato in Spagna come propretore. Ora si rinunzia a combattere Annibale nella valle padana, dove i Celti stavano con lui, o almeno per lui, e la pianura era adatta alle manovre della sua cavalleria. Le colonie di Cremona e Piacenza rimanevano sicure anche senza il presidio delle legioni e poteva essere rifornite dalla via d’acqua del Po. Conveniva attendere Annibale in Italia centrale tra alleati di sicura fedeltà. Annibale scende verso Bologna e le legioni si dispongono tra Arezzo (Flaminio) e Rimini (Servilio).
Da Bologna A. avanza verso Pistoia: deve muoversi per non gravare troppo con le requisizioni gli alleati Celti e per indurre gli Italici a ribellarsi contro Roma. Si muove dunque verso l’Etruria con l’intento di unire a sé, per amore o per forza, anche quel popolo: “ad prima ac dubia signa veris, profectus ex hibernis, in Etruriam ducit, eam quoque gentem, sicut Gallos Liguresque, aut vi aut voluntate adiuncturus (21, 58). Ma nel passare gli Appennini adeo atrox adorta tempestas est, ut Alpium prope foeditatem superaverit, che superò quasi l’orrore delle Alpi. Quindi A. tornò davanti a Piacenza dove ingaggiò con il console Sempronio una battaglia dall’esito incerto. Poi si ritirò in Liguria (Livio, 21, 60).
Comunque gli Appennini vengono superati di nuovo e Annibale procede verso sud saccheggiando. I consoli temono per la loro reputazione danneggiata dai saccheggi impuniti. Flaminio segue Annibale, e Servilio muove verso Roma lungo la Flaminia.
In seguito a prodìgi libros adire decemviri iussi (21, 62) A Roma si conservano il libri sibillini che erano stati venduti al re Tarquinio da una vecchia sconosciuta. I decemviri sacrorum li custodivano nel Campidoglio e li consultavano. Vediamo i prodigi: nel foro Boario un bove era salito fino al terzo piano e si era gettato di lassù, atterrito dal tumulto degli inquilini, et in Piceno lapidibus pluvisse, (sterilità: pietre invece di acqua) in Foro Holitorio, nel mercato delle erbe, infantem semestrem Triumphum clamasse, et in Gallia lupum vigili gladium ex vagina raptum abstulisse, una forma di castrazione della guardia.
Quindi i riti propiziatòri.
Fu ordinato un novemdiale sacrum, una festa propiziatoria, con sacrifici, di nove giorni, per le pietre nel Piceno; si ordinò un lectisternium (banchetto offero ai numi con le immagini degli dèi sui cuscini) alla dea Giovinezza. Et Genio maiores hostiae caesae quinque, si immolarono cinque vittime adulte al Genio della città. Questi riti e queste vittime magna ex parte levaverant religione animos (21, 62), avevano sollevato gli animi dalla (e con la) superstizione.
Excursus sulla religio-deisidaimoniva-
Cfr. Annibale nulla religio (Livio, 21, 4). Mentre Camillo era diligentissimus religionum cultor (Livio, 5, 50, 1).
Siamo da sempre un popolo di bigotti e di mafiosi, e soprattutto di raccomandati (cfr. la I Bucolica di Virgilio).
Nel VI libro Polibio parla anche della religione dei Romani e dice che la concezione degli dèi gli sembra la maggior differenza in meglio che lo Stato romano possieda:"Megivsthn dev moi dokei' diafora;n e[cein to; JRwmaivwn polivteuma pro;" bevltion ejn th'/ peri; qew'n dialhvyei"(VI, 56, 6). Si tratta di una deisidaimoniva (56, 7), di superstizione, che, se altrove può essere oggetto di biasimo, a Roma tiene insieme lo Stato. Presso i Romani questa parte della cultura viene esaltata ("ejktetragwv/dhtai", 8) e introdotta nella vita pubblica e privata, tanto da non lasciarne una maggiore. A Polibio sembra che ciò sia stato fatto "tou' plhvqou" cavrin"(9), per la massa. Se infatti fosse possibile mettere insieme uno Stato di uomini saggi, probabilmente una soluzione del genere non sarebbe necessaria, ma poiché ogni massa è leggera (" ejlafrovn") piena di desideri sregolati ("plh're" ejpiqumiw'n paranovmwn"), di impulsi irrazionali e passioni violente, non resta che trattenerle con oscuri terrori e con tale apparato da tragedia ("leivpetai toi'" ajdhvloi" fovboi" kai; th'/ toiauvth/ tragw/diva/ ta; plhvqh sunevcein", VI, 56, 11).
