NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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giovedì 29 agosto 2024

Settimana bianca a Moena Quinta parte.


Argomenti

Il pensiero malato

della verginità. L'isolamento antico. "Perché tardi son giunto ".

Accettazione della solitudine. La stanza di Desdemona. Il

colloquio immaginato con la figlia immaginaria. L'incontro alla

stazione di Trento. L'unione misera. La tristezza e l'abbronzatura

forzata nel freddo arrabbiato

 

 

Qualche ora più tardi sarei andato alla stazione di Trento, a

prendere Ifigenia.

A un tratto mi aggredì il pensiero malato della verginità.

Volevo

respingerlo. Salii sul ciglio della parete e mi fermai a osservare il

rio San Pellegrino che scorre circa un chilometro sotto. Notai un piccolo

ponte di legno che una volta non c'era. Vi giunsero alcuni bambini

che cominciarono a giocare: gettavano palle di neve e pezzi di

ghiaccio nell'acqua corrente che li trascinava verso l'Avisio;

gridavano con voci liete  alcune parole che di lassù non potevo

capire.

Allora mi sorprese il ricordo del pomeriggio di un agosto remoto.

Mi trovavo sullo stesso sentiero, e osservavo dall'alto lo scorrere

eterno di quel torrente. Quand'ecco che sul greto vidi

arrivare un gruppetto di bambini della mia età che subito dopo si

misero a giocare con l'acqua e con i sassi. Mentre li guardavo, mi

accorsi che uno di loro era Gianluca, un mio amico dell'anno

prima. Insieme eravamo scesi

giù per i prati con una slitta di

legno, avevamo seguito le partite di bocce, e avevamo parlato

 dei problemi con i nostri parenti  in un giorno di pioggia, riparati sotto un

castagno dalle foglie grandi, lucide, scure, simili a ombrelli. Mi

piaceva passare il tempo con lui. Quell'estate però, sebbene fosse

già la fine di agosto, non lo avevo ancora incontrato. Come lo vidi,

provai gioia. Cominciai a chiamarlo, ma non mi sentiva. Mi diedi

ad agitare le braccia, mentre gridavo il suo nome con tutta la mia

esile e acuta voce di bimbo. Ero troppo lontano, troppo in alto, e

Gianluca non guardava in su siccome tutto  impegnato a giocare

con gli altri e con i ciottoli del greto.

Dopo  alcuni tentativi, fui certo che  di lì non potevo attirare la sua

attenzione; allora mi precipitai giù per il pendìo. Correvo, saltavo,

 

 

mi rotolavo: mi graffiai, mi sbucciai, mi ammaccai in più punti. In

breve arrivai nel fondo. Desideravo tanto parlare con quell'unico

amico, e conoscere gli altri. Ma quando fui giunto, non c'era più

nessuno. Mi trovai solo, a fissare il torrente che con la schiuma

lamentosa tormentava le pietre. Girai per tutta la zona, poi per

l'intero paese cercandoli: invano. Ne fui addolorato: dovetti

passare in solitudine anche quel pomeriggio e  gli altri che

rimanevano.

"Sono stato molto solo a Moena", pensavo il sei marzo del 1981

ricordando l'episodio di venticinque anni prima. "In quelle estati lontane, tra questi

monti, si prefigurava la mia vita di adulto solitario".

Volli riprovare a percorrere l'erto pendio per avvicinarmi ai

bambini, per ascoltarli e raccogliere segni  vocali del volere divino

attraverso le loro parole, forse profetiche. Mentre

scendevo,

continuavo a guardarli. Ebbene, quando fui a metà, i fanciulli

andarono via di corsa. Allora mi dissi:

"Che cosa significa questo?"

"La mia tendenza a giungere tardi".

Mi vennero in mente alcuni versi di un poeta magiaro , Juhàsz

Gjula, morto suicida nel  1937:

"Perché tardi son giunto.

So già il peso della mia sorte,

la segreta tristezza e perché non v'è speranza,

perché è pallido l'arcobaleno sul cielo del mio destino

e presto viene la notte. Perché tardi son giunto...

Perciò nessun dizionario mi dà nuovi verbi...perché tardi son

giunto

Perciò non ebbi nella schiera delle fanciulle

un cuore a me devoto...Perché tardi son giunto"

Juhàsz si era ammazzato con il veronal, diceva il manuale di storia

della letteratura ungherese, in quanto non era riuscito a rompere il

cerchio della solitudine.

