James Frazer dice che i Romani nel 204 avevano tratto dai libri sibillini la profezia che A. sarebbe stato cacciato dall’Italia se fosse stata portata a Roma “la frigia madre degli dèi” (Il ramo d’oro, I, p. 544).
Degli ambasciatori andarono in Frigia, a Pessinunte e portarono a Roma “la piccola pietra nera che rappresentava la possente divinità”, Cibele “la madre degli dèi, la grande dea asiatica della fertilità” ( cap. 34, Il mito e il rituale di Attis, p. 543).
“Mentre dava un ultimo sguardo alla costa italiana che svaniva nella lontananza, Annibale non poteva prevedere che l’Europa dopo avere respinto le armi dell’Oriente si sarebbe invece arresa alle divinità orientali” (p.544).
Publio Cornelio Scipione Nasìca, figlio di Cneo caduto in Spagna con il fratello Publio, quindi cugino dell’Africano, fu mandato a Ostia incontro alla dea cum omnibus matronis. Doveva prenderla dalla nave e consegnarla alle matrone che la portassero in città. Matronae primores civitatis…accepēre (29, 14).
Una donna speciale della stirpe dei Claudi-Clodi
Tra queste Claudia Quinta la cui reputazione dubbia (dubia…fama) si raddrizzò per il fatto che dopo una preghiera alla dea potè disincagliare con una fune la nave incagliata nel Tevere. Cfr. Ovidio, Fasti, IV, 305-328
Claudia Quinta genus Clauso[1] referebat ab alto,/nec facies impar nobilitate fuit:/casta quidem, sed non et credita: rumor iniquus /laeserat, et falsi criminis acta rea est;cultus et ornatis varie prodisse capillis/obfuit, ad rigidos promptaque lingua senes” (Ovidio , Fasti, IV, 305-310), Claudia Quinta discendeva dall’antico Clauso, e il suo aspetto non era difforme dalla nobiltà, casta invero, ma non creduta tale: un pettegolezzo ingiusto l’aveva danneggiata, e venne accusata con falsa imputazione; l’eleganza e l’essere uscita con la chioma variamente acconciata le nocque, e la lingua pronta rivolta ai rigidi vegliardi.
Quindi, con le chiome sciolte, si rivolge alla dea: “genetrix fecunda deorum, /accipe sub certa condicione preces./casta negor. Si tu damnas, meruisse fatebor” (319-321).
Disse e trasse la fune con esiguo sforzo, dirò cosa mirabile ma testificata anche dal teatro: “mira, sed et scaenā testificata loquar (v. 326). A Roma l’evento venne ritualmente drammatizzato.
Quindi Appiano: “Klaudiva me;n dh; ejx aijscivsth~ dovxh~ ej~ ajrivsthn metevbalen” (7, 56), rovesciò ls sua pessima reputazione. Scipione Nasica fu mandato in quanto i libri sibillini avevano ordinato di inviare to;n a[riston, quello che a loro sembrava “il migliore”.
La pietra nera venne posta nel tempio della Vittoria, sul Palatino alla vigilia delle Idi di Aprile: isque dies festus est…et ludi fuere, Megalesia appellata” (Livio, 29, 14).
Nella primavera del 203 ci fu un ottimo raccolto e Annibale si imbarcò per l’Africa. Culturalmente aveva vinto lui poiché a Roma arrivavano le divinità fenicie.
Nel 204 Scipione si imbarca per l’Africa e approda al Promontorium Pulchrum, vicino a Utica che assedia. Ottiene subito l’alleanza di Massinissa, un regolo numida. Reggeva la parte orientale della regione.
La parte occidentale della Numidia era soggetta al re berbero Siface di Cirta, alleato dei Cartaginesi.
Siface respinge Scipione da Cirta. Ma il romano sconfigge un esercito cartaginese ai Campi Magni vicino a Utica. Allora il partito della pace rialza il capo contro i Barcidi.
Massinissa doveva avere tutta la Numidia e i Cartaginesi consegnare tutte le navi da guerra tranne venti e pagare 400 talenti. Condizioni giudicate troppo dure, sicché vennero richiamati Annibale e Magone che era sbarcato a Genova tre anni prima e cercava di organizzare una coalizione contro Roma. Combattendo i Romani nei territori degli Insubri, Magone era rimasto ferito. In conseguenza della ferita morì in mare. Annibale ricevette l’ordine a Crotone. Locri era già caduta. Fece ammazzare cavalli e soldati italici che non volevano seguirlo, poi si imbarcò. Il senato e il popolo respirarono per la partenza del formidabile leone cartaginese. Fu offerta al novantenne Fabio Massimo la corona obsidialis, una corona d’erba che i soldati liberati dall’assedio offrivano al loro liberatore.
