lunedì 2 settembre 2024

Ifigenia. Il cammino già fatto con la ragazza ripercorso e ripensato da solo.


 

La passeggiata sulla collina di Zena. Il triennio di lavoro feroce

ricompensato con la borsa di studio utilizzata male. I rimpianti e i

rimorsi, vano pascolo di uno spirito disoccupato . Gli auspici

 

 

Lunedì sedici marzo 1981, dopo la scuola, tornai sulla collina dove

Il  ventotto ottobre del 1978  avevo portato la ragazza dopo averla

incontrata davanti alla libreria Feltrinelli. E' un'altura senz'alberi,

situata tra la strada di Zena e Pianoro sulla via della Futa. Arrivato, fermai la bianca

Volkswagen dove allora avevo lasciato la nera. Ne uscii e ridiscesi

lungo l'erto pendio fino al cupo fondo dov'era terminata la nostra

corsa precipitosa. Sedetti sulla terra del luogo infimo nel quale ci

eravamo seduti. Il cielo era freddo, ventoso, scuro di nubi.

Ricordai che due anni e quattro mesi prima, invitando la ragazza a

seguirmi giù per quel campo scosceso dove si addensavano le

rapide ombre del pomeriggio autunnale, avevo voluto indicarle la

depressione e l'oscurità dell'anima mia.

 Nella primavera misera,  priva di grazia, rimpiangevo l’ottobre di Ifigenia.

Cominciai a risalire la china con la mano

destra tesa dietro la schiena, per ripetere il gesto di allora, quando

avevo offerto aiuto alla ragazza insicura tirandola su. Pensavo che

quell'autunno lontano era stato preceduto da un triennio di studio

feroce: tre anni interminabili passati a riempirmi la testa di

paradigmi, traduzioni, manuali, letture critiche ; un lavoro che

doveva procedere spietatamente, tutti i giorni, in ogni stagione. Se

mi concedevo una pausa, per ristorare il cervello di aria e di luce,

 

andavo su quel colle sopra la valle di Zena appunto, ma solo nel primo pomeriggio

della domenica, in automobile, tacito e senza compagnia, perché

non mi togliesse energie e concentrazione dovute allo studio.

Avevo un paio du compagne di letto che non potevo amare né vedere spesso, a turno per giunta,

siccome dovevo indirizzare perfino i sentimenti sui libri, oggetto

di studio e di ogni libidine forte. Prima delle nove di sera non

volevo vedere nessuno, per paura di perdere tempo e l'autonomia

necessaria a conseguire l'alto scopo di imparare tanto, e così bene

 

 


 

 

 

da farmi non solo ascoltare ma pure ammirare dalle ragazze e dai

ragazzi. Anche dalle colleghe carine se possibile, se ne venivano arruolate per le supplenze.

"Ne va della vita", mi dicevo talora; "se fallissi, non potrei più

sopportarmi". Invece avevo raggiunto lo scopo, l'ammirazione dei

giovani, e il premio di tanta fatica: Ifigenia stessa. Una

giovane che prima di quella vittoria davvero olimpica , non avrei

 

osato nemmeno guardare in faccia. Studio feroce dunque, ma non

disperato, né matto, né vano, anzi pieno di buone speranze,

razionale, e fiducioso di conseguire un contraccambio concreto,

non certo in denari che non mi interessavano punto, ma in termini di

accrescimento spirituale e vitale. Compresi subito che per

insegnare qualche cosa, prima bisognava piacere, e per questo

dovevo procurarmi, oltre la sicurezza nelle parti tecniche del latino

e del greco, un vasto repertorio di lezioni storiche, letterarie,

filosofiche,  ricche di contenuti interessanti, ornate da citazioni

efficaci, dette a memoria senza alcuna incertezza, collegate tra

loro con intelligenza. Per questo oltretutto non avevo modelli;

casomai contromodelli, siccome dovevo discostarmi dai metodi

appresi ascoltando i professori usuali  che annoiano se stessi e gli

studenti con lezioni sceme, povere di cultura e carenti di vita.

Sapevo di avere i mezzi per farcela, anche se all'inizio, quando

presi l'incarico, i ragazzi più preparati del  liceo Rambaldi di Imola

ne sapevano non meno di me. Avevo paura, ma non me ne lasciai

travolgere, né volli tentare di fingere. Feci la cosa migliore che

potevo: mi lasciai guidare dagli allievi ottimi, li ascoltai, compresi che

cosa dovevo imparare per interessarli. E studiai, spietatamente

verso me stesso sul momento.  Ma con il tempo tale spietatezza sarebbe diventata pietas e ne sarei stato ricompensato dagli dei e dagli uomini. La guida più

sicura verso le cose buone che ho dato e avuto, sono stati i ragazzi.

Con Ifigenia dunque avevo ricevuto la borsa di studio1 sperata, voluta

 

con tutta la forza, e di valore adeguato all'immane fatica. Eppure

non ne ero stato felice poiché avevo voluto appropriarmi di quella

ricompensa meravigliosa e divina, divorandola con voracità

animalesca,

invece di

rispettarla e contemplarla fino

a

 

Nota

1 Cfr. il romanzo Tess of the D'Ubervilles (del 1891) di T. Hardy dove Angel Clare si

rivolge a Tess dicendole

: " darling, the great prize of my life-my Fellowship" (XXXII

capitolo), cara, il più grande premio della mia vita, la mia borsa di studio.


