martedì 3 settembre 2024

Ifigenia. Il colpo di scena del 24 marzo.


 

Argomenti

L'incontro a scuola. Il raggio di sole riverberato dal volto di

Ifigenia.  Il giro sul monte Donato. La riconciliazione del 24

marzo. Breve è la vita, ma il rimuginare

implacato ricomincia. La commedia del pomeriggio. I fiori:“surgit

amari aliquid quod in ipsis floribus angat 1

Sarebbe saggio dare credito

alla gioia apparente poiché il dolore è quasi sempre reale e

concreto.

 

 

La mattina seguente

andai a scuola con il proposito di non

incontrarla. Invece uscito da scuola durante l’intervallo la vidi nel solito bar di via Nazario Sauro.  Era con un compagno della scuola di recitazione

che conoscevo, siccome era venuto più  di una volta a casa

mia, con lei, a prendere appunti su Ibsen.  Era un giovane

taciturno, occhialuto, foruncoloso nel volto bruno. Ifigenia

quella mattina lontana

era così

splendida che ne provai

un'impressione di dolore. Mi scoccò un sorriso luminoso con il

quale mi inflisse una ferita; sembrava volesse significarmi:" Tu

oramai sei fuori dalla mia vita, e io sto bene.". Sorrisi anche io,

cercando di non lasciare vedere l'affanno interno, e bevvi il caffè senza dire parola. Ero molto turbato: le gambe tremavano, e il cuore in

tumulto balzava dentro il petto. L'avevo vista così miticamente

bella, radiosa e lontana, che l'amore di lei, mi sembrava già una

favola antica.

1

Lucrezio, De rerum natura, 4, v. 1134. Spunta qualcosa di amaro ché dà

l'angoscia anche tra i fiori.


 

 

 

Durante l'ultima ora, verso mezzogiorno, mi affacciai all'alta

finestra che risponde all'angusto cortile minore dove avevo parcheggiato la bianca Volkswagen.. Guardai giù, nel

cupo pozzo dove il sole non arriva che in giugno. C'era lei. Irradiava bellezza

dal volto abbronzato. In fondo  a quel buco, la vidi brillare di

candida luce. Era seduta sopra una vespa con gli occhi chiusi e la

faccia girata verso un raggio riverberato da una finestra lontana e

poco pulita.  Quel riflesso opaco diventava un barbaglio potente

dopo essersi vivacizzato

cadendo nel viso della ragazza

abbronzata dalle nevi scintillanti del Lusia. Parlava con uno seduto

accanto a lei, tenendo le spalle appoggiate alle sue. Sembrava

soddisfatta. Forse l'avevo perduta.

Dopo la scuola, salii sul monte Donato. Volevo rivisitare una

stradina sghemba e romita, dove due estati prima avevamo fatto

l'amore scostando spine, schiacciando insetti, facendo fuggire le

lucertole che saettavano via come baleni verdi, e interrompendo lo

strepitoso fragore delle cicale pazze di sole. Stavamo stretti in

abbracci dolcissimi, al pari di uccelli dentro i cespugli2

  Dopo, ci

rotolammo giù per un pendio, tenero e profumato di erba alta,

sugosa. Quando ci ritrovammo in fondo al declivio, fermi e ancora

avvinghiati, le accarezzai i capelli violacei versati sulla

vegetazione, le baciai le labbra ardenti, vermiglie come i papaveri,

le guardai le iridi nere come le more, le pupille scure, brillanti di

gioia nella gran luce pomeridiana, e mi sembrò di tenere

abbracciata la terra con il meglio della sua vita. Il 23 marzo 1981,

di quella intesa con la ragazza, di quella felicità naturale, non era

rimasto niente.

Il 24 era un martedì, giorno nel quale le mie lezioni cominciavano

soltanto alle undici. Perciò potei dormire a sazietà: fin oltre le

nove, come chi ha la coscienza tranquilla. Era anche una bella

giornata di sole già caldo, precocemente quasi maturo, per cui

potei andare a scuola in bicicletta, e non infagottato. Insomma ero

di buon umore, come se le cose mi andassero bene. Dopo tutto,

2

Cfr. Euripide, Baccanti, vv. 957-958:"

Kai; mh;n dokw' sfa'" ejn lovcmai" o[rniqa"

w{"-levktrwn e[cesqai filtavtoi" ejn e{rkesin

", e mi sembra che esse, come

uccelli tra i cespugli, siano avvinte nei dolcissimi lacci dei letti.


