martedì 3 giugno 2025

figenia CLIII. Non è possibile entrare due volte nello stesso fiume. Eraclito poi Sofocle.

I

 

Il 20 agosto ci portarono a Visegrád, sul gomito del Danubio, dove il 20 agosto di cinque anni prima avevo passato uno dei pomeriggi più intensi e belli della mia vita con Päivi[1] e gli amici, ancora tutti presenti e vivi in quel tempo remoto Allora avevo visto quel luogo come la pianura iperurania della verità scesa sulla terra con le idèe  entrate nelle cose.

 

Nell’agosto del ’79 non c’era più nessuno di loro e tutto il paesaggio aveva perduto quella chiarezza epifanica. La luce del sole era assente, l’aria grigia, l’acqua torbida, la riva melmosa, gli alberi vizzi. Mi mancavano le care persone cui la corrente risanatrice dell’Istro illuminato donava salute, forza e bellezza. Non c’era più Päivi incinta di me. Aspettava una bambina che non sarebbe  nata mai.

Potamw`/ ga;r oujk e[stin ejmbh`nai di;" tw`/ aujtw`/ [2].  

Allora sembrava che l’amore, la paternità, l’amicizia e la gioia riflesse senza interruzione dal mobile luccichio dell’acqua veloce, fossero doni per sempre, invece in poco tempo quella rapinosa corrente mi aveva portato via tutto: “oujde; qnhth`" oujsiva" di;" a{yasqai kata; e{xin[3], né si può toccare due volte una sostanza mortale nella medesima situazione.

Quel giorno felice, il 20 agosto del 1974, dell’amore e della gioia di vivere avevo  dunque visto soltanto alcuni frammenti trascinati dalla corrente verso il mare nero del nulla.

Quasi tutti quei presunti amici erano solo dei conoscenti occasionali, la donna creduta della mia vita era la ganza irrequieta di un’avventura mensile e la figlia un feto a perdersi nella corrente come le bottiglie vuote che cinque anni più tardi si dondolavano sull’acqua muovendo  i colli che non rivelavano nulla poiché i loro cenni affermavano, e subito dopo negavano tutto  quia fluminum  instabilis natura simul ostendit omina et rapit [4] pensai.

Il medesimo luogo osservato con animo non più giovanilmente esaltato era squallido.

Mi trovavo sulla corriera che seguendo il corso dell’Istro ci  portò in una piazza situata sotto la collina del castello di Visegrád sulla riva destra del fiume. In quell’agorà c’erano tavoli, seggiole e zingari, non dionisiaci, non musicali come quelli che suonavano il cembalo nei ristoranti di Debrecen.

Mangiavano pesce fritto avvolto in una carta gialla unta che poi lasciavano sui tavoli o gettavano in terra, incuranti della decenza. C’era anche una giostra triste, semivuota, osservata da bambini  verdi e muti, come ramarri chiusi in una teca di vetro situata in uno solaio buio e freddo, esposto a nord, mai battuto dal sole, nemmeno nel mese di giugno quando la luce è altissima. Il fritto mandava odore di sugna bruciata. Il castello sopra la piazza mi fece venire in mente quello di Kafka:  sembrava un’accozzaglia di pietre prossime a sgretolarsi.

Attraversai la strada per osservare l’acqua dalla riva. Era lurida. C’era una spazzatura varia di carte, cocci, bottiglie, pezzi di ferro, e nefandezze innominabili, inverecondamente distese sulla ghìaia o affondate nel fango.

“Pensoso di cessar dentro quell’acque/la speme e il dolor mio”?[5]

No, sicuramente no: intanto perché la speme era spenta, poi quelle acque facevano schifo.

Avvertenza: Il blog contiene 5 note e il greco non traslitterato

 

Ricordi e progetti sulla riva sporca del Danubio inquinato. L’Edipo re di Sofocle.

 

Con cupa meraviglia mi chiesi come cinque anni prima avessi potuto togliermi le scarpe per camminare a piedi nudi sopra tale immondizia. Allora tutto mi sembrava bello assai e molto pulito perché avevo incontrato una donna capace di darmi i compiti che dovevo fare in modo egregio per migliorare, ed elevarmi fino al livello di lei, l’amante psicologa che sopravvalutavo siccome aveva detto quello che volevo sentirmi dire da una persona che mi piaceva.

