venerdì 6 settembre 2024

Annibale situazione politica, economica e militare di Stati, Staterelli, e città Stato.

Mommsen Politica interna

A Cartagine e successivamente a Roma, il potere si concentrava  nelle mani di poche famiglie di mercanti-senatori: viene meno la subordinazione dell’individuo allo Stato. La plebe cittadina vendeva i voti alle famiglie ricche che dominavano magistrature e senato. Era  praticata dall’alto un’opera di corruzione sistematica della plebe la quale veniva sfamata e divertita con spettacoli immondi: panem et circenses.

 

Catone il censore (nel 184)  che rappresentava l’opposizione a tale diceva che i cittadini non ascoltavano i buoni consigli poiché il ventre non ha orecchie. Erano gli appaltatori di imposte e gli usurai che succhiavano il sangue dei provinciali e compravano i campi e i voti dei contadini rovinati. Gli Scipioni gratificavano i soldati con il denaro dello Stato e si creavano un seguito personale.

Catone rappresentava il ceto medio rurale e si opponeva a questa nuova classe dirigente elleno-cosmopolita. Eletto alla censura nel 184 cercò di opporsi alle famiglie degli Scipioni e dei Flaminini che emergevano facendo politiche personali, seducendo la plebe con i cereali e contando su legioni fedeli alla loro persona prima che allo Stato. Il prezzo del grano divenne incredibilmente basso per favorire i proletari della capitale a spese dei contadini italici. A prezzi ancora più bassi era venduto il frumento africano, spagnolo e siciliano. Anzi, con l’estendersi delle conquiste, il grano italico non ebbe più mercato. La politica demagogica degli Scipioni e dei Flaminini individuava la felicità del popolo nel prezzo basso del grano. Così sparivano i contadini con la loro frugalità e moralità e subentravano gli schiavi con la loro morale rovesciata.

Acta retro cuncta: Il bene non sussiste da nessuna parte e l'ordine è stato rovesciato: nell’Oedipus  la profetessa Manto, figlia di Tiresia, afferma:" Mutatus ordo est, sed nil propria iacet;/ sed acta retro cuncta” ( vv. 366-367) , è mutato l'ordine naturale e nulla si trova al suo posto; ma tutto è invertito.

Nell'Agamennone l'ombra di Tieste, alludendo al suo rapporto incestuoso con la figlia, dice; "versa natura est retro "(v. 34) , la natura è stata rivoltata. La regressione è segno di caos e pazzia.

Nel mondo carnevalesco e capovolto degli schiavi plautini[1] al posto del valore forte della fides troviamo quello della perfidia , la santa protettrice dei servi:" Perfidiae laudes gratiasque habemus merito magnas" (Asinaria, v. 545), abbiamo ragione di elogiare e ringraziare assai la Malafede, dice lo schiavo Libano allo schiavo Leonida.

Appiano nel secondo libro delle Guerre civili (XIV, 13-17) spiega l’errore dei cesaricidi: “pensavano che il popolo romano fosse ancora quello dei tempi in cui l’antico Bruto aveva cacciato i re; e non capivano ch’era assurdo supporre la plebe desiderosa di libertà, e anche, nello stesso tempo, di largizioni. Queste, sì, potevano essere gradite alla plebe: perché il governo era da tempo corrotto…La frumentazione, che solo a Roma vien data ai poveri, attira lì gli oziosi e i mendichi e i lestofanti dell’Italia…Alla protesta contro il parassitismo della plebe romana, Appiano ha aggiunto la protesta contro l’avvicinamento, nell’aspetto esteriore, di liberi e liberti e schiavi” (Mazzarino, p. 189).

Comunque Appiano procurator Augustorum sotto Marco Aurelio e Lucio Vero (161-169) racconta la lotta di classe con maggiore sensibilità di Polibio che interpreta l’avanzata delle masse come mero peggioramento della costituzione, come un fatale cambiamento verso il peggio (ejpi; to; cei'ron, VI libro).

 

Leopardi dice che Cicerone con le Filippiche voleva "persuadere i Romani a operare illusamente", ma "Cicerone predicava indarno, non c'erano più le illusioni d'una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria...eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile...E la ragione facendo naturalmente amici dell'utile proprio, togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone"[2].

Oggi la violenza di moda che inferocisce le persone non è data dalla ragione ma dal pessimo esempio delle guerre.

Parlare male senza lasciarsi capire, altra violenza di moda, dipende dall’imitazione dei rumori della guerra.