Nello stesso anno (203) Fabio Massimo morì.
Fabio non fu sepolto a spese dello Stato ma ogni Romano portò una monetina, non perché il temporeggiatore fosse povero, ma perché i cittadini volevano seppellirlo come padre del popolo.
Plutarco nella Vita dedicata a Fabio Massimo scrive che il temporeggiatore morto che" e[sce timh;n kai; dovxan oJ qavnato" aujtou' tw'/ bivw/ prevpousan, ebbe onore e gloria la morte di lui adeguata alla vita
Annibale, l’ultimo rampollo della covata di leoni di Amilcare, tornava a Cartagine dopo 36 anni di carriera eroica e grandiosa ma inutile. Tornò per cercare di salvare la patria, senza lamentele e senza rimproveri. Tornava da oriente a occidente dopo avere descritto un vasto circolo di vittorie intorno a Cartagine. Incontrò Scipione a Naragarra, poi si venne alla battaglia di Zama. Sconfitto, si rifugia in Adrumeto (sulla costa a 120 km da Tunisi) con un pugno di uomini.
Durante il combattimenti aveva fatto tutto il possibile (pavnta ta; dunata; poihvsa~, 15, 15, 3), tutto quanto doveva fare un comandante di razza e pieno di esperienza. Intelligentemente non si era fidato della fortuna e aveva previsto ta; peri; ta;~ mavca~ ejkbaivnonta paravloga (15, 15, 5) che nelle battaglie balza fuori l’imprevedibile irrazionale.
Aveva schierato davanti i mercenari e in mezzo i Cartaginesi perché non potessero scappare. Quindi Polibio cita un verso dell’Iliade: “o[fra kai; oujk ejqevlwn ti~ ajnagkaivh/ polemivzoi “ (IV, 300), affinché pur controvoglia ognuno combattesse per forza.
I più valorosi li schierò a distanza, perché potessero osservare e intervenire al momento opportuno. Se ha fallito, merita comprensione (suggnwvmhn dotevon, 15, 16, 6): la sorte lo ha colpito facendogli incontrare uno più forte di lui.
Cartagine perde la sua indipendenza: non poteva più fare la guerra senza il consenso dei Romani. Massinissa rimaneva una spina nel fianco dei Cartaginesi. Annibale si arrese alla dura necessità consigliando la pace, e Scipione rinunciò agli eccessi della vittoria.
Annibale anzi trascinò giù dalla tribuna un senatore contrario alla pace. I senatori si sdegnarono e lui chiese comprensione se non conosceva le loro abitudini parlamentari: era partito dalla patria nel 237, ejnneavth~, tornava, pleivw de; tw'n pevnte kai; tettaravkont j ejtw'n (15, 19, 3) a 45 anni compiuti
Non era ancora venuto il tempo in cui i padroni di Roma volevano essere carnefici delle civiltà, pretendendo di lavare con tanto sangue l’onta di una nazione.
Scipione disse agli ambasciatori che in considerazione della fortuna e delle umane vicende (cavrin e[fhse th'~ tuvch~ kai; tw'n ajnqrwpivnwn) si era deciso di trattarli con mitezza e generosità (15, 17, 4).
Il risultato della guerra fu la conquista definitiva della Spagna, della Sicilia, e la riduzione di Cartagine a inerme città mercantile controllata da Massinissa. Roma aveva l’egemonia sulla parte occidentale del bacino del Mediterraneo.
L’agro pubblico era accresciuto dal territorio di Sanniti e Lucani. L’agro pubblico trasformò i campi coltivati dei contadini meridionali nei pascoli dei signori romani. Inoltre vennero fondate colonie a Crotone, Salerno, Pozzuoli che non tardò a riempirsi di splendide ville. La sconfiita di Annibale insomma segnò un nuovo soggiogamento dell’Italia meridionale ai Romani. I federati italici non latini fecero le spese della guerra. Soprattutto la Campania venne vessata e trasformata in agro pubblico. La popolazione venne corrotta prima dalla guerra, poi dalla miseria. Si formavano bande di assassini composte da schiavi e da gente disperata. I pascoli con gli schiavi- pastori semi selvaggi favorivano questo abbrutimento del paese. Tutta l’agricoltura italica era minacciata dal fatto che per la prima volta il popolo romano veniva sfamato con il grano proveniente dalla Sicilia e dall’Egitto, invece di nutrirsi con il grano da lui stesso prodotto. III 245.
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Pesaro 9 settembre 2024 ore 18, 21 giovanni ghiselli
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[1] Ancora la stirpe degli “stravaganti” Claudii, di origine sabina. Il capostipite si chiamava Attus Clausus, latinizzato in Appio Claudio.
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