 

 

 

pensavo, l'interruzione o anche la fine del rapporto poteva essere

una cosa buona: sarei diventato libero di dedicarmi a me stesso, di farla finita

con tutti i pensieri e le azioni senza costrutto alcuno, prive di soddisfazione

cercando di piacere a una  donna ingrata, incapace di trattenere e valorizzare ogni dono. Avrei

avuto tempo per leggere, onde non perdere

tra

l'altro la

fondamentale identità di insegnante bravo, e avrei cominciato a

scrivere l'opera che dovevo a me stesso e all'umanità. Così avrei

pure recuperato l'autocompiacimento, l'amor proprio che avevo

smarrito versandolo nella fanciulla dall'anima ingrata, siccome

priva di fondo, come le brocche delle spose omicide 3.

 

Arrivai davanti al liceo quando suonava l'inizio della ricreazione.

La campana si sentiva anche da fuori le mura del tetro edificio,

illuminato del resto e rallegrato dal sole. Decisi di non entrare

prima che l'intervallo fosse finito, per non correre il rischio,

di essere interpellato e disturbato da qualche importuno molesto.

Aspettai di fianco al portone

d'ingresso con la

faccia

 girata verso la santa fiamma che nutre la vita. Ero

contento siccome avevo trovato la forza di stare solo.

Entrai  dopo avere sentito tutto il suono che segnava l'inizio

della quarta ora. Quando fui nel corridoio, mi incamminai verso le

scale con lo sguardo aderente al pavimento per non vedere facce sgradite magari vaghe di ciance opprimenti.

 Ma come giunsi al

primo gradino, sentii una voce che gridava il mio nome con forza.

Non potei fare a meno di fermarmi, girarmi e alzare gli occhi.

Era una ragazza che voleva dirmi qualcosa. Era lei alle mie spalle. Sì era

Ifigenia che mi chiamava, un'altra volta, e correva ancora

verso di me. Arrivò

trafelata, come ai tempi felici. Entrata dopo di me, doveva avere corso lungo tutto il

piano terreno.

"Gianni -disse- ti stavo cercando. Devo parlarti”. Come due anni e

mezzo prima. L'espressione del volto era commossa ma allegra.

"Adesso ho lezione", risposi. Ifigenia non si lasciò zittire.

:"Gianni, io ti amo. Voglio stare con te. In questi tre giorni

mi sei mancato tanto; sempre mi sei mancato".

3

Le Danaidi.


 

 

138

Vieni a prendermi all’una.

Mi salutò non senza ripetere che aveva capito di amarmi, e  ne era sicura.

Uscì dalla scuola  facendo piccoli balzi, come una puledra di

fianco alla madre in un pascolo luminoso e fiorito4.

 Era certa che

non l'avrei respinta. Sapeva bene che mi tenevo sulle mie solo

perché volevo sentirla parlare ancora, prima di farle vedere quanto

ero contento e fiero del fatto che aveva deciso di tornare con me.

Oh sì, ne ero felice: poco prima a furia di arzigogoli avevo solo

messo insieme una misera consolazione dello strazio di essere

stato piantato da una femmina umana siffatta. Dopo mesi di

dolorosa incertezza, aveva detto che voleva restare con me. Però

non sapevo per quali motivi né con quali intenzioni.

Finite le ore di scuola la vidi corrermi incontro

 

Il seno, sotto la maglia di lana sottile, rosa, aderente,

balzava in leggero anticipo rispetto al resto del corpo. Era

splendidissima la ritrovata compagna. Valeva la pena soffrire

ancora grandi dolori per una giovane donna fatta così.

"Sai gianni – disse –  aspettavo  questo momento da ieri sera quando ho deciso

Non ti dispiace, è vero, che

finalmente ci siamo incontrati?"

Era sicura che non mi spiaceva.

"No, anzi – risposi –; per me è sempre una gioia e una fortuna

averti vicina. Specialmente quando sei allegra e vitale. Ma per

quale ragione, dopo tanti tentennamenti, hai sentito così forte e sicuro il

desiderio di me?".

Volevo vederla ancora dolcemente sorridere, e ascoltarla mentre

parlava bene di me, di se stessa , del nostro rapporto.

4

Cfr. Euripide, Baccanti, vv. 165-166:"

hJdomevna d  j a[ra, pw'lo" o{pw" a{ma

matevri-forbavdi, kw'lon a[gei tacuvpoun skirthvmasi bavkca

", felice allora,

come puledra con la madre al pascolo muove il piede rapido, a balzi, la baccante.


 

 

 

"Ho capito di non potere vivere senza di te. Già ieri pomeriggio a

lezione di danza, osservando il maestro, sentivo che tu mi

mancavi, e mi sono congedata da lui prima del termine, per andare

a rivedere i tuoi appunti; poi questa notte ti ho desiderato, sognato, invocato. Ho

rimpianto te e il nostro amore. Questa mattina bruciavo dalla

voglia di parlare con te, di abbracciarti, uomo mio, intelligente e

morale, colto e sensuale. Ora ti vedo come la luce del sole dopo

una notte di mezzo inverno senza le stelle"5

 . Mi bastava. Le

credetti o diedi a vedere che le credevo. Non mi ricordo.

