Machiavelli menziona la inhumana crudelitas: attribuita da Tito Livio ad Annibale: “Intra le mirabili azioni di Annibale si connumera questa, che, avendo uno esercito grossissimo, misto di infinite generazioni di uomini, condotto a militare in terre aliene, non vi surgessi mai alcuna dissensione, né infra loro né contro al principe, così nella cattiva come nella sua buona fortuna. Il che non possé nascere da altro, che da quella sua inumana crudeltà, la quale insieme con infinite sue virtù lo fece sempre nel conspetto de’ sua soldati venerando e terribile; e senza quella, a fare quello effetto, le altre virtù non li bastavano” (Il principe, 17).
Scipione viceversa viene biasimato: nel 206 ci fu una ribellione in Spagna: “Il che non nacque da altro, che dalla troppa sua pietà, la quale aveva data a’ sua soldati più licenzia che alla disciplina militare non si conveniva. La qual cosa li fu da Fabio Massimo in Senato rimproverata, e chiamato lui corruttore della romana milizia. E’ Locrensi, sendo stati da uno legato di Scipione destrutti, non furono da lui vendicati, né la insolenzia di quello legato corretta, nascendo tutto da quella sua natura facile…La qual natura arebbe col tempo violato la fama e la gloria di Scipione, se elli avessi con essa perseverato nello imperio; ma vivendo sotto el governo del Senato, questa sua qualità dannosa non solamente si nascose, ma li fu a gloria ” (Il principe, 17). Insomma è bene essere temuto e non odiato
Annibale riuniva in sé, oltre al valore e alla ferocia di Achille, la metis di Ulisse” . Mh'ti~.
Achille e Ulisse sono dunque i precedenti e i modelli di Annibale.
Ulisse ed Ercole sono gli eroi già indicati quali paradigmi dai filosofi stoici.
Seneca nel ricordarlo del resto aggiunge e antepone a questi personaggi mitici e letterari Catone Uticense: “pro ipso quidem Catone securum te esse iussi: nullum enim sapientem nec iniuriam accipere nec contumeliam posse, Catonem certius exemplar sapientis viri nobis deos immortales dedisse quam Ulixen et Herculem prioribus saeculis. Hos enim Stoici nostri sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum” (De costantia sapientis, 2, 2), per Catone in persona ti invitai a stare sicuro: in effetti nessun saggio può ricevere ingiuria né offesa, e con Catone gli dèi immortali ci hanno dato un esempio di uomo saggio più reale di Ulisse ed Ercole per i secoli precedenti. Questi infatti i nostri Stoici hanno proclamato sapienti, invitti dalle fatiche e spregiatori del piacere e vincitori di tutti i terrori.
La perfidia è attribuita da Silio Italico a tutta la razza fenicio-tebana: “ sacri cum perfida/pacti gens Cadmea (Punica, I, 18), la perfida razza di Cadmo sleale verso il sacro patto.
Silio Italico, console nel 68 d. C., scrisse Punica, un ampio poema storico.
E’ il più lungo epos storico giunto a noi.
In 17 libri racconta la seconda guerra Punica, da Sagunto a Zama.
Già Nevio aveva scritto un Bellum Poenicum (la IGP) e pure Ennio negli Annales aveva raccontato, tra l’altro, le guerre puniche, [1] ma in Silio è evidente il riusio di Tito Livio. Il modello principale però è l’Eneide: la guerra di Annibale discende dalla maledizione di Didone. Giunone è nemica dei Romani e protegge Cartagine.
La poesia che non contiene la storia è soggettiva: è confessione privata e spesso lamentosa. Non ha l’impronta dell’eterno e non è arte.
E' necessario attribuire importanza al rapporto tra la poesia epica e i fatti storici, quelli grandi e quelli minuti. Non per niente gliel'hanno data studiosi di levatura ed estimazione europea: il Vico il quale afferma che "la storia romana si cominciò a scrivere da' poeti", e inoltre, utilizzando un passo di Strabone (I, 2, 6) sulla continuità tra l'epica ed Ecateo, :"prima d'Erodoto, anzi prima d'Ecateo milesio, tutta la storia de' popoli della Grecia essere stata scritta da' lor poeti"[2].
Un giudizio apprezzato anche da Pavese:"Ciò che si trova di grande in Vico-oltre il noto-è quel carnale senso che la poesia nasce da tutta la vita storica; inseparabile da religione, politica, economia; "popolarescamente" vissuta da tutto un popolo prima di diventare mito stilizzato, forma mentale di tutta una cultura"[3].