Questa è la ragione per cui gli antichi ("oiJ palaioiv", 12) hanno introdotto nelle plebi le nozioni riguardo agli dèi e le credenze sull'oltretomba. Male fanno i contemporanei ("oiJ nu'n") a bandirle in maniera scriteriata e irrazionale ("eijkh'/ kai; ajlovgw"").
Per confermare queste parole greche del tempo della repubblica romana ne cito alcune latine di Curzio Rufo, della prima età imperiale (I d. C.):" Nulla res multitudinem efficacius regit quam superstitio: aliōqui impotens, saeva, mutabilis, ubi vana religione capta est, melius vatibus quam ducibus suis paret "(Historiae Alexandri Magni , IV, 10), nessuna cosa meglio della superstizione governa la moltitudine: altrimenti sfrenata, crudele, volubile, quando è afferrata da una vana religione, obbedisce più facilmente agli indovini che ai suoi capi.
C'è dunque un metodo nella follia della superstizione se considerata dalla prospettiva di chi la diffonde.
E' la ragione già svelata da Crizia nel dramma satiresco Sisifo che contiene la teoria razionalistica dell'utilità politica della religione la quale è un'invenzione geniale e valida a frenare i male intenzionati con la paura dei castighi:"mi sembra che prima un uomo accorto e saggio di mente, inventò per i mortali il terrore (devo") degli dei, affinché per i malvagi ci fosse uno spauracchio ("ti dei'ma") anche se fanno o parlano o pensano qualche cosa furtivamente("lavqra/")[1].
Un argomento che in epoca moderna viene ripreso da Machiavelli. L'XI capitolo del I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio verte sulla religione dei Romani: tra questi il re Numa "trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa del tutto necessaria a volere mantenere una civiltà e la constituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare...E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, ad animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni a fare vergognare i rei. Talché se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata o a Romolo o a Numa credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché dove è religione facilmente si possono introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione con difficultà si può introdurre quella...E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate". Quindi Machiavelli tra i legislatori che "ricorrono a Dio" nomina due greci: Licurgo e Solone. Infine tira le somme:"Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione".
Per quanto riguarda la considerazione del timore quale fondamento di un ordinato vivere civile, possiamo indicare un archetipo, o comunque un autore più antico di quelli considerati sopra, in Eschilo che nelle Eumenidi fa dire al coro:" a volte il terrore è bene/e quale ispettore delle anime/ deve restarvi a fare la guardia".(vv. 517-519). E, più avanti:"Io consiglio ai cittadini che hanno cura della città/di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo/e di non scacciare del tutto il timore fuori dalla città./Infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna paura?"(vv. 696-699).
Non mancano del resto voci contrarie alla religio e alla deisidaimoniva. Teofrasto ridicolizza il deisidaivmwn nel XVI dei suoi Caratteri , mentre Lucrezio addirittura criminalizza la religio in quanto è stata causa di delitti orrendi ed empi come il sacrificio di Ifigenia:"Tantum religio potuit suadere malorum ", a crimini tanto grandi poté indurre la religione, è forse il verso più famoso (I, 101) del De rerum natura .
Fine excursus
Flaminio, da Arezzo si dirige a sud, verso Cortona, mentre Annibale mette a sacco l’Etruria, quindi abbandona la via di Roma e si sposta a est, verso Perugia. Flaminio lo segue. Nel giugno del 217 c’è la battaglia del Trasimeno dove il console Flaminio viene sconfitto e perde la vita. Annibale fa molti prigionieri, ma poi libera gli alleati dei Romani per significare che è venuto a liberare l’Italia. Polibio dice che Annibale sapeva che Flaminio era un demagogo perfetto (teleiovn, III, 80, 3) ma un incapace come stratego e lo provocò a inseguirlo in luoghi a lui sfavorevoli. Infatti il console temeva per la propria reputazione se l’Etruria veniva devastata. Il comandante militare deve capire i punti deboli del carattere del nemico pou' th'~ yuch'~ eujceivrwtovn ti parafaivnetai (III, 81, 3), vedere dove si presenta una parte della psiche facile da sottomettere.