"Bene-dissi –, condivido i tuoi sentimenti. Anche io ti ho

desiderata e rimpianta.

Non dubitare: sono felice che il tuo amore per me sia rinato; il mio

per te è sempre stato vivo, e ora più che mai". Mentivo? Chissa!

Le accarezzai il volto abbronzato, osservai il caro sguardo

Intenerito.

 

 

Speravo che fosse tornata

la grazia di Dio.

"Questa condizione meravigliosa rinata insperatamente-pensavo-

non devo sciuparla un'altra volta con il ragionare eccessivo.

Rimuginare non è saggezza,

Sottilizzare

su tutto significa negare l'impulso a vivere spontaneamente e

semplicemente. Ora possiamo amarci e goderci la vita, tanto bella

quanto breve,

bracu;" aijwvn6

 

.

5

Cfr. Leopardi, Aspasia, v. 108.

 

.

6

Euripide, Baccanti, v. 397: breve è la vita.


 

 

 

Appena fuori nel sole, ci abbracciammo trionfanti e più teatrali che mai. Le

baciai le guance, i capelli, le mani, l

 

 

Andammo a sederci su una panchina di una stazione suburbana,

sotto un mandorlo fiorito.

Mi parlò dei  sentimenti provati nei giorni della separazione: non

disse esplicitamente di non essere stata a letto con l'altro maestro,

ma doveva essere sottinteso in quanto affermava e ripeteva: lei

amava me;

quell'uomo

era

troppo incolto e

narcisista

per

interessarla sul serio. Notai che si esprimeva in modo confuso, non

per la foga del sentimento, ma per scarsa chiarezza di quello che

intendeva dire. Avrei voluto crederle

senza riserve né

ripensamenti, ma non mi convinse del tutto, purtroppo non mi convinse. Le

sue parole caotiche e trite anzi avrebbero riattizzato presto la

fiamma inesausta del mio almanaccare implacabile.

Durante il tragitto da scuola a casa sua le raccontai con quanto

dolore avevo vissuto quel divorzio pur breve. Quando la salutai, le

dissi che per la sera purtroppo avevo già preso un impegno con

una conoscente coetanea e non potevo disdirlo; perciò, sebbene

avessi una gran voglia di stare con lei, non avevo che un paio di

ore da dedicarle.

 

Coetanea nel mio intento doveva essere spregiativo, nel senso “non giovane e bella come sei tu”.

Eppure la donna che non mi ha dato angoscia, anzi gioia, Elena, era suppergiù mia coetanea e la defunta Marisa di cui ero innamorato da ragazzino e ricordo ancora come meritevole della mia devozione era più attempata di me: nata sei mesi e quattordici giorni prima.

 

Avrei potuto rinviare quell'incontro, per niente significativo, ma

dopo avere sentito  Ifigenia che parlava senza chiarezza, non credevo del tutto

nella sua conversione erotica, e pensavo che tenerla un poco a

distanza frequentando altre persone mi sarebbe servito non solo a

capire meglio i suoi intendimenti, ma anche a farmi desiderare.

Di natura non sono così diffidente; ma se non lo fossi diventato,

costretto da quanti ho incontrato, non sarei sopravvissuto finora.

Ero un bambino con il cuore in mano ma ho dovuto imparare le coperte vie per sopravvivere.

Avevo forti sospetti che Ifigenia fosse tornata non con un atto

spontaneo di amore, bensì con uno sforzo della volontà, e in

seguito a un calcolo del tornaconto: c'era l'esame di  recitazione

prima di tutto, poi forse anche altre ragioni pratiche per cui le

conveniva restare con me ancora un poco di tempo. Nonostante

queste

riflessioni, e

sebbene

non sentissi già più quella

intensificazione della vitalità che è segno di gioia, giunto a casa,

scrissi che volevo guardare Desdemona senza sospetti, senza


 

 

 

l'esecrabile peste della sfiducia di cui mi avevano contagiato

 quando ero molto giovane e del tutto indifeso. Avrei voluto dare

credito ancora una volta alla mia inclinazione di amante della vita. In realtà gran parte dei timori

e sospetti che provavo nei confronti di Ifigenia, me li aveva

seminati dentro lei stessa e li aveva coltivati con atteggiamenti

non schietti. Ma questo è il senno del poi.

Arrivò alle sei del pomeriggio, come ai bei tempi.

"Ciao – disse con aria entusiasta –, avevo tanta voglia di stare con

te e di fare l'amore".

Appena ebbi risposto "anche io", mi abbracciò e baciò con avida

foga, apparentemente come una volta. Quando potei parlare di

nuovo, dissi:"Andiamo subito in camera: sai che oggi ho poco

tempo".

