sabato 31 agosto 2024

Capitolo dedicato a Marisa compagna di scuola a Pesaro negli anni 1955-1963.


 

La lezione per l'esame di Ifigenia  e la sua gratitudine. La gita

sulla montagna triste. Il divorzio con il decalogo. La lunga

giornata del 15 marzo. Il progetto del romanzo. Il primo amore:

Paloma bianca. La gara di corsa.

 

 

Il 13 marzo corsi i 5000 metri in 21,52. Non è un bel tempo, ma

era il primo della stagione che, anzi, avevo anticipato di un mese.

Lo  stimolo era sempre Ifigenia che, pur non amandomi più,

né volendomi bene, mi spingeva ad agire e a patire per il mio

bene.

La sera le feci una densa lezione su Cesare e Cleopatra di Bernard Shaw : le serviva per l’esame di recitazione e ne fu contenta

 

: aveva il volto ridente, gli occhi socchiusi e la

semichiostra superiore dei denti un poco sporgente dal labbro

coperto da leggera peluria e appena rialzato9

 : riconoscevo l'aria

infantile, ingenua, quasi ferina dei primi giorni felici; sembrava

perfino che mi amasse di nuovo, o per lo meno che fosse

affascinata un'altra volta da me; invece, tutt'al più mi era grata,

siccome, nonostante il suo disamore, continuavo a sgobbare per

lei.

Il  14 marzo andai a prenderla all’uscita dalla sua scuola  per

invitarla sull'Appennino a prendere il sole. Era sabato, il mio

giorno libero. Entrai nel cortile con la bianca Volkswagen cui

avevo attaccato gli sci: la vidi subito  e

le chiesi se voleva venire al Corno alle scale per ripassare

l'abbronzatura. Fece due salti di gioia, come ai tempi belli della

sua supplenza, quindi si allontanò, di corsa, per impetrare il

permesso dai suoi maestri. Non fu difficile:  disse che doveva andare

da un medico.

Percorremmo il tragitto parlando di scuola e di esami; non

eravamo scontenti. Ma quando fummo arrivati su quella montagna

triste, senza sole, già priva di neve, non trovammo niente di

buono, né di nuovo da dirci. Si parlava ancora una volta delle

nostre emozioni vane e cattive. Ci fermammo un'ora soltanto.

Come fummo a Bologna, verso le sei, l'accompagnai a casa sua,

poi tornai nella mia. Eravamo d'accordo che ci saremmo sentiti

alle dieci per decidere che cosa fare.

Nota

9

Cfr. L. Tolstoj, Guerra e pace, trad. it. Mondadori, Milano, 1979, p.12.


 

 

 

Entrai nello studio illuminato dal sole finalmente sbucato dalle

invide nuvole vinte. Stava per tramontare tra i colli più bassi e

vicini alla grande pianura del nord: gradevole segno di primavera.

Eppure sentivo di essere completamente solo su questa terra, di

non provare interesse per alcuna persona vivente tranne la giovane

donna che non ne provava per me. Perfino lo studio, gli alunni, la

scuola, in quel tempo mi piacevano poco. Probabilmente Ifigenia non

poteva più amarmi proprio perché

mi

vedeva

privo di vita

indipendente da lei: di fatto ero meno vivo che morto. Andai in

camera a buttarmi sul letto: mi sentivo incapace di fare

qualsiasi cosa. Ripensai con struggimento ai vari periodi della

nostra storia, tutti meno infelici di quei giorni orrendi, e in età

nemmeno tanto verde10

 oramai.

Era stato meno brutto, sebbene

parecchio angoscioso, anche il periodo in cui non la amavo più, e

forse nemmeno lei amava me, però non voleva che la lasciassi.

Allora, distesa su quel letto con gli occhi socchiusi e il breve

labbro appena rialzato sui denti, le braccia aperte, le gambe

divaricate, impaurita come un gattino nero che miagola per il

terrore di essere abbandonato, "non ti deluderò-diceva-dammi solo

dell'altro tempo".

"Certo, tesoro-la confortavo-io starò con te il più possibile a

lungo: finché tu avrai bisogno di me, e in ogni caso non voglio

farti del male". Questo era vero, ma era pur vero che  ero

innamorato di un'altra. La situazione allora era penosa, ma quel 14

marzo di mia disfatta la rimpiangevo. Quella sera stessa accadde un fatto

imprevisto, anche se non imprevedibile, tale comunque che diede

un'altra svolta e altri sobbalzi alla nostra vicenda già declinante

per una strada accidentata e tortuosa.