C’è quello che ha la passione del vino, un altro è soggetto alla lussuria. Flaminio dunque si lascia provocare e non aspetta il collega Servilio. Annibale, avanzando tra Cortona e il Trasimeno, bruciava il paese per esasperare Flaminio.
All’inizio della primavera in Italia c’erano stati altri prodigi: ad Arpi si era visto il sole combattere nel cielo con la luna; a Cere erano sgorgate acque miste di sangue, ad Anzio i mietitori avevano trovato spighe sporche di sangue nella cesta, a Roma sudavano le statue. Una gallina era diventata maschio e un maschio femmina (Livio, 22, 1).
C’è la confusione e il venir meno del principium individuationis, delle identità. Annibale marciando verso Arezzo, fra le paludi dell’Arno perse un occhio sebbene si trovasse sopra l’unico elefante rimasto vivo (Surus). Comunque devastava la regione tra Fiesole e Arezzo, una delle più fertili d’Italia. Flaminio si sentiva umiliato, e Annibale lo provocava ad assecondare i suoi difetti: “quoque pronior esset in vitia sua, agitare eum atque inritare Poenus parat” (22, 3). Intanto si dirigeva verso Fiesole. Flaminio che si trovava ad Arezzo, non aspetta il collega e balza a cavallo per andare incontro ad Annibale, ma il cavallo cade e fa cadere il console. Era un foedum omen che spaventò la truppa. Un altro brutto segno fu un vessillo che non si lasciava divellere. A chi glielo disse, Flaminio gridò: “num litteras quoque, inquit, ab Senatu adfers, quae me rem gerere vetant? Abi; nuntia effodiant signum, si ad convellendum manus prae metu obturpuerit” (22, 3). I comandanti erano sbigottiti, ma la truppa fu lieta ferociā ducis.
La battaglia del Trasimeno fu caotica: senza individuazione: “non illa ordinata per principes hastatosque ac triarios (22, 5) e non c’erano gli antesignani davanti alle insegne. Né i soldati osservavano gli ordini di legioni, coorti, manipoli: fors conglǒbat , il caso li ammassa, ed erano tanto confusi che non si accorsero del terremoto qui multarum urbium Italiae magnas partes prostravit, avertitque cursu rapidos amnes, mare fluminibus invexit, montes ingenti lapsu prorǔit. Inoltre c’era la nebbia.
A Roma il pretore Marco Pomponio disse : “pugna magna-inquit-victi sumus” (22, 7) . Particolarmente visibili erano le manifestazioni delle donne liete per gli scampati e per disperate i caduti: “Feminarum praecipue et gaudia insignia erant et luctus” (22, 7): una morì di gioia abbracciando il figlio insperatamente tornato.
Polibio III 84 racconta che la battaglia avvenne in una giornata inusualmente nebbiosa (ou[sh~ de; th'~ hJmevra~ ojmiclwvdou~ diaferovntw~, III, 84, 1-ojmivclh= nebbia)). Flaminio venne ucciso da un gruppo di Celti. Secondo Livio fu l’Insubro Ducario (22, 6, 3) ad ammazzarlo: “Hic est-inquit popularibus suis- qui legiones nostras cecīdit agrosque et urbem est depopulatus! Iam ego hanc victimam Manibus peremptorum foede civium dabo!”. Polibio dice che nel vallone dell’agguato caddero quindicimila romani. Non fuggirono perché non potevano e anche perché ritenevano importantissimo peri; pleivstou poiouvmenoi to; mh; feuvgein mhde; leivpein ta;~ tavxei~ (II; 84, 7). Molti vennero spinti dentro il lago e vi morirono annegati. Alcuni cavalieri cercarono di arrendersi ma vennero uccisi, altri si ammazzarono tra loro. Altri fuggirono in un villaggio etrusco dove furono catturati da Maarbale. Annibale distribuì i prigionieri romani tra i vari reparti del suo esercito, mentre lasciò liberi senza riscatto gli alleati, ripetendo quanto aveva già detto: che era lì polhmhvswn oujk ijtaliwvtai~, ajlla;; JRomaivoi~ uJpe;r th'~ ijtaliwtw'n ejleuqeriva~ (II, 85, 4). Perdette solo 1500 uomini, quasi tutti Celti. A Roma il pretore disse dai rostri (tribune degli oratori adorne dei rostri sottratti alle navi degli Anziati nel 338): leipovmeqa mavch/ megavlh/ (III, 85, 8). I Romani rimasero costernati poiché non erano abituati a perdere. Il Senato tuttavia restò fermo nella opportuna lucidità (suvgklhto~ ejpi; tou' kaqhvkonto~ e[mene logismou' , 10) pensando al futuro.
