domenica 8 settembre 2024

La notte di Riccione.


 

Argomenti

La notte di Riccione. La televisione nel bar Italia. La tragedia di

Vermicino. Gli orribili segni.

Lo spettacolo dell'agonia.

Desdemona si precipita nella sala buia. L'uscita dal cancello di

ferro del Grande Hotel. La seduta sulla panchina di ferro. Il

racconto. Nomina sunt omina : Ifigenia –Desdemona  riceve la sospirata

 

offerta. Il tentativo estremo di dissuaderla, ma

"lo stimolo non passa".

.

 

Arrivai a Riccione verso le undici e quaranta: ero dunque in

anticipo di venti minuti. Per non farmi trovare tra i piedi prima

dell'ora convenuta, entrai nel locale situato di fronte al cancello

d'ingresso del vecchio albergo. Bar Italia  si chiama. Ordinai un

caffé. Davanti al televisore c'erano tante persone, sedute e in piedi;

tutte in silenzio. Mi avvicinai, per vedere e sentire: si trattava

ancora del bambino caduto nel pozzo. Non l'avevano tirato fuori;

anzi era scivolato ancora più giù, e la situazione era diventata,

critica assai, quasi disperata, sebbene la creatura fosse viva:

piangeva1

 

e parlava. Chiedeva aiuto alla mamma. Si chiamava

Alfredo. La madre, era affranta ma cercava di

farsi coraggio e darne al figlio :

"Stanno arrivando; non addormentarti, altrimenti non possono

tirarti su!".

Il giornalista diceva che il bambino si trovava incastrato a trentasei

metri sotto terra. Mi chiedevo come potesse accadere che intere

squadre di uomini attrezzati e specializzati in opere di salvataggio,

non riuscissero a estrarre da un cunicolo, pur stretto e profondo,

una creatura razionale che vi era caduta senza perdere coscienza.

C'era una folla intorno al pozzo e alla televisione; c'era il

Presidente della Repubblica, il vecchio, ottimista Pertini che

cercava di incoraggiare i pompieri; c'erano i genitori di Alfredo,

impotenti; c'erano alcuni volontari che si offrivano di scendere

 

 

 

1Cfr. S. Beckett, Finale di partita: “ piange./Dunque è vivo”.


 

 

 

nella burella dov’era imprigionato Alfredino; e c'erano tanti curiosi che probabilmente creavano

impiccio e causavano ritardi.

Fatto sta che a mezzanotte meno un quarto non l'avevano tratto in

salvo, che il piccolo stava perdendo le forze, e che poteva morire.

Pregai Dio perché lo facesse vivere. Ma non c'erano segni

favorevoli alla sopravvivenza. Seguivo tale collisione tragica: lo

scontro fra il destino e la volontà umana per la vita di un bimbo.

Qualche ora prima sembrava che avrebbero vinto gli uomini, ma

alla fine della giornata si capiva che la sopravvivenza di Alfredo

non era nei disegni misteriosi del Fato. Forse l'armonia del mondo

richiedeva quella morte.

Rimasi là fino a mezzanotte meno cinque, in attesa di affrontare

una lotta dolorosa e disperata, un'altra morte che mi riguardava più

da vicino, poiché significava la fine di un'era della mia vita.

Necessaria anche questa.

A mezzanotte meno tre minuti entrai nel giardino del Grand Hotel.

Sedetti su una sedia di ferro bucherellata e verniciata di bianco,

situata sulla terrazza dell'albergo, tre gradini sopra la ghiaia.

Andavano e venivano alcune persone tra cui diversi conoscenti di

Ifigenia. Mi guardavo attorno, aspettando la mezzanotte:

mancava pochissimo. Quando batté l'ora, la mia inquietudine

diventò dolorosa. Doveva essere già  nei paraggi. Mi aspettavo

che uno dei suoi compagni di corso venisse a portarmi notizie, o

un messaggio; ma quelli giravano al largo e sembravano voler

evitare il mio sguardo interrogativo.