Alle dieci le telefonai, poi andai a prenderla.  Avevamo preso

l'accordo di stare un paio di ore nel letto: il tempo di fare

comodamente l'amore. Lo facemmo un numero sufficiente di volte

e con discreta soddisfazione, mia se non altro. La terza però ci

eravamo stancati: a me era sembrato di pedalare in salita con un

rapporto troppo lungo; lo Stelvio con il 21 per chi sa di ciclismo; il

tipo di sforzo che danneggia il cuore, dicono.

Nota

10

Cfr. Leopardi, La sera del dì di festa, vv.23-24.


 

 

 

Stavamo facevando una pausa dunque e si riprendeva fiato, con gli occhi

rivolti al soffitto, quand'ecco che all'improvviso Ifigenia

disse:"Ti devo parlare". Rabbrividii, poi la guardai. "Dì pure".

"Gianni, io non avevo molta voglia di vederti e di stare con te

questa sera; anzi è da qualche tempo che non sento più spinte forti

verso di te; certo non come una volta".

Fece una pausa, ma  non intervenni."Tu non ne hai colpa-riprese-:

oggi sei stato particolarmente carino venendo a prendermi là. Ma

dopo, hai visto? Non c'era niente di buono da dirci. Abbiamo

parlato soltanto delle nostre emozioni malsane, e non ancora

smaltite evidentemente. Forse quanto sto dicendo non è giusto né

logico, ma adesso  sento così. Perciò non dobbiamo più

frequentarci, almeno per un certo periodo. Poi si vedrà".

"Ho capito", risposi con tono calmo e condiscendente. "Se tu senti

così, non porti questioni di logica né di giustizia, né, tanto meno,

di convenienza. Fai bene a lasciarmi. In effetti c'è molta

stanchezza tra noi: la provo anche io". Le accarezzai una guancia,

le feci un sorriso mesto e le domandai:"Toglimi una curiosità, anzi

un dubbio tesoro: hai ancora, o di nuovo in testa il maestro di

danza?"

"No", rispose in modo secco ma non tanto sicuro. In ogni caso mi

consolò un poco. Non soffrivo come la notte del 19 novembre:

oramai la decadenza estrema del rapporto mi aveva stremato e

sentivo anche io che ci voleva un rivolgimento, qualunque esso

fosse.

La guardavo con attenzione finché era nuda: poteva essere l'ultima

volta della mia vita. Glielo dissi.

"Non si sa- rispose-, non parliamo di questo. Lasciamo fare al

destino".

Le chiesi i consigli finali, il suo testamento spirituale per me. Mi

ha lasciato un decalogo o codice cui ogni giorno da quella sera

lontana ho obbedito.

"Conserva – disse - tutto il bene che hai ricevuto da me. Dimentica

il male. Non ingrassare, non bere alcolici, non imbruttire. Non

smettere di insegnare divinamente come sai. Rifuggi i vizi e le

debolezze della gente ordinaria. Ma soprattutto riprendi a scrivere

presto; questa volta però devi creare qualche cosa di grande:

racconta tutta la nostra storia, procurati e regalami la gloria eterna.


 

 

 

Mettici dentro le nostre giornate, le scene, i viaggi che già in sé non

sono banali; tu poi aggiungi lo stile dell'epico, dell'universale. Usa

la forza che hai dentro: tendila come un arco per colpire la sfera

emotiva dei lettori. Devi adoperare la penna come un martello

implacabile che stritoli i luoghi comuni: ricorda l'"atrox stilus "11

 di

Petronio . Devi farlo per me e per te stesso. Il talento ce l'hai.

Prometti?"

"Sì, farò tutto questo angelo mio, mia musa, te lo prometto".

"E io – domandò – che cosa devo fare per non perdere la tua

stima?"

"Tu sei bella e intelligente, creatura. Non degradarti, non lasciarti

corrompere dai mascalzoni o dagli imbecilli.  Non buttarti via. Continua a studiare,

a leggere, a pensare

con la

tua testa, a non accettare i

compromessi, a fuggire lontano dalla volgarità. Coltiva lo spirito.

Conserva l'aspetto splendidissimo di cui ti hanno dotata benigni

gli dei: sii sempre la bellezza che vedo adesso, che vidi la prima

volta due anni e mezzo fa, in questo letto. Bei tempi per tutti e

due, credo. Mangia con moderazione, non bere alcolici nemmeno

tu, non fumare, fai molta ginnastica che è la cosmesi migliore12.