"Lo so", annuì con un pizzico di rammarico dolce, senza sale di

biasimo. Poi, assumendo un tono diverso, allegro e quasi infantile,

aggiunse:"Andiamo subito là e facciamo l'amore. Tu però non devi

spogliarti".

"Perché?", domandai incuriosito.

"Non me lo chiedere gianni, e fidati".

"Va bene tesoro, facciamo così", la assecondai.

Andammo nella

stanza da

letto:

Ifigenia  si

denudò

completamente e mi rese beato con la visione del corpo che avevo

temuto di non rivedere; io mi tolsi del tutto soltanto le scarpe e

non dissi altro prima di fare l'amore. Dopo, le domandai:"Ora devo

anche lavarmi senza spogliarmi?"

"Sì, cioé no". Fece lei.

"Svestiti pure, ma tieni l'accappatoio a portata di mano. E non

chiedermi che cosa vuol dire. Fidati".

Dissi solo:"Va bene". Nel bagno mi chiedevo quale fosse la

ragione di quella stravagante pretesa. "Forse deve venire qualcuno

a trovarci"pensavo. "Ma chi poteva avere invitato  in casa

mia mentre facevamo l'amore?"

Il sospetto di fondo era che stesse per arrivare il maestro di danza.

Forse doveva dirmi che era innamorato di quella meravigliosa

fanciulla, la quale però, purtroppo per lui, aveva scelto di essere la

mia compagna fedele, e lo sarebbe rimasta sempre, come si addice

a una giovane dai costumi specchiati. Mi aspettavo una scena del

genere,  un colpo di teatro concertato dai due commedianti. Insomma non mi fidavo.

Dopo l’espresso promesso e non spedito non mi ero più fidato di lei.


 

 

 

Tornai nella stanza da letto, ma la ragazza non c'era. Pensai che si

fosse nascosta per gioco. Guardai sotto  il talamo ma nemmeno lì

c'era. Allora andai nello studio e la vidi nuda, accanto alla finestra

chiusa, fare dei segni con le braccia verso la strada. Come si

accorse che le stavo alle spalle, si girò, mi guardò, arrossì e

disse:"Torniamo di là; ma tu, gianni, rimani con l'accappatoio".

"Adesso suona quello che aspettava il segnale", pensai.

Infatti, quando ci fummo stesi di nuovo, senza parlare, Ifigenia

con aria divertita, io con il sospetto già evidente nel volto cupo, il

campanello suonò.

"Vai ad aprire" disse. Poi si infilò sotto le coltri ridacchiando.

Andai alla porta. Al di là c'era una giovane con un mazzo di fiori,

enorme. Me li allungò dicendo:"Sei tu gianni ghiselli, vero?"

"Sì, sono io".

"Allora questi sono per te".

La ringraziai. Si allontanò quasi di corsa. Tornai nella stanza da

letto. Allora Ifigenia saltò fuori dalle coperte, le gettò a terra,

si inginocchiò sul lenzuolo, e, tutta contenta, mi domandò:"Ti è

piaciuta la sorpresa? Ti piacciono i fiori?"

"Sì molto", risposi. "Facciamo finta di niente", pensai. Erano tanti,

rossicci, avvolti nel cellophane, tenuti insieme da un nastro rosso

stretto ai gambi avvolti nella stagnola. Isomma mi piacevano poco.

"Adesso leggi il biglietto!" esclamò con aria trionfale.

In mezzo c'era una piccola busta bianca. Dentro, numeri e parole

scritti in rosso:"24/03/1981. Sono tanto, tanto felice che il nostro

amore sia rinato. Ti invio questi fiori per la Poesia, la Fiducia e la

Fierezza del nostro Amore. Ifigenia ".

Appoggiai sopra il tavolo il mazzo crepitante che avevo ripreso

dalle sue mani, poi l'abbracciai.

"Sono tanto felice anche io", sussurrai commosso; eppure sentivo

che la mima aveva fatto una delle commedie sue; che tra quei

fiori c'era qualcosa di falso e penoso, che il nostro rapporto

sconciato non era più redimibile. Comunque volli fare un altro

tentativo  anche io, e non permisi all'angoscia, che presoffriva il

futuro, di annientare quel breve pomeriggio di allegria precaria e

di gioia epidermica.

Ripensandoci adesso però mi domando: non è più divertente e simpatica una scena del genere con queste imprese meravigliose che una serata passata in mezzo a omuncoli e donnicciole che giocano a carte dicendo banalità?

E non è meglio questo che hai raccontato che guardare una partita di calcio trasmessa dalla televisione?

E’ meglio sì, è molto meglio. E allora non lamentarti giovanni, non lamentarti e non essere disonesto, anzi ringrazia gli dèi e Ifigenia di tanto spasso e diletto.

 

Pesaro

3 settembre 2024 ore 17, 32. giovanni ghiselli

p. s.

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