 

 

 

comprenderne la bellezza, la poesia, la provenienza celeste. Era

una persona, una creatura umana, non era materia.

Mentre risalivo la china del colle, ad un tratto il cielo si aprì, e un

raggio di sole per un momento riscaldò la terra, ravvivò il verde

della vegetazione novella. Interpretai quella luce fendente le nubi

come una ierofania che preannunciava il ritorno di Ifigenia

la bella.

Passai per l'aia dove nel giugno del 1979 facemmo l'amore. Aveva

le mestruazioni con le quali arrossò le sue cosce e il mio volto adorante.

L'aria bruciava, il cielo sembrava un oceano di luce, la terra era

bionda di grano, ingemmata da saguigni papaveri. La ragazza mi

rese partecipe di tanto fervore di vita che finallora avevo sempre

osservato con desiderio, da fuori. Se fossi riuscito a raccontarlo

nel mio romanzo, avrei scandalizzato i bigotti, i “normali”  malevoli verso le

donne e la vita, i frustrati vari, ma avrei composto un inno in lode delle

femmine umane e dell'artista divino che le ha create così come

sono.

Arrivai vicino alla bianca Volkswagen. Mi fermai a fissare la parte

occidentale del cielo nel punto da dove avevo osservato il sole al

tramonto quel pomeriggio remoto, mentre Desdemona si toglieva

la tuta per indossare una camicia e una gonna. Il sole al tramonto la illuminava.

Nuvole oscure però in marzo

coprivano tutto. Pregavo il dio di farsi vedere dandomi un secondo

segno di assenso al desiderio di avere un'altra possibilità con la

splendidissima giovane donna.

Allora, mentre guardavo il santo

volto di luce 5 che tramontava

ed ella si stava cambiando alle mie spalle, le avevo

domandato:"Qual è signorina, secondo te, la parte più bella del tuo

corpo fiorente?"

"Il seno", aveva risposto.

Forse perché era sbocciato da pochi anni e stava fiorendo ancora.

Osservando quel tramonto lontano, mi sembrò di vedere il petto

della radiosa fanciulla specchiarsi nella fiamma che nutre la vita6

 e

farla brillare di nuovo fulgore, tanto che il tenue cielo del

pomeriggio autunnale ne trasse colore e vigore.

Note

5

Cfr. Sofocle, Antigone, vv. 879-880.

6

Cfr. Sofocle, Edipo re, v. 1475.


 

 

 

Il 16 marzo fissavo le nuvole dell'occidente invocando la luce che annunciasse salvezza

: a lungo la pregai, finché un raggio uscì dallo

squarcio nelle invide nubi, come un bisturi lacera un corpo per

togliere un male curabile. Non riuscii a distinguere le armoniose membra

del primo fra tutti gli dei , ma trassi comunque ottimi auspici dalla

 

visione santa.

Tornai a Bologna pensando che allora non avevo compreso il

valore prezioso dell'incontro pur tanto desiderato, e preparato con

tre anni di studio feroce, nonostante avessi visto il

seno della creatura che mi si affidava.

Non le avevo chiesto quali fossero i sentimenti suoi, i pensieri, le

attese di  bella  collega e amica.

Con questa omissione

Delinquenziale, oltretutto mi ero comportato da perfetto cretino:

avevo perso l'occasione di imparare dal vivo più di quanto avrei

potuto apprendere da mille volumi. Infatti

c'è più vita e sapienza nel petto di una ragazza che in tutti i saperi

del mondo.

Mi ero domandato soltanto se quel corpo fiorente valeva il rischio

che avrei corso portandolo nel grande letto di casa mia per godermelo

là, da solo con lei.

Soltanto molto più tardi avevo compreso che l'amore offerto dalla

ragazza, bella bruna e vivace, era la ricompensa terrena, eppure

mandata da Dio, del grande lavoro invece penalizzato dal piccolo branco- boskhvmata1-

dei colleghi malevoli, invidiosi e pesantemente  imperiosi  che avevano fatto pressione sul nuovo  preside succeduto al gentiluomo Cazzani perché mi togliesse due terzi dei miei allievi

 

confinandomi  al ginnasio. Avevo

più sofferto di quella degradazione presunta che

goduto

dell'assenso divino concretizzatosi nella fanciulla. Me ne dolevo e

pentivo, siccome avevo capito, e forse non era già troppo tardi.

Infatti raccontando poeticamente la varia vicenda del nostro

rapporto tormentato, probabilmente avrei raggiunto il duplice

scopo di creare un'opera educativa per milioni di persone e di riconquistare Ifigenia.

 

Nota 1

Cfr. Euripide, Baccanti, 677-678,  e  A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, trad. it. Adelphi, 1981, p. 178,

Tomo I.


 

Pesaro 2 settembre 2024 ore 9, 42 giovanni ghiselli

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