  In

maniera correlativa al mio scrivere, tu devi recitare, poiché il tuo

destino migliore è fare l'attrice".

Ifigenia sorrise e  disse:"Farò tutto questo. Tu sei tanto caro

gianni". Poi mi accarezzò e cominciò a rivestirsi. Sarebbe finita

bene la nostra storia se fosse finita qui. Le guardavo il seno, le natiche, la

vita, le cosce, le braccia che si coprivano come si annuvola il sole,

e mi chiedevo se avrei potuto ancora contemplarla in camera mia,

nuda o svestita a festa."Vedremo", pensai, come mi aveva

suggerito lei stessa."Lasciamo fare al destino".

Quindi l'accompagnai a casa senza antipatia. Ci salutammo con un

bacio augurandoci buona fortuna. Come avremmo fatto il 15

giugno seguente. Sembrava un addio. Tornai subito a casa. Non

ero troppo infelice. Nel mio studio dilagava la luce di una luna

pienissima. Ero stanco e assonnato, ma il momento era solenne e

mi sentii in dovere di scrivere qualche parola.

Note

11

Cfr. Satiricon, 4:"ut verba atroci stilo effoderent ", in modo che correggessero

le parole con penna implacabile.

12

Cfr. Platone, Gorgia, 465b.


 

 

98

Ifigenia aveva rivelato un'anima nobile, lasciandomi quando

aveva ancora bisogno di me. L'esame  non era lontano:

avrebbe potuto resistere, per convenienza, altri quattro o cinque mesi;

invece se n'era andata poiché non sentiva più di amarmi e non

stava volentieri con me. Questo significava che non mentiva

quando diceva di amarmi; certamente era stata più schietta di me;

io di mia iniziativa non l'avrei lasciata mai, per tante ragioni, ma

soprattutto per l'utile. Prima di stendermi nel grande letto dove

forse non l'avrei vista altre volte, scrissi che la nostra vicenda si era

conclusa con  stima e gratitudine eterna per quella creatura mia

che mi aveva insegnato a essere meno insicuro, cretino e cattivo.

La mattina del 15 marzo, appena sveglio, cominciai a meditare.

Era domenica: ne avevo tutto il tempo, anche troppo. Dopo due

anni, quattro mesi e mezzo, quello era il primo giorno non

lavorativo che avrei passato a Bologna senza vedere né sentire

Ifigenia, con ogni probabilità. Mi ero talmente abituato a

vivere con lei e per lei, a ricevere le sue visite, le telefonate, le

richieste, che se davvero non l'avessi più vista, ascoltata, potuta

aiutare, avrei sentito il vuoto e il nulla. La mia decantata vitalità,

che l'amica Antonia aveva definito "faustiana", invero dipendeva

quasi tutta da quella ragazza. Eppure, sparita lei fisicamente,

dovevo leggere più di prima, correre gli stadi più di prima, in

tempi migliori; dovevo pedalare non solo su per il Monte delle

formiche, il Grappa e il Pordoi, ma pure il Gavia e lo Stelvio.

“Stelvio e Gavia per me pari son” gridai.

 E

scrivere un capolavoro dovevo. Un epos grandioso, un romanzo

con la visione, diurna e notturna, realistica e onirica, di un'epoca

intera. Non avrei sprecato con il vizio e nell'ozio il talento che la

bella donna aveva riconosciuto in me; non avrei sciupato

nell'inerzia, stando seduto a mangiare o steso a boccheggiare, il

fisico che a lei una volta piaceva, e forse le sarebbe piaciuto di

nuovo se non l'avessi lasciato andare in malora. Non avrei mai

abiurato il culto della

santa bellezza rivelata e consacrata

dall'amore di quella fanciulla benedetta. Non mi sarei più

abbassato a tresche con femmine deformi e cretine. L'amore di

ifigenia era il culmine della mia vita: di lassù potevo

osservarla intera, comprenderla, e raccontarne le quintessenze che

riguardano tutti. Avrei scritto una grande storia d'amore partendo

dalle emozioni di bambino per le bambine coetanee, poi, di


 

 

99

femmina umana in femmina umana, sarei arrivato al 14 marzo del

1981

 

Il ricordo dell’emozione più antica risaliva all'estate del '55: avevo 11  anni

non ancora compiuti,  mi trovavo a Moena. Mi impressionò

fortemente una citta bruna bruna, snella, vivace, vestita sempre di

bianco. La vedevo affacciata a una finestra: abitava sotto di me.