 Il suo viso mi appariva plasmato dall’intelligenza e dalla forza della volontà. Il suo sguardo non era melenso come quello dei più. La consideravo straordinaria, semidivina. Allora  non tenevo conto del fatto che la sua metà umana era sol povera carne mortale come la mia.

Notai una bottiglia di plastica rosa e una di vetro verde che si incrociavano simboleggiando la mia crocifissione. Vicino all’acqua camminava un vecchio iracondo, barcollante, forse ubriaco. Mi guardò minaccioso, sputò e imprecò.

Sulla riva c’erano anche stracci immondi,  unti di liquido osceno, scatole di plastica e di latta. Sull’acqua ondeggiavano dei preservativi.

Pensavo alla figlia abortita e mi vennero in mente alcuni versi di Sofocle che descrive la situazione di Tebe inquinata da un mivasma non ancora individuato, e desolata dall’epidemia che accumula cadaveri di donne uomini, bambini uccisi dall’empietà.

 

La città infatti, come anche tu stesso vedi, troppo/già ondeggia e non è più capace di sollevare il capo dai gorghi del flutto insanguinato/E si consuma nei calici infruttuosi della terra,/si consuma nelle mandrie dei buoi al pascolo, e nei parti/senza figli delle donne; e intanto, il dio portatore di fuoco,/scagliatosi, si avventa sulla città, peste odiosissima,/dalla quale è vuotata la casa di Cadmo,e il nero/Ades si arricchisce di gemiti e lamenti" (Edipo re, vv. 22-30).

 

Eppure cinque anni prima ci eravamo seduti lì a prendere il sole, poi ci eravamo spogliati e avevamo fatto il bagno dentro quell’acqua. No, non la medesima acqua. Bucce di angurie, cartacce luride a altre porcherie innominabili, deiezioni gettate giù  da ogni parte vi galleggiavano. Alzai gli occhi. Nella luce morente del tramonto vedevo colline giallastre di vegetazione morente. Nella primavera precedente con Ifigenia eravamo felici perché facevamo l’amore più e più volte stimolati non solo l’uno dalla persona dell’altro ma anche dal progetto di promuovere una rivoluzione culturale, un cambiamento di gusti e costumi, intanto in noi stessi, poi nel nostro ambiente, quindi in un ambito sempre più in grande.

“Sarò il maestro di un popolo intero”, pensavo e speravo.

Mi chiesi che cosa era rimasto delle gioie e dei progetti del tempo dell’amore. Avevamo passato due anni tendendo trappole all’amante sempre meno amabile e amato.

Dileguate le amanti, in me  tuttavia restava  qualcosa di quanto mi avevano infuso: la volontà di salvare dal precipizio del nulla i significati estetici, morali e politici di quelle storie e degli ambienti in cui si erano svolte. Da Elena Schejbalova di Praga, nella primavera del ’68,  a Ifigenia la primavera del’ 79, undici anni più tardi con tanti cambiamenti di tutto.

Da una quercia enorme era caduto a terra un ramo grande. Mi avvicinai per osservarlo: era marcio. “Se non fosse stato fradicio, non sarebbe caduto”, pensai. “La quercia però è rimasta in piedi, il ceppo resiste. Anche tu devi eliminare i tuoi rami bacati-mi dissi: “l’egoismo, il narcisismo, l’esibizionismo istrionico. Conserva e potenzia invece il meglio di te, l’essenziale: la volontà di imparare per educare  i ragazzi, il desiderio di scrivere per rendere migliore chi ti leggerà. Devi arrivare alla densità e intensità di significati che ammiri tanto in Sofocle.

Questi amori a tempo determinato devono servirti a creare un’opera che duri a lungo, molto a lungo. Altrimenti  non valeva la pena di prolungare molte di quelle frequentazioni. Con Ifigenia sarebbe ancora possibile?. Ma ne vale la pena? Non credo”.

Dalle nuvole a un tratto sbucò un raggio di sole che mi fece alzare gli occhi al cielo.

 

Bologna  3 giugno 2025 ore 10 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Cfr. Tre amori a Debrecen in prestito nella biblioteca Ginzburg.

[2] Nel medesimo fiume entrare due volte infatti non è possibile  (Eraclito in Plutarco, Sulla E di Delfi, 392b)

[3] Plutarco, ibidem

[4] Cfr. Tacito, Annali, VI, 37, poché la natura instabile dei fiumi nello stesso tempo mostra i presagi e li trascina via.

[5] Leopardi, Le ricordanze, 108-109.

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