De Sanctis III, 2, p. 42. L’offensiva vittoriosa di Annibale.
Le città etrusche non aprirono le porte ad Annibale i cui emissari andavano ricordando le antiche battaglie del particolarismo italico contro Roma (Sentīnum, in Umbria, 295 a. C.).
Ma venivano respinti. Assisi e Perugia non gli aprirono le porte. Da Spoleto, colonia latina, Annibale venne pure respinto: “cum magna caede suorum repulsus” (22, 9). Era un segno della granitica saldezza della federazione che si stringeva intorno a Roma.
Annibale a questo punto dubitò di avere fallito la via e la vita. Non osa attaccare direttamente Roma, e decide di devastare l’Italia: voleva mostrare agli Italici l’impotenza della città egemone. Si porta quindi nel Piceno, sotto Ancona. Fece ammazzare molti prigionieri per significare agli Italici che era pericoloso rifiutare la sua amicizia. Dal Piceno si portò a sud attraverso il territorio ora abruzzese dei Praetutii (Teramo), Marsi (lago Fucino, Abruzzo), Marrucini (Chieti), Paeligni (Sulmona).
Quindi scese in Apulia. Era questa una regione ricca di foraggi, meno fitta di cittadelle fortificate rispetto all’Italia centrale e adatta alla sua cavalleria per le pianure. Anibale sperava che fosse meno legata a Roma, in quanto più distante. I Romani si preparavano a fonteggiare virilmente il pericolo, senza precipitazione e senza debolezza. Ci voleva un dittatore che venne nominato dai comizi centuriati poiché il console Servilio era lontano, poi non ispirava fiducia. Fu nominato Quinto Fabio Massimo Verrucoso, un rappresentante dell’antica aristocrazia senatoria, già console due volte (233 e 228). Aveva fama di uomo prudente e meticoloso.
Polibio lo qualifica come a[ndra kai; fronhvsei diafevronta kai; pefukovta kalw'~ (III, 87, 6). Polibio chiarisce che il dittatore era accompagnato da 24 littori (quanti ne hanno i due consoli insieme) e che è un aujtokravtwr strathgov~, un comandante con pieni poteri i quali sospendono tutti gli altri poteri, tranne quelli dei tribuni (plh;n tw'n dhmavrcwn, 9).
Livio racconta che Massimo radunò il senato e disse che Flaminio aveva fallito per trascuranza delle cerimonie (neglegentiā caerimoniarum auspiciorumque, 22, 9) più che per temerarietà e insipienza. Quindi ordinò ai decemviri che si consultassero il libri sibillini. Nei libri fatali c’era scritto che bisognava votare grandi ludi a Giove, e un tempio a Venere Ericina (del monte Erice che domina Trapani) e alla dea Mente (ac Menti, 22, 9) fare pubbliche supplicazioni, un lettisternio e una primavera sacra, ossia sacrificare nella primavera successiva le primizie del bestiame. Venne poi eletto dal popolo Marco Minucio Rufo come maestro della cavalleria (magister equitum). Questo è un germe di competizioni future.