Non conoscevo il suo nome. La sentivo cantare un motivo con parole su

una paloma bianca come la neve, come la neve. La pensavo quale colomba di

due colori: candido, come la canzone e il vestito, nero come i suoi

capelli lunghi e lisci. Fu il primo anno che a Moena non passai le

mattine aspettando, invano, la posta della mamma mia spensierata e leggera o irata e furente.

 Impiegavo il tempo cercando un'occasione

per

conoscere la bambina preziosa e parlarle. Un giorno avvicinai

suo fratello, un  bimbo di sei o sette anni.

 Lo invitai a giocare, e

quando la madre, una donna di occhi e di capelli nerissimi 13

, lo

chiamò in casa, gli chiesi se potessi salire anche io. Disse di sì;

anzi ne fu contento poiché uno più grande lo degnava della sua

compagnia.

Con questo stratagemma da Ulisse entrai nel loro

appartamento. La sorella però purtroppo non c'era, e, quando

giunse, non mi rivolse lo sguardo. Ci rimasi male assai, ma non

desistetti.

Qualche giorno dopo, verso la fine dell'estate, mi accorsi con

strazio che in quell'amore non contraccambiato avevo pure un

rivale: un ragazzotto di 13-14 anni che abitava al primo piano

della nostra casa di via Damiamo Chiesa, Paloma dimorava al secondo, io con la zia Giulia al terzo piano.  Li osservavo dalla finestra: parlavano volentieri,

senza nascondere qualche complicità. Dovevo superare lui agli

occhi di lei, ma ero piccolo io, minuto e malvestito. Quello era

grande, massiccio, anche

un po' prepotente: qualche volta

prendeva a calci i bidoni della spazzatura o le cataste di legna e

gridava. Mi sembrava un adulto rozzo, quasi bestiale. Cosa potevo

fare contro tale ciclope?

Un pomeriggio, mentre uscivo da casa, li vidi sorridersi davanti al

portone. Mi venne in mente un'astuzia da condannato a morte14

 .

Mi avvicinai, chiesi se sapevano l'ora, feci una o due osservazioni

insignificanti, quindi sfidai quel Carnera a una gara di corsa lì

Note

13

Cfr. Leopardi, Operette morali, Dialogo della Natura e di un islandese.

14

Cfr. M. Proust, Dalla parte di Swann, trad. it. Einaudi, Torino, 1978, p.32.


 

 

 

davanti: in via Damiano Chiesa fino alla fontana del Turco, poi in mezzo al campo dei cavoli,

delle patate in fiore, e delle farfalle bianche. Volevo mettere in

lizza l'agilità alata contro la brutalità greve. Non poté rifiutare.

Mentre si parlava dei termini della sfida, feci in modo che si

avvicinassero e volessero partecipare altri ragazzini del rione,

villeggianti e moenesi. Flavio, "lo strullo", fu eletto giudice.

Bisognava correre su un circuito di  un chilometro circa. Paloma osservava  i

piccoli maschi  agonisti stabilire le regole e spiegarle a Flavio che

sorrideva a tutti e augurava la vittoria a ciascuno di noi. La guardavo di

sfuggita: mi sembrò pallida e più bruna, più bella che mai.

Speravo che fosse in apprensione, se non per me, almeno per il

risultato. I capelli li aveva nerissimi, come la madre sua e la mia, gli occhi

 