Annibale dispose di attaccare Sagunto e gli ambasciatori romani gli intimarono di lasciare in pace i Saguntini alleati di Roma. Annibale non li ascolta e gli ambasciatori vanno a Cartagine, ma nemmeno il senato cartaginese tiene conto di questa diffida.
Nella primavera del 219 Annibale inizia l’assedio di Sagunto. Questa città era al di qua dell’Ebro rispetto a Cartagena ma l’assedio apre comunque la guerra con Roma. Annibale spera nei Galli, in Antigono Dosone e negli Illiri guidati da Demetrio di Faro. Il Cartaginese in otto mesi prese la città. Annibale si presentava ai soldati come modello (uJpovdeigma) partecipando alle azioni più rischiose (3, 17, 8).
Abbiamo visto che lo faceva pure Alessandro Magno.
Annibale Conquistò a forza la città (kata; kravto~ ei|le th;n povlin) nel dicembre del 219 dopo avere sopportato sofferenze e disagi di ogni sorta. L’arte degli assedi era la parte più debole della sua scienza di guerra. Polibio dice che con questa impresa Annibale voleva sbigottire tutti gli Iberi con la sua audacia (3, 17, 5) e che non voleva lasciarsi alle spalle alcun nemico durante la successiva avanzata. I Romani non aiutarono Sagunto, non prevedendo le capacità e il genio di Annibale. I Tolomei, i maggiori epigoni di Alessandro, cercavano l’ amicizia dei Romani, poiché, seguito alla IGP, si erano convinti della loro invincibilità (p. 413).
Livio racconta che Annone parlò contro Annibale nel senato cartaginese: “hunc iuvenem tamquam furiam facemque huius belli odi ac detestor” (21, 10).
Annibale dopo la presa di Sagunto fece passare per le armi tutti gli adulti.
Quindi si ritirò a Cartagine Nuova per svernare, parlò ai soldati dicendo che in primavera li attendeva un’impresa militare lontana dalla patria, quindi si recò a Cadice dove Herculi vota exsolvit (21, 21) sciolse i voti fatti a Ercole che era assimilato a Melqart, il re che viaggiava dall’orto all’occaso, simbolo della loro attività colonizzatrice.
Gaetano De Sanctis Storia dei Romani vol III parte seconda.
Fu mandato il console Cornelio Scipione a Marsiglia che era alleata dei Romani. Per rafforzare il dominio nella pianura padana vennero fondate Piacenza e Cremona. Boi e Insubri si sollevarono ma vennero domati. A Modena fu costituita una stazione fortificata.
Nel maggio del 218 Annibale supera l’Ebro e in luglio i Pirenei. Quindi non si affrettò verso le Alpi ma indugiò per fare credere che voleva conquistare la Gallia (transalpina) meridionale e perché non lo attendessero nel 218. Giunto alle Alpi invece si lanciò perché il nemico non potesse prepararsi. Sceso dal Monginevro (inizio autunno 218) non trovò due eserciti consolari ma solo l’impotente difesa dei Taurini.
Con l’aiuto dei Galli voleva sgretolare la grande federazione italica e per scompaginarla era necessaria una guerra vittoriosa. Per entrare in contatto con i Galli era necessaria la via di terra, tanto più che sul mare i Romani si erano rivelati superiori. La tradizione parla di 50 mila fanti, 9 mila cavalli, ma probabilmente erano meno: 20 mila fanti, 6 mila cavalli e 37 elefanti. Un numero più alto avrebbe reso troppo difficili i rifornimenti e ridotta la mobilità. Arrivato al Rodano, decide di passare per il Monginevro per attraversare il territorio gallico, non quello ligure a lui più ostile. Dunque Monginevro, Valle di Susa, Doria Riparia, Torino. Sul Rodano trovò dei Galli che volevano sbarrargli il passaggio, ma Annibale usò uno stratagemma classico: fece passare il fiume a monte ad una schiera comandata da Annone, poi, quando questi fu alle spalle dei barbari, cominciò anche lui ad attraversare il fiume. I barbari, presi tra due fuochi, fuggirono. Metà agosto 218. Cornelio Scipione venne a sapere da una sua avanguardia che Annibale era sul Rodano: si muove verso il fiume a marce forzate ma il Cartaginese gli sfugge. Annibale voleva risparmiare le milizie africane e spagnole preparate da lui e sperava di far combattere i Galli. Temeva il generale inverno. Quindi fa traghettare gli elefanti su degli zatteroni e procede verso le Alpi. Allora Cornelio Scipione manda il fratello Cneo in Spagna, mentre lui si reca per mare a Pisa, poi assume il comando delle due legioni accampate a sud del Po. Annibale sale fino a 1800 metri dove comincia a nevicare: quindi scende, ma trova la via franata e deve ricostruire il sentiero. Il 20 settembre arrivò a Susa nel fondovalle. Con questa impresa impressionò i Galli. Il successo fu pieno poiché egli avanzava nella pianura del Po, prima che i nemici arrivassero a chiudergli la via. Poteva tendere la mano ai Galli che gliela offrivano. I Taurini, avversi agli Insubri, provarono a contrastarlo ma A. li sbaragliò.