"Orribile segno", pensai.

Segno orrendo ma chiaro, annuncio di un

destino deciso, inesorabile, irreversibile. Mi sentivo, e mi sentivo considerato,

in una situazione pietosa: tragica e ridicola nello stesso tempo.

A mezzanotte e dieci mi alzai e andai alla ricezione del piccolo

albergo dove la sera prima Ifigenia aveva preso una camera.

Era situato di fianco al bar Italia.

Il portiere disse che la signorina aveva già lasciato la stanza.

Uscii e rientrai nel bar. Bevvi un altro caffè. Era mezzanotte e un

quarto. Alfredo continuava a scivolare nel pozzo: sgusciava

inesorabilmente da tutte le mani tese in un gesto di aiuto o di

preghiera. Dio non voleva, o non poteva farlo vivere qui sulla

terra.

"La sua morte terrena  serve all'ordine dell'Universo"[1] pensai, ricordando le mie cadute e prevedendo la prossima, molto vicina.


 

 

 

In seguito a tale pensiero mi venne in mente che anche il precipitare

 del nostro rapporto, poteva essere

utile a qualche cosa di buono.

"Dove sta rovinando la mia compagna, in quale caos, affinché il

cosmo si salvi?-mi domandavo-. Perché a mezzanotte e diciotto

minuti non si è fatta ancora vedere?"

Notai che in mezzo alla folla accalcata davanti allo spettacolo di

quell'agonia, c'era la moglie del regista di Ifigenia, mentre lui

stesso non si vedeva.

"Che sia steso nudo e sudato in un letto sfatto accanto alla mia

donna o ex donna dentro una camera di quel mastodontico hotel, mentre la

 donna sua è qui con me a osservare la morte di questo bambino?", mi

chiesi.

Oramai ero quasi sicuro che stava accadendo qualche cosa di

grave, di irrimediabile: anche la mia compagna doveva essere

caduta in qualche precipizio,  forse un buco nero dal quale sarebbe uscita mai più

 

"Dio non permetterlo, - pregavo -. Trattieni quella creatura dal

baratro".

Ancora non era impossibile che si salvasse. Già altre volte avevo

avuto una sensazione, un presentimento del genere; poi avevo

constatato che si trattava di un falso allarme fatto suonare dalla

mia apprensività eccessiva, dal dolore smisurato che provo quando

una persona che mi preme ritarda, anche non gravemente.

In fondo la mezz'ora dopo la mezzanotte ancora non era suonata.

"Vedremo - pensai -, torniamo sulla terrazza del Grand Hotel.

Terrazza del Grande Hotel, terrazza dell'Aranybika. Anche là, nel

grande hotel di Debrecen c'erano sedie bianche, bucherellate. 

“Anche io ho commesso fornicazione con delle adultere”, ricordai,

 

“Nemesi dunque, nemesi e anche

catarsi, magari".

Appena saliti i gradini, la vidi di spalle: stava correndo verso una

porta-finestra che si apre in una grande sala da dove usciva una

luce fioca, appena visibile sul pavimento al quale aderiva come vi

fosse stata verniciata sopra.

 


 

 

 

"Adhaesit pavimento anima mea "4,

 pensai.

La seguii senza chiamarla poiché non era vicina e andava di fretta.

Era evidente che aveva qualcosa da fare. Entrai nella sala

semibuia, gremita di persone che osservavano delle diapositive

commentate da un tale, non uno famoso.

Nella mezza oscurità e nel fumo di quello stanzone pieno di gente

sudata, riuscii a scorgere la maglia arancione di Ifigenia che,

con la schiena piegata, bisbigliava qualcosa nell'orecchio di una

ragazza seduta. Le andai accanto e la guardai aspettando che mi

notasse e dicesse qualcosa. Si voltò, mi rivolse uno sguardo poco

cordiale, quasi indispettito, poi si rigirò e riprese a parlare

nell'orecchio dell'altra.