"Devo farlo anche io?" Mi domandai. "No", mi risposi. "Dal mio

arrivare tardi posso trarre un senso positivo. Significa, è vero,

restare solo, spesso penosamente,  ma questo porta anche a riflettere

sulla mia stranezza, sulle mie sofferenze, fino a farne mezzi di

crescita personale e di solidarietà umana. Se negli anni Cinquanta

a Moena non fossi stato tanto solo, non mi sarei abituato fino da

 

 

 

allora a indagare me stesso, ed ora non avrei coscienza di me: sarei un'altra

persona, e non credo migliore.

Più tardi, con le donne, il mio giungere tardi si è ripetuto.

Elena era incinta di un altro, Kaisa aveva già il marito e un figlio, Päivi abortì la figlia sua e mia, poi disse che non voleva più vedermi. Ifigenia, se l'avessi

incontrata con qualche mese di anticipo, forse avrebbe cambiato la

mia vita solitaria. Aveva detto che quando mi vide la prima volta,

nel novembre del '75 , da studentessa, le ero piaciuto assai, ma lei allora non era matura

   per cominciare, e quando sentì

giungere l'ora, nella primavera del '77, mi vide malamente

ingrassato. Allora iniziò con un altro, e anche per questo non mi

sono sentito in dovere di fermarmi con lei. Mi vergogno ad

ammetterlo ma è  così. D'altra parte, se l'avessi sposata, non sarei

andato avanti su questa mia strada che mi porta a educare i giovani

con tutta la forza, parlando e scrivendo, siccome avrei dovuto

affrontare problemi più pratici. Il  ritardare dunque, lo stare in

solitudine a riflettere, a fantasticare, a studiare e ricordare, sono parti

essenziali del mio destino e del mio carattere: mi sono state

indispensabili per comprendere e valorizzare il meglio di me.

Perciò non suicidio, ma accettazione del fato, anzi amor fati,  poiché nel destino è insita una

giustizia profonda eppure perscrutabile.

Ifigenia, certamente non è la pessima della ghirlanda, e con i

problemi di cui mi onera, mi fa scoprire nuovi burroni di

solitudine e di sofferenza, però mi apre anche sublimi varchi di

luce sopra la testa.

Adesso sono inquieto poiché non ho trovato la mia posizione

naturale, come una tartaruga rovesciata "[1].

 

Terminato questo pensiero, ero arrivato a recuperare l'automobile.

Più tardi in albergo mi preparai per l'incontro. Volevo piacerle. Mi

lavai,  mi feci la barba, mi vestii sotto e sopra con cura particolare.

Poi scesi dal portiere e  mi feci dare la chiave della stanza dove

avrebbe dormito la signorina. Avevo preso una seconda camera

per non dare alle zie  la certezza e la prova della nostra

intimità. Avrebbero anatemizzato la ragazza. La stanza era

 

 

 

 

 

luminosa, con vista sui monti pallidi che, posti a oriente, la sera si

tingono di rosa, come una donna che vuole incontrare l'amante.

Però la chiave non serrava la porta.

"Qui non si può fare l'amore con tranquillità-pensai-, brutto

segno".

Dopo l'ispezione andai a cenare, quindi partii per la stazione di

Trento. Durante il viaggio non lungo né brevissimo, fantasticavo.

Immaginavo che dentro l'automobile, di fianco a me ci fosse una

bambina bella, bruna, vivace, simile a Ifigenia, a Elena, e pure

 a me. La nostra creatura immaginaria mi domandava:

"Dove andiamo, gianni?"

"Alla stazione di Trento cocca, incontro alla mamma", rispondevo.

"E' bella la mamma?"

"Sì molto. Tua madre è una donna straordinaria: la più bella e

intelligente del mondo".

"Più bella di me?", voleva sapere, con rivalità tipicamente

donnesca.

"No", rispondevo con qualche imbarazzo, benché sia portato a

corteggiare le femmine umane di ogni età, condizione e razza,

siccome in tutte trovo qualcosa di interessante e degno di essere

indagato. "Lei è la  migliore di tutte le donne;

tu sei la cittina più bella del mondo".

"Sì, ma a te chi piace di più?"

"Mi piacete

entrambe", concludevo da gesuita, senza dire che

Ifigenia mi  piaceva di più perché con lei facevo l'amore. E

perché  era ancora reale.

Così tenni occupato il cervello durante il viaggio da Moena a

Trento dove arrivai poco prima del treno. La mia donna era bella e

sicura di sé. Quanto mutata da quella che era arrivata in ritardo un

anno prima, da me che la disprezzavo!