Polibio dice che A. nella traversata delle Alpi perse metà dei suoi uomini e che i superstiti si erano inselvatichiti (ajpoteqhriwmevnoi pavnte~ h\san, II, 60, 7 da ajpoqhriovw, muto in bestia-qhrivon-). Da 38 mila fanti e 8 mila cavalieri si erano ridotti alla metà (III, 60, 5) . A. li fece riposare poi li riempì di fiducia in loro stessi portandoli a sconfiggere i Taurini e prendendo la loro città, Taurasia. Quindi passò a fil di spada tutti quelli che si erano opposti e suscitò una tale paura che tutti si arresero o affidarono a lui. La rimanente massa dei Galli era ansiosa di unirsi a lui. Allora A. ritenne opportuno avanzare senza indugio.
Prima del passaggio sulle Alpi Annibale parlò ai soldati: “Cosa credete che siano le Alpi se non montagne alte? Qui però trovarono homines intonsi et inculti animalia inanimaque omnia rigentia gelu (21, 32). Questa visione generò sgomento. Allora Annibale fece vedere la pianura sottostante dicendo che stavano superando non le mura dell’Italia ma quelle di Roma: “Italiam ostentat…moeniaque eos tum transcendere non Italiae modo, sed etiam urbis romanae; cetera plana, proclivia fore” (21, 35). La discesa del resto fu difficile: la via viene aperta con il fuoco e con l’aceto: erigono intorno a una parete rocciosa cataste di legna, succendunt, ardentiaque saxa, infuso aceto, putrefaciunt (21, 37), appiccano il fuoco e rendono la pietra friabile infondendo aceto sulla pietra ardente. Quindi rendono agevole la discesa con brevi giri molliuntque anfractibus modicis clivos.
Tito Livio stabilisce la connessione tra gli uomini e il territorio che li ospita quando racconta lo scavalcamento delle Alpi da parte di Annibale:"Triduo inde ad planum descensum, iam et locis mollioribus et accolarum ingeniis "(XXI, 37), in tre giorni di lì si scese alla pianura dove oramai erano più miti sia i luoghi sia i caratteri degli abitanti.
Appiano rileva che Asdrubale accolto amichevolmente dai Galli farà in due mesi il percorso che Annibale aveva compiuto in sei (7, 52). Verrà però sconfitto al Metauro nel 207.
Scheda
Il determinismo geografico
La Medea di Seneca anzi lo rivendica quando pensa di incenerire l'istmo di Corinto e di assumere la ferocia massima negando la propria femminilità:"Per viscera ipsa quaere supplicio viam,/si vivis, anime, si quid antiqui tibi/remanet vigoris; pelle femineos metus/et inhospitalem Caucasum mente indue./Quodcumque vidit Pontus aut Phasis nefas[4],/videbit Isthmos. Effera ignota horrida,/tremenda caelo pariter ac terris mala/mens intus agitat: vulnera et caedem et vagum/funus per artus " (vv. 40-48), attraverso le viscere stesse cerca la via per il castigo, se sei vivo, animo, se ti rimane qualche cosa dell'antico vigore; scaccia le paure femminili e indossa mentalmente il Caucaso inospitale. Tutta l'empietà che il Ponto o il Fasi hanno visto, le vedrà anche l'Istmo. La mia mente medita dentro di sé malvagità feroci, inaudite, terrificanti, terribili per il cielo parimenti e per le terre: ferite e strage e un cadavere smarrito tra le membra.