"Aspettiamo", pensai.

Quando ebbe finito, raddrizzò la schiena, mi si accostò con volto

cupo e bisbigliò:"Usciamo di qui".

L'aria notturna era umida e calda. Ifigenia aveva

un'espressione torva nel volto scuro semicoperto dalle chiome nere come sono soltanto le bare.

Ripensai a quando mi correva incontro nei

tetri corridoi del Minghetti, le mattine dell'autunno nevoso del '78,

con il volto raggiante di gioia, illuminando tutto l'ambiente.

E mi si strinse il cuore.

Comunque dissi:"Ciao", le feci un sorriso e le presi una mano.

Volevo significarle che non le avrei rinfacciato il ritardo; che, se

aveva avuto da fare fino a mezzanotte e mezzo, capivo e non ce

l'avevo con lei. La paura di perderla mi aveva reso conciliante.

Aspettavo, una volta fuori dalla sala oscura e affollata, che mi

baciasse con effusione di affetto, come faceva sempre quando ci

incontravamo anche dopo una separazione brevissima.

Invece lei, senza cambiare l'espressione dura che aveva là dentro,

come fummo sotto il cielo stellato, disse:"Gianni, ti devo parlare",

e fece sgusciare la mano sua dalla mia.

Poi soggiunse:"Ma non qui: usciamo da quest'albergo".

Allora non potei più sperare che non fosse successo qualcosa di

grave. Ma non feci ipotesi, poiché volevo sentirla raccontare.

Scendemmo dalla terrazza, camminammo sulla ghiaia del giardino

semibuio e uscimmo dal cancello ferrigno senza dire parola.

 Si teneva alquanto discosta, immagino per non farsi

Nota

4

L'anima mia è rimasta attaccata alla terra. Cfr Dante, Purgatorio, XIX, v. 73.


 

 

 

toccare. Subito fuori, sulla destra, appoggiata al muro di cinta, c'è

una panchina di ferro: ci sedemmo lì. Mi guardava in faccia:

dovevo essere pallido, nonostante l'abbronzatura estiva.

Cominciò a parlare adagio, con calma apparente.

"Gianni, oggi pomeriggio ho conosciuto l'attore famoso. Mi ha

invitata a cena, in un night e in camera sua".

A questo punto fece una pausa. Doveva assaporarsi la scena. Non

avrebbe avuto tante altre occasioni di lasciare, per un uomo

celebre, un altro uomo che l'aveva amata con tutte le forze di

un'anima appassionata e coltivata ad un tempo.

Mi difendevo come sono solito fare: con il ricordo delle letture più

pertinenti allo strazio presente, e con la memoria delle mie donne

migliori, più vive. Mi venne in mente una delle ultime frasi del

misogino e suicida Pavese che mi aveva fornito una citazione

ottima e funzionale per piacere a Elena una notte remota,

di dieci anni prima . Oltretutto anche lui fu lasciato una sera, in un

 

albergo, da un'aspirante attrice, e per un attore, famoso in quel

tempo, all'inizio degli anni Cinquanta. Un tale che adesso nessuno

ricorda più.

"La cosa più segretamente temuta, accade sempre "6 pensai

.

"Sì, ma io non mi ammazzo. Cercherò una donna vera. Tu sei un

essere indefinibile. Io non sono misogino, anzi. Delle femmine

umane ho molta stima e rispetto. Non c'è altro più atroce e più

cane di te7.

 Tu sai commettere azioni oltremodo dolorose, e io per

averti perso, non perderò la vita", pensai.

Poi, a bassa voce, dissi:"Raccontami com'è andata, se vuoi".

Volevo trarre il massimo di conoscenza da quel dolore.

"Non ho fatto l'amore; non l'ho nemmeno baciato, ma vengo da

camera sua. Se vuoi, ti racconto come ci sono arrivata".