Fabio: “Discendente secondo una delle leggende della famiglia da Eracle stesso…capo della fazione agraria moderata…piccolo e tarchiato, con un porro che, ereditario nella famiglia, gli deturpava il labbro superiore e gli aveva meritato il cognomen di Verrucoso, questo ormai maturo nobilis dall’aspetto dimesso del contadino, era un autentico soldato, esperto e rotto ad ogni prova…i libri Sibyllini, fatti consultare da Fabio, fornirono un parere che, pilotato senza dubbio da Fabio stesso-quella di manipolare prodigi e responsi secondo convenienza era…un’arte nota da sempre ai membri della nobilitas, uno dei suoi più antichi arcana imperii, un segreto del potere che i politici romani suggevano, per dir così, con il latte stesso delle loro balie-, suggeriva, oltre a una serie di misure tradizionali, alcune disposizioni insolite: la celebrazione di un ver sacrum, la primavera sacra, e il votum, la promessa di un duplice tempio, a Mens e a Venere Erycīna, da costruirsi e dedicarsi entrambi sul Campidoglio…Quanto alla Mens, primo tra i Romani egli aveva compreso-tra le letture, ben meditate, dell’uomo vi erano evidentemente, anche se non solo, i poemi di Omero- che Annibale riuniva in sé, oltre al valore e alla ferocia di Achille, l’altrettanto mortifera metis (mh'ti~) di Ulisse”[2].
Fabio, il Verrucosus, rileva le legioni del console Servilio e con esse si reca in Puglia.
Annibale gli offriva battaglia ma Fabio la rifiutava.
Seneca sostiene che l’ira è dannosa anche in guerra: Quinto Fabio Massimo “iram ante vicit quam Hannibalem” (De ira, 1, 11, 5), vinse l’ira prima di battere Annibale. Dunque: “Non est itaque utilis ne in proeliis quidem aut bellis ira” (1, 11, 8), l’ira non è utile nemmeno nei combattimenti e nelle guerre.
A. devasta spietatamente il paese in direzione di Benevento per dimostrare che Roma non era in grado di difendere gli alleati. Il Cartaginese saccheggia il Sannio senza che Fabio, il quale lo seguiva passo dopo passo osasse cimentarsi con lui. Cercava di accendere di sdegno il Verrucoso straziando i socii. Hannibal ex Hirpinis in Samnium transit, beneventanum depopulatur (22, 13). Da Avellino a Benevento
Ma Fabio non raccolse le provocazioni di Annibale né si lasciò smuovere dalle critiche degli alleati. Intanto A. compiva danni immensi in Campania, nell’agro falerno, sotto il monte Massico (a nord di Napoli e del Volturno), celebre per il vino eccellente. Quella devastazione arrivò alle acque sinuessane, sotto il momte Massico, non lontano dal Lazio, ma quel terrore non fuorviò i socii, gli alleati ( quelli trattati meglio o controllati dalle oligarchie favorevoli ai Romani), i quali non lasciarono soli i Romani che li reggevano con giusto e moderato impero: “videlicet quia iusto et moderato regebantur imperio, nec abnuebant, quod unun vinculum fidei est, melioribus parēre” (22, 13), non ricusavano di obbedire ai migliori che è l’unico vincolo di fedeltà.
I socii erano legati da patti diversi con Roma, i foedera potevano essere aequa, alla pari, o iniqua, vantaggiosi per Roma.
I Latini avevano foedera aequa. Il foedus comportava la fides.
Annibale devasta a piacimento la Campania, poi torna in Puglia. Fabio, richiamato a Roma con il pretesto dei sacrifici da compiere e difende la sua strategia, ma il popolo lo guardava con sospetto, sacrorum causa Romam revocatus (22, 18), consiglia Minucio il maestro della cavalleria ut plus consilio quam fortunae confīdat, di imitare lui piuttosto che Sempronio e Flaminio e di ricordare “haud parvam rem esse ab totiens victore hoste vinci desisse” (22, 18).
Ricordava medicos quoque plus interdum quiete quam movendo atque agendo proficere.
Ma Minucio non gli dava retta e aizzava i soldati poiché non sopportava di rimanere inoperoso. Quando A. marciava su per le alture del monte Massico, Minucio chiese retoricamente ai soldati se fossero lì per osservare le stragi dei soci, quindi concluse: “audendo atque agendo res romana crevit, non his segnibus consiliis, quae timidi cauta vocant!” (22, 14), non con questi progetti neghittosi che i vigliacchi chiamano prudenti!