 

 

 I proprietari dei grandi fondi si salvarono con il bestiame o mutando la coltivazione. La pianura padana riforniva mezza Italia di maiali e prosciutto. La cultura della vite richiedeva molta mano d’opera e se la poteva permettere solo chi avesse avuto schiavi e capitale, anche perché per un paio di anni la vite non rende. I padroni latifondisti assenteisti lasciavano il latifondo a pascolo e molti terreni arativi non venivano più coltivati. Quelli che sfruttavano l’agro pubblico, incerti sulla durata dell’occupazione, erano restii a investire capitali in piantagioni di viti e di olivi e lo lasciavano a pascolo. I grandi ricchi sono l’argentarius, il banchiere, e il fenerator, l’usuraio. Questi prendevano in appalto la riscossione delle imposte, le forniture, le costruzioni. Alcuni schiavi ereditavano il patrimonio del padrone, per il valore o per i vizi, ne prendevano il posto e snaturavano la cultura italica. Al’aristocrazia politica segue quella della borsa rappresentata dal’ordine equestre e la lotta tra i due ceti –cavalieri- senatori- riempie il secolo successivo. La roccaforte dell’economia nazionale era il traffico del denaro. Già allora.

Catone dice che l’usuraio anticamente subiva pene doppie rispetto a quelle del ladro e Plauto nel Curculio che gli usurai (f(a)eneratōres) sono della stessa stoffa dei lenoni (lenones): parissimi estis hibus, v. 506 (ai lenoni).

Anzi sono peggiori: Hi saltem in occultis locis prostant (fanno sudici affari), vos in foro ipso (v. 507), vos faenori, hi male suadendo et lustris lacerant homines (508).  Lustrum qui significa postribolo.

Quanto agli argentarii: habent hunc morem plerique argentarii,/ut alius alium poscant, reddant nemini,/pugnis rem solvant, siquis poscat clarius” (377-379), chiedono a questo e a quello, non rendono a nessuno, e se qualcuno chiede troppo apertamente, risolvono la cosa a pugni.

Invece, secondo Catone, l’agricoltore è esente dai cattivi pensieri e che le sue ricchezze derivavano dal lavoro e dalla frugalità. La guerra annibalica aveva rovinato l’Italia meridionale, particolarmente Capua e Taranto: più che Annibale però furono i capitalisti di Roma a trasformare in peggio, cioè a indebolire, la popolazione italica. Anche la religione cambia con l’introduzione dei culti della Magna Mater (204 a. C.) e di Dioniso (186 a. C.).

Cambiava il costume: le donne dissolute e gli schiavi favoriti distoglievano dal matrimonio. Catone lamenta l’emancipazione della donna e il lusso che si diffondeva negli abiti e nelle mense.


Benefica era stata la paura dei Cartaginesi

 

Metus hostilis Sallustio e Polibio (e[xwqen koino;~ fovbo~).

Il concetto della paura opportuna all'ordine si trova nel Bellum Iugurthinum[3] di Sallustio:" Nam ante Carthaginem deletam...metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessēre" (41), infatti prima della distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia, si fecero avanti.

“La teoria di una funzione benefica del pericolo esterno (che riassumiamo in genere sotto la formula sallustiana del metus hostilis, il “timore del nemico”: Bellum Iugurthinum 41, 2) è già presente in nuce in Polibio, benché non pienamente sviluppata, né obiettivamente così urgente (nel terzo quarto del II secolo a. C.) come sarà in Posidonio e in Sallustio, nelle tempeste civili della Roma del I secolo. Ma quando, liberatisi dai pericoli esterni, i cittadini di uno stato a costituzione mista vivono nella prosperità, insorgono dall’interno motivi di deterioramento e disgregazione, che tuttavia la costituzione mista possiede in sé i meccanismi per frenare, riportando nell’ordine costituito l’elemento che tende a prevaricare”[4].  Si può pensare all’implosione dell’Unione Sovietica e all’esplosione del capitalismo incontrollato.

 

Polibio  afferma che è difficile trovare un sistema politico migliore della costituzione mista dei Romani: “o{tan me;n ga;r ti~ e[xwqen koino;~ fovbo~ ejpista;~ ajnagkavsh/ sfa'~ sumfronei'n kai; sunergei'n ajllhvloi~, thvlikauvthn kai; toiauvthn sumbaivnei givnesqai th;n duvnamin tou' politeuvmato~ w{ste mhvte paraleivpesqai tw'n deovntwn mhdevn…”(6, 18, 2-3), quando infatti qualche paura comune incombente da fuori li costringe alla concordia e alla cooperazione, tanta e tale succede che diventi la potenza dello Stato che né viene tralasciata nessuna delle cose necessarie, in quanto, continua Polibio, tutti fanno a gara per trovare i mezzi utili a fronteggiare la situazione, né le decisioni falliscono l’occasione in quanto tutti contribuiscono ad attuarle.