"Sì, però muoviamoci: qui siamo troppo vicini all'albergo: passa

gente che ti conosce, che dovresti salutare interrompendoti".

La storia attesa e presofferta  da quasi due anni  mi interessava

parecchio. Sapevo che ne avrei tratto non solo un grande, eterno

dolore, ma anche un'occasione rara per conoscere meglio me

6

Cfr. C. Pavese, Il mestiere di vivere, 18 agosto, 1950.

7

Cfr. Omero, Odissea, XI, v. 427.


 

 

 

stesso, e del materiale prezioso per questo romanzo. Andammo

nella via principale. Era deserta. Ci sedemmo sul gradino di

un'aiuola, quasi per terra. Poi Ifigenia cominciò a raccontare

"Nel pomeriggio lui è venuto a parlare in una sala del Grande

Hotel. Era piena di gente. Mi guardava, molto. Anche io lo

guardavo. Da un certo momento in avanti, ci fissavamo a vicenda,

in maniera eloquente. Non c'erano barriere di pudore tra noi.

Quando ha finito la conferenza, si è avvicinato. Mi ha detto:

" E questa bella ragazza chi è?"

"Sono ifigenia dell'Antoniano di Bologna", ho risposto.

"Bene, brava. Vuoi venire a cena con me e con i miei

amici? Parleremo dell'Otello  che sto preparando per la prossima

stagione teatrale".

"Sì" ho fatto io. Volevo conoscerlo, sentirlo parlare, volevo

imparare cose nuove da lui".

Così siamo andati in un locale elegante. C'erano diverse persone.

Lui faceva discorsi interessanti sul teatro, sul cinema, sulla

televisione. Tutte cose molto importanti per me.

A un certo momento anzi ha detto:"Nomina sunt omina , i nomi

sono presagi, vero? Voglio chiamarti Desdemona e assegnarti la parte  dell'omonima

creatura tragica!"

"Cialtrone - ho pensato -, vecchio bellimbusto cadente! Sta

lavorando all’Otello da mesi, figuriamoci se la parte della

protagonista deve ancora assegnarla! Ma se lo dico a questa

infatuata, non mi racconta più niente".

"Io ne sono stata fiera e felice, ma non ho osato metterci bocca. A

quella tavola

c'erano persone intelligenti e preparate, che

parlavano di teatro con competenza".

"Sì, come Tortorella del  Resto del Carlino" ho pensato con ironia:

l’avevo intravisto molto indaffarato a darsi importanza con le ragazze anche lui.

“Finita la cena, mi ha invitata in un night a bere qualcosa".

"Ma non eri astemia una volta? Non insegnavi la sobrietà, anzi

l'astinenza anche a me?", ho pensato.

"Siamo saliti su un taxi. Durante il percorso lui voleva baciarmi,

ma io gli ho detto che ho un rapporto meraviglioso con un uomo

adulto, e molto in gamba. Insomma, gli ho parlato di te".

"Certo-ho pensato-.Come fece con me quando mi parlò del marito:

gli ha detto di noi per fargli capire che potrebbe reggere un


 

 

 

rapporto con lui senza impazzire né dargli fastidi. Vedrai che poi

gli avrà chiesto:

 

‘ma tu cosa vuoi da me?’

E' la battuta chiave del suo copione di seduttrice di uomini che

potrebbero esserle fratelli maggiori o nonni come costui".

"Mi ha detto che se voglio davvero fare l'attrice-continuò-, non

devo avere un ruolo fisso nemmeno nella vita. Mi ha parlato del

nostro mestiere a lungo, con intelligenza, senza narcisismo. Lui

non è narcisista. Lo è meno di te".

"In ogni caso a paideia e giustizia non credo stia meglio di me "8,

 

ho pensato. “Costui  interpreta una sapienza odiosa, da bullo”

"Mi ha convinta. Non credere che mi sia piaciuto soprattutto per

l'aspetto o la fama; in un'ora mi ha insegnato tantissimo. Mi ha

colpita in pieno".