Minucio attacca Annibale ma lo scontro si limita ad alcuni reparti e non diventa una battaglia. Comunque il Cartaginese in Puglia diviene meno audace nel saccheggiare e Fabio perde credito a Roma. Tanto più che A. fraude ac dolo (22, 23), con malizia fraudolenta, ordinò che non venisse saccheggiato un podere di Fabio (nell’agro falerno) ut occulti alicuius pacti ea merces videri possit.
Comunque Fabio inviolatum ab hoste agrum vendidit.
Pericle invece prevenne la mossa, subdola o cortese che poteva essere, del re spartano Archidamo, annunziando in assemblea che i suoi possedimenti e le sue case, se non li devastavano i nemici, li donava al popolo ateniese (Tucidide, II, 13).
“Pur essendo un comandante esperto, Marco Minucio Rufo, l’uomo scelto dal popolo, era però legato, come il futuro console Marco Terenzio Varrone, alle forze nuove emergenti allora in senato; e, ciò che era più grave, era un risoluto avversario dei conservatori…Annibale conosceva a fondo anche l’arte di una perfidia più sottile; e colse, durante una puntata nell’agro Falerno, l’occasione per screditare un avversario che, in fondo, era stato il solo, finora, ad avergli causato qualche fastidio. Tra le terre che andava quotidianamente devastando, infatti, egli ordinò che si risparmiassero quelle di Fabio, per gettare su di lui l’ombra del dubbio”[3].
Ci fu anche un successo bellico di Minucio a Larino, nel Molise. A Roma stava emergendo il figlio di un macellaio Terentius Varro qui priore anno praetor fuerat , loco non humili solo , sed etiam sordido ortus: patrem lanium fuisse ferunt (22, 25). Questo, ereditati i soldi dal padre, pensò di fare carriera proclamando pro sordidis hominibus causisque adversus rem et famam bonorum (22, 26) declamando contro la roba e la reputazione dei buoni in favore di uomini e cause abiette.
Varrone fu suasor della proposta de aequato imperio per la quale il potere di Minucio doveva essere parificato a quello del dittatore.
Fabio parlò in senato dicendo che era maggior gloria aver salvato un esercito che avere ammazzato molte migliaia di nemici (22, 25). Ma era caduto in discredito.
Cicerone è un ammiratore di Quinto Fabio Massimo. L’oratore cita questi esametri degli Annales di Ennio che raccontavano la storia di Roma dalle origini al 178 a. C. Molto meglio degli Spartani Callicratida che perse la battaglia delle Arginuse (405), e di Cleombroto che perse quella di Leuttra (371) fu Fabio:
“Quanto Q. Maximus melius! De quo Ennius:
unus homo nobis cunctando restituit rem.
Non enim rumores ponebat ante salutem.
Ergo postque magisque viri nunc gloria claret” (De officiis, I, 84).
Tolstoj presenta molto positivamente il temporeggiare di Kutuzov che ebbe del resto non pochi denigratori: “ Proprio lui, il temporeggiatore Kutuzov, il cui motto è pazienza e tempo, il nemico delle azioni decisive, dà battaglia a Borodino…Questa figura semplice, modesta, e perciò veramente grande, non poteva essere calata nella falsa forma dell’eroe europeo, presunto condottiero di uomini, che la storia ha inventato. Per il lacchè non può esistere un grand’uomo, poiché il lacchè ha un concetto tutto suo della grandezza”[4].
Scaduto il semestre della dittatura, i nuovi consoli eletti furono Terenzio Varrone e il patrizio Emilio Paolo, il nonno di Scipione Emiliano che la tradizione a lui benevola rappresenta in contrasto incessante con il collega al fine di assolverlo dalla responsabilità di Canne. Varrone propose la sua candidatura per il 216. Era divenuto popolare insectatione principum (22, 34), con gli attacchi ai maggiorenti popularibusque artibus e con arti demagogiche. Diceva che i nobili volevano la guerra e che avevano attirato Annibale in Italia per tenere sottomessa la plebe. “Ab hominibus nobilibus per multos annos bellum quaerentibus, Hannibalem un Italiam adductum; ab isdem, cum debellari possit, fraude bellum trahi”.