Segue la parte tradotta da Musti: quando i cittadini, liberi dai pericoli esterni, si trovano a vivere nella prosperità che deriva dai successi, e mentre godono di questo benessere, corrotti dall’adulazione e dall’ozio, si volgono alla violenza e all’arroganza, cosa che succede spesso (trevpwntai pro;~ u{brin kai; pro;~ uJperhfanivan, o{ dh; filei' givnesqai), allora soprattutto è possibile vedere come lo Stato trovi un rimedio all’interno della costituzione (Polibio, 6, 18, 5-6). 

 


 

Dunque avversione al lavoro, frequentare bettole, i matrimoni quali affari, l’amicizia negotiatio.

Nella commedia romana che imita  quella di Menandro ed è vuota di passione e poesia, il fine dei personaggi è sposarsi con un buon partito. Non va sempre così invero: non c’è sempre tale intenzione. Cfr. Megadoro nell’Aulularia.

 Il maggior difetto della commedia non è l’oscenità che Plauto aggiunge ai modelli greci ma “lo spaventoso vuoto della vita, in cui le sole oasi sono l’amoreggiare e  l’ubriacarsi” E ciò che “in qualche maniera somiglia all’entusiasmo, si trova soltanto nei ribaldi” ( Mommsen, IV, p. 233).

Una commedia che glorifica la crapula è un paradigma di demoralizzazione. Il grande corruttore fu Euripide secondo Nietzsche. Ma “la letteratura latina sta alla greca come un’aranciera della Germania sta a una selva d’aranci della Sicilia” (p. 285).  I Romani utilizzarono Euripide e Menandro perché la loro poesia ha carattere cosmopolita; lasciarono invece da parte;  Sofocle, e persino Aristofane per il carattere nazionale della poesia di questi drammaturghi (p. 290).

Fine Mommsen

 

 Nella Vita di Arato (49-50) Plutarco racconta che Filippo V aveva spinto la plebe di Messene a uccidere duecento cittadini cospicui, poi prende la rocca di Corinto e potrebbe afferrare il toro per le due corna come gli consiglia Demetrio di Faro, cioè dominare il Peloponneso attraverso le due rocche, invece poco dopo le abbandona. Polibio racconta che mentre Filippo sacrificava a Messene, Demetrio di Faro gli aveva detto: eJkatevrwn tw'n keravtwn kratw'n movnw~ a]n uJpoceivrion e[coi~ ton bou'n, aijnittovmeno~ ta; me;n kevrata to;n j Iqwmavtan kai; to;n j Akrokovrinqon, th;n de; Pelopovnnhson to;n bou'n” (7, 12, 3). Lo diceva per enigmi- aijnivttw.

Stava sacrificando sulla rocca di Messene.

Arāto invece gli consigliò la lealtà: di conquistare Messene cwriv~tou' paraspondh'sai Messhnivou~ (6) senza violare i patti con i Messeni. Filippo era portato a violare i patti, ma diede retta ad Aràto che lo sconsigliava anche di combattere i Romani. Arāto era lo stratego della lega Achea dal 245 al 212. Scrisse Memorie che arrivavano al 221.

Arato nel 243 prese Corinto, nel 239 si alleò con gli Etoli contro la Macedonia, poi tornò ad  allearsi con la Macedonia contro Cleomene III (Sellasia 222).

 Muore nel 213, fatto avvelenare da Filippo.

  Polibio dice che  Filippo V era il beniamino dei Greci finché seguì i consigli di Arato, poi divenne un tiranno odioso e crudele quando si fece consigliare dal perfido Demetrio.

Comunque Messene passò all’alleanza etolica contro Filippo.. Nel 214 Filippo assedia Apollonia (Epiro) con i suoi lembi, ma il pretore Levino intervenne e Filippo fuggì prope seminudus, militi quoque, nedum regi, vix decōro habitu. Tornò  in Macedonia (Livio, 24, 40). Gli Achei suoi alleati non lo aiutavano poiché ne temevano il potenziamento. Nel 211, dopo la caduta di Siracusa, gli Etoli si alleano con i Romani ed è la prima alleanza di Greci con Romani contro Greci. I patti non furono inconcludenti come quelli tra Filippo e Annibale. I Romani avrebbero mandato 25 navi agli Etoli che dovevano attaccare Filippo. In cambio avrebbero avuto l’Acarnania.