"Sta vivendo la commedia di Horváth", ho pensato. ‘Tu lo sai che

mi hai colpita come un fulmine, che mi hai spaccata in due’ - .

Vorrebbe vivere brillantemente la parte recitata mediocremente"9.

 

"Tu gianni puoi essere più intelligente, colto e onesto, ma sei

narcisista. Per questo negli ultimi tempi io non ti amavo più: tu sei

malato di narcisismo. Abbiamo parlato anche di quel povero

bambino caduto nel pozzo, hai sentito?"

"Sì, sta morendo", ho risposto.

"Poi?", ho domandato.

"Poi io gli ho chiesto:"ma insomma, tu da me cosa vuoi?"

"Visto?", ho pensato.

"Lui allora ha detto:" perbacco, ragazza, come parli diretta!", e

mi ha invitata ad accompagnarlo al suo albergo, il Savioli,  poi a

salire in camera sua. Volevo sentirlo parlare ancora".

"Fatelo ruggire ancora, fatelo ruggire ancora!” 10

  ho pensato.

"Volevo imparare tante altre cose".

8

Cfr. Platone, Gorgia, 470 e:"

ouj ga;r oi\da paideiva" o{pw" e[cei kai;

dikaiosuvnh"

", infatti non so come sta a educazione e a giustizia.

9

Cfr. Horváth, Storie del bosco viennese, I, 4.

10

Let him roar again, let him roar again” (Shakespeare, A Midsummer-Night’s dream, II, 1).


 

 

 

"Ma sì-ho pensato -, dopo tutto questo gradasso non sarà peggiore

del ganzo di Pasife11.

  Inoltre il Savioli è un bell'albergo costoso: io

non me lo posso permettere".

"Ci siamo stesi nel letto, molto vicini tra noi. L'ho abbracciato, ma

non mi sono lasciata baciare".

"Come avrà fatto?", ho pensato.

"Poi era mezzanotte e sono venuta da te. Tu che cosa ne dici? Ti

consideri offeso?"

"Sì, mi considero offeso".

"Hai ragione. Io però non ti ho tradito né ti tradisco. Ti lascio. E

ora cos'altro mi dici?"

"Cosa vuoi che ti dica? Se mi lasci davvero e del tutto, noi due

non ci vediamo più perché dopo questo io non ti cerco; se invece

mi cercherai tu, non mi farò negare, non posso siccome vivo solo.

Comunque non  considerarmi più legato a te da vincoli di fedeltà o da

alcun obbligo. Ora io sono sciolto: le mie forze non sono più al tuo

servizio: da oggi non impiegherò il meglio di me per occuparmi di

te; tu dovrai percorrere la tua strada da sola, o con altri".

"Lo so, e mi dispiace, ma tu non considerarti offeso

personalmente: io continuo a stimarti; anzi spero

che un giorno potremo rimetterci insieme, ma adesso per me è

giunto il momento di fare altre esperienze. Non credi? Anche tu le

hai fatte a suo tempo!".

"Sì certo, e spero di farne ancora. Ma quando sono vago di

esperimenti amorosi, io non prendo impegni monogamici e non ne

chiedo; tu invece mi avevi giurato amore esclusivo, eterno, e avevi

insistito, mi pare, perché lo giurassi a te".

Questo pensiero agitai dentro di me. Invece, per salvare la mia

dignità, dissi:

"Sì, ma cerca di evitare le pratiche che ti danneggiano, se puoi".

Dopo questa frase però, pensai che copulare con quel vecchio

istrione non poteva essere accrescitivo, anzi sarebbe stato rovinoso

11

Cfr. Luciano, Lucio o l'asino, 51:"

ajdew'" loipo;n uJphrevtoun ejnnouvmeno" wJ"

oujde;n ei[hn kakivwn tou' th'" Pasifavh" moicou'”,

 

 

da quel momento  la servii

senza timore, pensando che non ero per niente peggiore del ganzo di Pasife.