“La vita ecologica è anche vita psicologica. E se l'ecologia è anche psicologia, allora il "Conosci te stesso" diviene impossibile senza il "Conosci il tuo mondo "[5].
Il capitolo finale delle Storie di Erodoto contiene un monito attribuito a Ciro, il fondatore dell'impero. Alcuni sudditi gli avevano proposto di trasferire il popolo persiano dalla sua terra "piccola, scabra e montuosa" in un'altra "migliore". L'occasione era offerta dalla vittoria sul re dei Medi Astiage. Ma Ciro li scoraggiò dicendo che "da luoghi molli di solito nascono uomini molli ("filevein ga;r ejk tw'n malakw'n cwvrwn malakou;" a[ndra" givnesqai", 9, 122, 3): infatti non è della stessa terra produrre frutti meravigliosi e uomini valenti in guerra. Sicché i Persiani si allontanavano desistendo, vinti dal parere di Ciro, e preferirono comandare abitando una terra infeconda piuttosto che essere servi di altri coltivando pianure fertili". Così si chiudono le Storie di Erodoto.
Seneca nel De ira afferma che per governare è necessaria una natura equilibrata, non intrattabile, e questa ha bisogno di un clima mite:"nemo autem regere potest nisi qui et regi. Fere itaque imperia penes eos fuere populos qui mitiore caelo utuntur. In frigora septentrionemque vergentibus immansueta ingenia sunt, ut ait poeta "suoque simillima caelo" (II, 15), nessuno del resto può governare se non può anche essere governato. Perciò gli imperi in generale si sono trovati presso quei popoli che fruiscono di un clima più mite. Sono feroci le indoli esposte al freddo e al settentrione, e, come dice il poeta, "molto somiglianti al loro cielo".
Leopardi nello Zibaldone assume la teoria ippocratica della connessione fra la terra e l'uomo in lode degli Italiani e dei Marchigiani in particolare:"Ne' luoghi d'aria sottile, gl'ingegni sogliono esser maggiori e più svegliati e capaci, e particolarmente più acuti e più portati e disposti alla furberia. I più furbi p. abito e i più ingegnosi p. natura di tutti gl'italiani, sono i marchegiani: il che senza dubbio ha relazione colla sottigliezza ec. della loro aria. Similmente gl'italiani in generale a paragone delle altre nazioni. Mettendo il piede ne' termini della Marca si riconosce visibilmente una fisonomia più viva, più animata, uno sguardo più penetrante e più arguto che non è quello de' convicini, né de' romani stessi che pur vivono nella società e nell'uso di un gran capitale"(p. 3891).
L'alta considerazione dei marchigiani sembra risentire di questo passo di Cicerone:"Athenis tenue caelum, ex quo etiam acutiores putantur Attici " (Cicerone, De fato, 7), ad Atene l'aria è limpida, e anche per questo gli Attici sono ritenuti più perspicaci.
Il determinismo geografico torna nella descrizione dell’India di Curzio Rufo: “Ingenia hominum, sicut ubīque, apud illos locorum quoque situs format ” (8, 9, 19), da loro, come dappertutto anche la situazione ambientale determina il carattere delle persone.
Quindi Nietzsche:" Vediamo un po' in quali luoghi si trovano o si sono trovati uomini di grande spirito, dove l'arguzia, la raffinatezza, la cattiveria facevano parte della felicità, dove il genio si trovava quasi necessariamente a casa: tutti sono contraddistinti da un'aria particolarmente asciutta. Parigi, la Provenza, Firenze, Gerusalemme, Atene-questi nomi stanno a provare qualcosa: che il genio è condizionato dall'aria asciutta, dal cielo puro-e questo vuol dire metabolismo rapido, possibilità di attirarsi continuamente grandi, e anche enormi, quantità di forza"[6].
Fine scheda.
Il successo strategico di Annibale fu pienissimo: prima che il nemico avesse provveduto a chiudergli la via, egli poteva avanzare lungo il Po nella pianura cisalpina offrendo la mano ai Galli che lo attendevano (p. 24, III, 2).
Il console Publio Cornelio Scipione, padre dell’Africano, da Pisa muove verso Annibale per impedirgli di congiungersi con gli Insubri. Alcune tribù galliche gli mandano rinforzi e il Cartaginese passa il Ticino (ottobre 218). Lo scontro avviene a sud di Novara, nei campi della Lomellina. Annibale prevale con la superiorità della cavalleria utilizzata pienamente in pianura: lo stesso Scipione rimane ferito. I due comandanti, che pochi giorni prima si erano quasi visti sul Rodano, si stimavano per la rapidità con cui avevano condotti gli eserciti sul Ticino.