Una riflessione che può essere attualizzata e riferita alle guerre attuali.
Dato l’esito con la moltiplicazione dell’agro pubblico poi occupato dagli oligarchi, non è ipotesi assurda.
La guerra sarebbe finita solo dopo l’elezione di un console plebeo.
Cfr. 1984 di Orwell: i tre slogan del partito: La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza.
Varrone doveva essere un uomo di ingegno non comune per superare lo sfavore dei maggiorenti sia patrizi sia gli ossimorici plebei-nobili contro gli uomini nuovi: “nam plebeios nobiles iam eisdem initiatos esse sacris et contemnere plebem, ex quo contemni a patribus desierint, coepisse”, erano iniziati ai medesimi misteri. Cfr. Cicerone considerato dai nobili inquilinus civis urbis Romae (Sallustio, Bellum Catilinae, 31, 7).
Però le qualità utili per essere eletti nei comizi, la facondia, la percezione degli umori della plebe, non erano sufficienti per battere un uomo come Annibale. Ora bisognava impedirgli di attuare la mossa vincente dei suoi successi tattici: gli aggiramenti impreveduti. Secondo G. De Sanctis Bisognava mettere in campo un esercito tanto numeroso che le linee avvolgenti di A. divenissero così sottili da poter essere rotte con facilità. Ci volevano 8 legioni usando quelle urbane e quelle di presidio in Sardegna e Sicilia. Invece le legioni dei consoli erano 4 e furono aggiunti solo pochi cavalieri. Annibale prende Canne nella primavera del 216. Era un grosso deposito di viveri. La battaglia avvenne il 2 agosto. Cadde Emilio Paolo con 25 mila uomini. Annibale perse 5500 fanti, quasi tutti Galli e 200 cavalieri.
Prima della battaglia c’è la discordia tra i consoli. Paolo voleva aspettare, ricordando la temerarietà di Sempronio sconfitto alla Trebbia e quella di Flaminio al Trasimeno.
Varrone opponeva l’esempio dell’inerzia di Fabio, colpevole del fatto che Annibale aveva preso a usofrutto l’Italia (22-44). Fabio al momento della partenza aveva avvisato Emilio che aveva due nemici: Annibale e Varrone: “festinatio improvida est et caeca” (22, 49).
Annibale si mosse in calidiora atque eo maturiora messibus Apuliae loca (22, 43) e i consoli si mossero urgente fato, ad nobilitandas clade romana Cannas. Posero il campo vicino all’Aufidus, l’Ofanto.
Annibale ebbe la speranza che i consoli gli avrebbero consentito di combattere locis natis, propizi, ad equestrem pugnam, qua parte virium invictus erat (22, 44).
Il giorno in cui il comando supremo spetta a Varrone, questo attacca senza consultare il collega: c’era un vento contrario che soffiava molta polvere in faccia ai Romani volti a mezzogiorno: ventus adversus Romanis coortus, multo pulvere in ipsa ora volvendo prospectum adēmit” (22, 46).
Appiano dice che Annibale si avvalse, tra l’altro, della forza del vento (tou' te pneuvmato~ th'/ fora'/, 7, 26) per vincere, anzi che far schierare i Romani contro vento fu uno dei suoi stratagemmi. Gli altri furono le finte ritirate e le imboscate. Quindi racconta che Annibale vedendo i migliori dei suoi caduti scoppiò a piangere e disse che non voleva altre vittorie del genere
Emilio Paolo muore incolpevole: quem unum insontem culpae cladis hodiernae Dei respicere debent, 22, 49, gli dice il tribunus militum Lentulus vedendolo insanguinato e seduto su un sasso, ed esortandolo a salvarsi. Ma Emilio gli risponde: “Abi, nuntia publice patribus urbem romanam muniant…privatim Q. Fabio, Aemilium praeceptorum eius memorem et vixisse adhuc et mori (22, 49). Varrone fuggì a Venosa con 50 cavalieri .