E' il

protagonista trasformato in asino, il quale si paragona, come amante di una donna

che lo concupisce, al toro con cui si accoppiò la madre di Fedra.


 

 

 

per Ifigenia, siccome lei per lui era un vizio, o uno sfizio, dopo

il quale l'avrebbe ignorata, mentre la disgraziata nuova Desdemona si aspettava

chissà quali cambiamenti in meglio nella vita, chissà quanti balzi

in avanti nella via della fama e del successo.

Allora volli provare a darle una mano perché non cadesse del tutto

in quella illusione, in quell'errore dell'intelligenza oltre che della

morale.

Dissi:"Pensaci bene prima di buttare via due anni e mezzo di vita

in comune; un tempo, non tutto di amore e concordia, però passato

comunque in maniera viva, vissuto non invano, nel vuoto, ma

scambiandoci idee e sentimenti, oltre che piacere sessuale. Non

gettare nell'immondizia ogni cosa per un’ora con uno che non potrà prendersi cura di te.

 Lasciami, se con me non stai

più  bene, ma non andare a letto con lui! Questo lo dico per te. Ti

porto a Pesaro, a Bologna, o dove preferisci".

Più di così non potevo.

"No", rispose con tono deciso. "con te non  vengo da nessuna parte. Questa notte

rimango sola per pensare alla nostra situazione sempre più critica,

oramai compromessa, oppure, se non mi passa lo stimolo-usò

proprio questo termine-, francamente e senza offesa, io torno da

lui".

"L'offesa è tua-pensai-, l'offesa è tutta per te".

Oramai  era inutile aggiungere altro: non c'era più niente da fare.

Ifigenia continuava a parlare per rendere definitivo quanto

stava facendo.

"Gianni, molto francamente: il maestro di danza mi era piaciuto,

e io l'ho stuzzicato in maniera anche abbastanza esplicita. Ma con

lui non ho mai trasgredito il limite oltre il quale non posso

considerarmi onestamente la donna tua; questa volta invece l'ho

superato".

"Ho capito".

Non c'era altro da dire. Opporsi a quella libidine sarebbe stato

come volere contrastare il moto dei venti, dei mari o degli astri.

"Bene-conclusi-. Credo che non si possa aggiungere altro. Vado

via. Ciao, buona notte".

"Posso telefonarti domani sera alle otto?", domandò.

"Sì, telefona pure. Solo che adesso non so dirti se sarò a Pesaro o a

Bologna. Prova da una parte e dall'altra. Ciao, buona fortuna".


 

 

224

"Anche a te", fece con un sorriso.

Intanto ci eravamo alzati dal gradino di pietra.

Desdemona si allontanò in direzione del Grande Hotel , senza

fretta. Sotto la maglia arancione aveva dei  blue jeans. Camminava

come una gatta in calore.

Tornai alla bianca Volkswagen parcheggiata sul lungomare. In

giro non c'era

nessuno. Era

l'una e un quarto. Entrai

nell'automobile e vi rimasi qualche minuto fermo, senza metterla

in moto: non sapevo da che parte andare. Mi sentivo vilipeso e

violentato. Soffrivo il dolore misero di una creatura impotente.

L'auto aveva il muso rivolto a Pesaro dove mi aspettavano la

mamma, la sorella, le zie, ma non mi sentivo di andare là; anche

Bologna però, la casa afosa,  con lo studio pieno zeppo di libri, il

letto sfatto, la cucina sconvolta quanto l’anima mia, mi attiravano poco; d'altra parte

che potevo fare? Rimanere lì tutta la notte? Andare a Moena, o a

Debrecen? Sentivo il fremito cupo del mare.

 

Pesaro  8 settembre 2024 ore 18, 57. giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Nihil indignetur sibi accidere sciatque illa ipsa quibus laedi videtur ad conservationem universi pertinere () placeat homini quidquid deo placuit” (Seneca, Ep. 74, 20(

 

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