Fama bella constant
Prima della battaglia, Publio Cornelio Scipione parla ai suoi e ricorda che Annibale sul Rodano aveva rifiutato lo scontro per paura di lui. Dice che dopo le Alpi i nemici sono degli spettri effigies, umbrae hominum, fame frigŏre, inluvie, squalore enecti, (consumati, mezzo morti, da enĕco-necui) contusi (pesti) ac debilitati inter saxa rupesque (Livio, 21, 40).
Dice che Annibale si proclama aemulus itinerum Herculis (21, 41) ma è vectigalis (tributario) stipendiariusque et servus stipendiato e schiavo populi romani. E’ un furiosus iuvenis quello contro il quale si deve combattere, e non per il possesso dell’Italia o della Sicilia: “sed pro Italia vobis est pugnandum!..Hic est obstandum, milites, velut si ante romana moenia pugnemus”, bisogna opporsi.
In Polibio, Annibale dice che la tuvch li ha incastrati in una situazione simile a quella dei prigionieri: “dei'n gar h] nika'n h] qnhvskein h] toi'~ ejcqroi'~ uJpoceirivou~ genevsqai zw'nta~” (III, 63, 4), si deve infatti vincere o morire o diventare fa vivi soggetti ai nemici. Se sconfitti, non dovete concepire la speranza di vivere (III, 63, 11).
Scipione mette in rilievo lo sfinimento dell’esercito punico che non può combattere dia; th;n kakoucivan, per le cattive condizioni in cui si trova (III, 64, 8).
Ma anche le res sono importanti
Annibale prima della pugna ricorse a un espediente psicologico per invogliare i soldati a mettercela tutta, pensando che questi si dovessero incitare con i fatti prima che con le parole: “rebus prius quam verbis adhortandos milites ratus” (21, 42). Dispose l’esercito in cerchio come per uno spettacolo e pose nel mezzo captivos montanos vinctos, quindi fece gettare ai loro piedi armi galliche chiedendo chi volesse combattere per avere in premio libertà, armi e cavallo.
Tutti lo volevano e si ricorse al sorteggio. Chi era sorteggiato esultava. Gli spettatori li applaudivano. Quindi Annibale disse ai suoi che aveva mostrato l’immagine della loro condizione: “neque enim spectaculum modo illud, sed quaedam veluti imago vestrae condicionis erat ” (21, 43). Tutti i Cartaginesi erano costretti dalla sorte a combattere: eadem fortuna quae necessitatem pugnandi imposuit, non si poteva tornare indietro.
Il premio era non il recupero della Sicilia e della Sardegna strappate ai padri ma la conquista di tutto quanto i Romani possedevano. Quindi Annibale ricorda i legami militari e affettivi tra se stesso e i soldati cresciuti con lui: “alumnus prius omnium vestrum quam imperator” (21, 43).
Corrisponde al precetto stoico che comandare sia un onorevole servizio.
Così aveva insegnato un discepolo di Zenone ad Antigono Gonata re di Macedonia[7] cui il regnare apparve un “onorevole servire”, e[ndoxo" douleiva[8].
Torniamo alla fama e ai verba
I Romani, continua Annibsale, sono crudelissima ac superbissima gens (quae) sua omnia suique arbitrii facit. Cum quibus bellum, cum quibus pacem habeamus, se modum imponere aequum censet (21, 44).
Nella battaglia del Ticino (ottobre 218) il console viene ferito e salvato dal figlio giovinetto che concluderà questa guerra: “ Hic erit iuvenis penes quem perfecti huiusce belli laus est, Africanus ob egregiam victoriam de Hannibale Poenisque appellatus” (21, 46).
Scipione si ritira in Piacenza, poi si porta sul Trebbia. Clastidio si arrese ad Annibale e divenne horreum Poenis sedentibus ad Trebiam (21, 49). Il granaio per i Vartaginesi. Intanto l’altro console, Tiberio Sempronio, ebbe un successo navale in Sicilia. Aiutato da Gerone II di Siracusa conquistò Melĭta. Malta.