Polibio dice che i Romani smisero di perdere quando capirono che la causa delle vittorie di Annibale e delle loro sconfitte era il reparto di cavalleria dell’esercito di Annibale (9, 3, 9).
Maarbale il praefectus equitum pensava che non si dovesse indugiare: “die quinto-inquit-victor in Capitolio epulaberis (22, 51). Ma Annibale rispose ad consilium pensandum temporis opus esset.
Tum Maharbal “ Non omnia nimīrum eidem dii dedēre; Vincere scis, Hannibal, victoria uti nescis.” (22, 51).
“Mora eius diei satis creditur saluti fuisse urbi atque imperio” (22, 51).
Annibale si pentirà di questa scelta: partendo dall’Italia, nel 203, maledisse il Senato cartaginese e Annone che non lo avevano sostenuto. Lo vedremo meglio più avanti.
“Vincere scis, Hannibal, victoria uti nescis. Questa rinuncia e questo giudizio hanno fatto impazzire generazioni di studiosi di strategia. Il capo della cavalleria aveva ragione o aveva torto?... “Maharbal was right” dichiarò vanaglorioso il generale Montgomery, forse equiparandosi al Numida, dopo aver vinto senza gran merito ad El Alamein. Azzardo: “e se Montgomery avesse ragione?” “Montgomery was wrong!” reagisce Giovanni come punto da una vespa. “Anzi, Montgomery era un cretino…Cosa fai con quattromila cavalieri sotto le mura di una città? Le evoluzioni? Cosa fai senza fanteria pesante? Avanti, che fai?...I tuoi imprendibili cavalieri sotto le mura te li massacrano tutti…Roma è blindata, e i Romani son gente tosta, aggrappata a quelle loro zolle. Testardi e tignosi, non molleranno…Roma ha sedici chilometri di mura…Che facciamo senza le macchine da guerra con cui prendemmo Sagunto? E poi, come lo controlli il fiume? Il Tevere è navigabile…Che fai, ci passi in mezzo per farti ammazzare? Dividi l’esercito in due? Livio riassume in una riga sola le conseguenze della gran rinuncia: “Mora eius diei satis creditur saluti fuisse urbi atque imperio” (22, 51)…Roma non si arrende. Non riconosce nemmeno la sconfitta. Nel panico, reagisce nel solo modo possibile. Dice: match non valido, l’avversario ha barato. Peggio: Annibale non è una persona, è un mostro, un demonio…si muove come l’Occidente contemporaneo di fronte al terrorismo suicida(…) Vincenza Morizio “E’ straordinario-mormora-Roma ne viene fuori semplicemente negando l’evidenza della sconfitta…Col suo rifiuto di attaccare Roma, Annibale si svela un grandioso eroe tragico. Ha stravinto, ha umiliato militarmente l’avversario, ha spinto gli alleati a passare dalla sua parte, ma sa di aver mancato il suo obiettivo finale: costringere Roma a trattare” “Ma Annibale fu davvero un imbroglione, se vinse in campo aperto contro forze superiori?...Il termine perfidus dovrebbe mettere in allarme. La Chiesa l’ha usato per duemila anni contro parenti stretti dei cartaginesi-gli ebrei- e fu un trucco miserabile. Un modo per mascherare il timore”.
P. Rumiz la Repubblica 12 agosto 2007, p. 27.
Nel campo i segni della strage erano orrendi: in particolare fu notato un Numida ancora vivo che soggiaceva a un romano il quale gli aveva strappato naso e orecchi: naso auribusque laceratis. Il romano ferito era morto addentando il numida con rabbia. Una scena che prefigura l’inferno dantesco e ricorda un episodio della Tebaide di Stazio.
Quando Melanippo tebano ferisce Tideo il quale maledice il proprio corpo che ha abbandonato l’animo, poi si fa portare la testa di Melanippo a sua volta ferito a morte e gli rode il capo (VIII libro) .
Dante nell’Inferno attribuisce questo bestial segno di odio al conte Ugolino:
“Non altrimenti Tideo si rose
Le tempie a Menalippo per disdegno
Che quei faceva il teschio e l’altre cose (XXXII, 130-132)
Pesaro 4 settembre 2024 ore 10, 16 giovanni ghiselli
p. s.
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