Amici degli Etoli erano Elei, Spartani e Messeni.

Amici dei Romani, il re degli Illiri Scerdilaida e Attalo I di Pergamo il quale nel 214 aveva sconfitto i Galli e aveva tolto ai Seleucidi parte dell’Asia minore. Con Attalo I (241-197) simpatizzavano i Tolomei, con Filippo i Seleucidi. I Romani conquistarono l’isola di Egina che fu data alla lega etolica, mentre si tenevano il bottino. Fecero molti schiavi. Gli Ateniesi non reagirono. Avevano perduto ogni idealità tranne quella del benessere e adulavano le varie potenze. Gli Spartani parteggiavano per i Romani: essi avversavano ogni tentativo di unità ellenica, anche peloponnesiaca da quando non potevano più costituirla a loro profitto. Nel 209 Filippo sconfisse gli Etoli a Lamia (golfo Maliaco, Termopili), quindi li sconfisse alle Termopili. Per terra egli era superiore ma il mare Egeo era dominato dalla flotta romana e da quella di Pergamo.

Un arcade, Filopemene di Mantinea nel 209 riformò l’esercito della lega achea. Polibio lo chiama l’ultimo dei Greci.

 

Gli attribuisce un discorso che invitava i soldati a curare l’armatura, non l’abbigliamento. Infatti la ricercatezza nel vestire si addice alle donne, nemmeno a quelle troppo per bene, mentre gli uomini di valore curano la magnificenza e la distinzione della propria armatura (Polibio, 11, 9, 7).

Machiavelli ricorda che Filopemene “principe delli Achei…non pensava mai se non a’ modi della guerra” (14).

In tre modi, afferma Polibio, si acquista competenza nell’arte del comando: leggendo le storie, ascoltando gli esperti, facendo esperienza (11, 8, 1).

Nel 207 Filopemene fu eletto stratego della lega Achea e riuscì a battere gli Spartani del tiranno Macanida a Mantinea. Fu l’ultima battaglia combattuta da soli Greci (Polibio, 11, 1-18). La lega Achea divenne una discreta potenza consapevole della sua forza. I Romani nel 207 si ritirarono dall’Egeo per l’imminenza della spedizione di Asdrubale che costituì lo sforzo supremo dei Barcidi. Filippo ne approfittò per cacciare gli Etoli dalla Tessaliotide e impadronirsi di Farsalo. Nel 206 ci fu la pace tra Filippo e gli Etòli che conservavano il primato sull’anfizionia delfica. Questa era la loro forza. Intanto Annibale era oramai chiuso nel Bruzio e non poteva più essere aiutato.

Si arrivò alla pace di Fenice tra Filippo e i Romani (205, Epiro). Apollonia ed Epidamno restavano a Roma. Filippo otteneva Lisso in Illiria e l’Atintania (Epiro, settentrionale, bacino del fiume Aoo). Adesso i Romani avevano piena libertà d’azione per dare ad Annibale il colpo di grazia.

Il re Filippo firmò il trattato a nome degli alleati Achei, Epiroti, Tessali, Locresi.

Alleati dei Romani erano Attalo, gli Illiri, Sparta, Elei, Messeni e Atene.

Con la pace di Fenice, Roma assumeva la tutela del particolarismo greco, come aveva fatto la Persia con la pace di Antalcida (pace del re) nel 386. L’unità greca era di nuovo inattuabile. La freddezza dei Romani verso gli Etoli toglieva agli Ateniesi ogni intralcio a una buona intesa con Roma.

Filopemene nel 183 fu fatto prigioniero e ucciso dai Messeni.

Filopemene, pur nell’alleanza con Roma, mirava a salvaguardare l’autonomia degli Stati greci, una politica di “resistenza passiva”. Polibio da ipparco seguirà questa politica e diventerà sospetto ai Romani che dopo Pidna (168) lo deporteranno.

 

Pesaro 6 settembre 2024 ore 17, 12 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Plauto visse tra il 255 ca e il 184 a. C.

[2]Zibaldone , 22-23.

[3] Del 40 ca.

[4] D. Musti (a cura di) Polibio, Storie, vol. primo, p. 51

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