Poi Tiberio Sempronio ricevette l’ordine di congiungersi a Scipione e si portò a Rimini, quindi sulla Trebbia. Qui erano riunite 4 legioni con 50 mila uomini. Sempronio voleva attaccare subito battaglia: indugiare gli sembrava esiziale per il credito delle armi romane. I Romani erano superiori in numero e i Celti non erano fidati. Più avanti Livio racconta che i Galli seguivano i Punici nella speranza di saccheggiare e Annibale mutando nunc vestem nunc tegumenta capitis, errore etiam sese ab insidiis munierat (22, 1), anche con l’inganno si era difeso dalle insidie.
Appiano racconta che Annibale appariva ora come un vecchio, ora come un ragazzo, ora come un uomo di mezza età, sicché i Celti qaumavzonte~ ejdovkoun qeiotevra~ fuvsew~ lacei'n (7, 6) ritenevano che avesse ricevuto in sorte una natura piuttosto divina.
Arriva il sostizio d’inverno del 218: “Erat forte brumae tempus et nivalis dies” (21, 44). Polibio racconta che Scipione, ancora indisposto, voleva aspettare. Invece Tiberio, contento per un successo parziale e spinto dall’ambizione e fidando paralovgw~ nel risultato dell’impresa, aveva fretta di risolvere la situazione intera da solo e[speude kri'nai di j auJtou' ta; o{la (III, 70, 7). Così sceglieva il momento opportuno to;n kairovn, in base non ai fatti, ma al proprio interesse.
Annibale dal canto suo aveva fretta di sfruttare l’ardore bellico dei Celti finché era intatto. E soprattutto non voleva lasciar passare del tempo a vuoto mh; proi?esqai dia; kenh'~ to;n crovnon (III, 70, 11). Doveva ravvivare continuamente le speranze degli alleati.
La guerra cavalleresca dei Romani.
Quando sulla Trebbia Annibale ordina al fratello Magone di acquattarsi in una valletta con i suoi cavalieri, gli dice: vai tranquillo, Romani nihil ad hoc genus belli adsueti…i Romani non sono abituati a questo tipo di guerra” (P. Rumiz, “la Repubblica, 9 agosto 2007, p. 31).
In realtà Annibale indica un torrente molto infossato al fratello Magone che gli porta degli uomini scelti. Annibale li saluta dicendo: “Robora virorum cerno” (21, 44) vedo uomini in gamba, poi aggiunge: “Mago locum monstrabit quem insideatis: hostem caecum ad has belli artis habetis”, avete un nemico cieco davanti a queste arti della guerra.
Nel dicembre del 218 Sempronio viene sconfitto alla Trebbia. Scipione non potè partecipare alla battaglia (p. 31). Erano tutti intorpiditi dal gelo. I Punici torpentes gelu in castra rediere, ut vix laetitiam victoriae sentirent (21, 46).
Scipione e Sempronio tacito agmine, con silenziosa marcia, ricondussero l’ esercito sconfitto a Piacenza, inde, Pado traiecto, Cremonam.
Ora i Galli accorrono in folla sotto le insegne di Annibale. Nella battaglia c’era da una parte nihil praeter inconditam turbam, dall’altra dux militi et duci miles fidens (21, 47). L’ordine prevale sul disordine.
“Dopo lo choc della Trebbia Roma è nel panico, vive-azzarda Brizzi- una sindrome “da 11 settembre” (P. Rumiz,”la Repubblica”, 8 agosto 2007). Un azzardo spropositato a parer mio.
Pesaro 3 settembre 2024 ore 10, 10
giovanni ghiselli
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[1] Nevio (270 ca-201 ca) scrisse un Bellum Poenicum (sulla prima guerra punica con gli antefatti) ed Ennio (239-169) negli Annales celebra la storia di Roma dalle origini ai suoi tempi.
[2]La Scienza Nuova , Pruove filologiche, III e VIII.
[3]Il mestiere di vivere , 30 agosto 1938.
[4] Secondo Tito Livio questo attecchire del nefas a Roma dove poi dilagherà, avviene nel 186 a. C. con l’introduzione dei Baccanali dall’Etruria. La schiava Ispala costretta dal console Postumio a denunciare questi riti osceni rivela che la perfetta iniziazione era non considerare nulla come illecito: “ nihil nefas ducere, hanc summam inter eos religionem esse” (39, 13).
[5] J. Hillman, Variazioni su Edipo , p. 96.
[6] Ecce homo, p. 25.
[7] 276-239 a. C.
[8] Eliano, Var. hist. II 20.
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