azzurri anche questi come la mamma ; i bambini del resto non danno agli occhi

l'importanza dovuta: trovano maggiore significazione nel naso,

nelle guance, nelle labbra, e, appunto nelle chiome; forse perché

sono parti più concrete, afferrabili, accarezzabili. Da me per altro

soltanto nei pensieri e nei sogni, ché nemmeno la mamma mia si

lasciava accarezzare. La trovavo così attraente che ne tremavo, sia

vedendola al brillare del sole, sia ricordandola alla lume della

luna. Speravo di rendermi degno di tanto splendore vincendo la

competizione che avevo voluto. Pensavo che se mi avesse

approvato, avrei potuto

gettarmi dentro i crepacci della

Marmolada senza morire. Le ali, mi sarebbero spuntate. Né le

vipere che mi terrorizzavano avrebbero potuto nuocermi, né i lupi

dei boschi, né i preti minacciosi, né le zie sempre pronte a

sgridarmi, proprio nessuno. E della posta che non arrivava, non mi

importava un fico. Finalmente avevo trovato una ragione per non

soffrire dell'amore non contraccambiato dalla

mamma

. L'interessamento di Paloma dovevo meritarlo. Sapevo

che nessuno ammira nessuno per niente, e sapevo pure di valere

qualche cosa correndo. In fondo da allora poco è cambiato,

sebbene siano passati decenni. Il tempo infatti non è reale, e l'arte

deve svelarne l'apparenza illusoria. Esso porta a ciascuno la

formazione della  sua identità che si viene scoprendo e

consolidando negli anni. Finché l'uomo muore e poi, forse, come

affermano molti saggi, l'opera ricomincia, o continua a crescere  in

un'altra figur di forma diversa,.


 

 

 

Flavio dunque diede il via. Partimmo in una decina. Il mio rivale

in amore correva davanti a tutti: si era piazzato

in prima

posizione, sgomitando e facendo valere la mole. Infilammo lo

stretto sentiero che attraversava l'orto con i cavoli e le patate, in fila indiana: io seguivo

l'aborrito ragazzo come un ombra, ché  l'avversario da battere era

lui. Gli altri infatti rimasero presto staccati. Nemmeno quel

grossolano era portato alla corsa: quando sbucammo in via

Damiano Chiesa sentii che ansimava molto più in fretta di me, e lo

superai senza difficoltà. Anzi, allungai pure un poco il percorso,

per stare alla larga dalle sue mani che infatti allungò per

ghermirmi, farmi cadere e  grattare il ventre nel duro pavimento15.

 

Ma non riuscì ad acchiapparmi. Sicché tagliai il traguardo per

primo. Flavio esultava, Paloma per niente. Se fosse stata meno

stupida e vana, quella brunetta avrebbe compreso chi era tra noi

due il più capace, poiché avevo voluto e vinto la gara; chi il più

onesto, siccome non avevo imbrogliato; chi nella vita avrebbe

combinato qualche cosa di egregio se ero stato io, piccolo, minuto,

 e malvestito, anche malato andavano dicendo le zie a chi

le ascoltava, a prevalere su una schiera di ragazzini meglio tenuti e

pasciuti di me. Non osai avvicinarmi a lei: speravo che venisse  a

dirmi qualche cosa; almeno:"bravo! Come ti chiami? Di dove

sei?"

Le avrei risposto:"Mi chiamo Giannetto, sono di Pesaro, l'ho fatto

per te. Chiedimi cose più difficili, molto più difficili: per te tirerò

giù le stelle dal cielo". Credo che se mi avesse rivolto un sorriso,

quel giorno mi avrebbe commosso più che se oggi mi sorridesse

l'intero universo, o Dio stesso. Invece andò dallo sconfitto, e con

un'espressione radiosa, fine, che contrastava con il ceffo sudato di

quel gaglioffo, disse senza ironia:"Bravo, siamo arrivati secondi".

Smisi  di adorare Paloma, però mi accade ancora di ricordare il

volto bianco incorniciato dai capelli neri di lei, quando osservo la

luna alzarsi dagli alberi scuri di una tacita selva.

Partendo da quell'immagine bruna dunque sarei arrivato all'icona

di Ifigenia che mi aveva lasciato la sera prima.

Ho continuato a sentirmi attirato dalle ragazze brune a innamorarmi di loro. Fino alla Päivi che era rossa.

Arrivato alle scuole medie Lucio Accio poche settimane più tardi mi innamorai di Marisa che oltre essere bruna e carina era la più brava della sezione femminile. Studiavo anche per prendere voti non meno alti dei suoi.

Li confrontavamo.  Non ho mai potuto accarezzare nemmeno lei, ma con Marisa almeno potevo parlare. Un passo alla volta nell’apprendistato amoroso. Ma non bisogna procedere troppo adagio. Troppo breve è la vita umana anche se centenaria. Oggi al mare la sorella di Marisa mi ha detto che  è morta pochi giorni fa. Le aveva detto di di me che ero molto bravo a scuola. “Non più di Marisa. Mi dispiace molto. Sono sempre stato un ammiratore di tua sorella”

Se  lo avessi saputo in tempo sarei andato al funerale e avrei accarezzato la bara. Dedico questo capitolo all’antica compagna nelle scuole Lucio Accio e Terenzio Mamiani. E’ stata una delle persone più importanti della mia vita.

 

Pesaro 31 agosto 2024 ore 18, 19 giovanni ghiselli

p. s.

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