Mi raccontò dei suoi progressi all'Antoniano e del suo ottimo

insegnante. "Ottimo ma non attraente-aggiunse subito-: ha la

pancia".

"Meno male", borbottai. Poi dissi che l'avevo pensata molto, nel

bene e nel male.

"Non pensarmi troppo-ribatté-soprattutto nel male, poiché dopo

vengono fuori le scenate telefoniche come quella di ieri che

francamente mi ha turbata parecchio".

 

 

Non risposi: non volevo indagare sull'argomento con il rischio di

precipitare nell'angoscia scoscesa; piuttosto bisognava fare l'amore

innumerevoli volte, fino a perdere il fiato e la lucidità della mente.

Però compresi che la mia brutta telefonata era stata presa male

assai.

Quando, verso mezzanotte, arrivammo alla Campagnola, salimmo

subito in camera mia e facemmo l'amore due volte; la seconda con

una certa fatica. Quindi Ifigenia disse che aveva sonno e

voleva andare a dormire.

"Va bene-bisbigliai-, vestiamoci. Ti accompagno". La seguii fino

alla porta della sua stanza, senza dire altro. La salutai e tornai nella

mia.

Mi spogliai e mi infilai nel letto. Mi chiedevo quale fosse il

significato dell'accaduto. Mi tornò ancora in mente il nostro

rivederci dell'anno precedente, il primo marzo del 1980. L'incontro

alla stazione di Trento, il viaggio fino a Bologna, poi il sesso nel

mio grande letto. Due orgasmi pure quella sera, due miseri

orgasmi.

Allora con dolore e con pianto lei aveva notato che io non l'amavo

più: infatti nel marzo del '79 l'amore lo facevamo sei, otto volte, ed

erano altrettanti tripudi dionisiaci moltiplicati per due.

Le nostre guance si adornavano di fossette coribantiche scavate dal sudore e dal piacere

"Adesso è lei che non mi ama-pensai-. Devo farglielo notare".

Saltai fuori dal letto, mi rivestii, e tornai in camera sua, di corsa,

per domandarle se il mio ragionamento filava. Sapevo bene che

non faceva una grinza.

Ifigenia rispose che le due situazioni non erano uguali: l'anno

prima eravamo arrivati alle dieci di sera, a Bologna, dove

avevamo a disposizione una casa con talamo matrimoniale; lì a

Moena era quasi l'una, il letto era singolo, un pò cigolante, e noi

dovevamo stare attenti a non fare rumore per via delle zie

inevitabili, capaci di controllarci perfino lassù: bastava una

telefonata al padrone dell’albergo che era anche il cognato della zia Giulia.

 

Sofismi, calo, adulterazione della passione: she has lost her

passion[2] .

 

"Va bene" dissi, per niente convinto. "In effetti è tardi. Vado a

dormire. Ci vediamo domani".

 

 

 

Nel cuore sentivo che quella ragazza, bella, aspirante al successo,

stava diventando una donna, e come tale non mi voleva più: non

aveva altra ragione che l'esame del corso di recitazione per restare con me che le spiegavo e inquadravo i testi degli autori dei drammi.

Del resto non ero

giovane e  bello come lei,  né ricco, né famoso come quelli che la attiravano. Mi mancavano i

numeri per una giovane donna di quello stampo, troppo diverso dal mio. Invece di dormire, mi inabissavo

nel naufragio della mia sorte.

 

 

La mattina appena sveglio, sentii un gran desiderio di Ifigenia

che prevedevo radiosa  come il sole, quando sorge in primavera,

né presto né tardi, dai monti del passo San Pellegrino ancora

innevati. Infatti apparve, luminosa, nella sala da pranzo dove

l'aspettavo da alcuni minuti. Dopo la colazione salimmo all'Alpe

di Lusia. La ragazza sedette su una panchina di ferro, davanti al

rifugio Le Cune nell'aria ghiaccia ma assolata , per abbronzarsi; io

feci alcune discese fino a mezzogiorno, quindi tornai da lei.

Il vento soffiava sempre sbuffi gelati. Stare lì fermi era una pena.

D'altra parte, siccome il sole era alto, ci rimordeva perderlo,

rinunciando a non poco colore, se fossimo entrati nel rifugio scaldato dai

termosifoni. Preferimmo rimanere a patire nel freddo arrabbiato

ma pieno di luce. Parlammo poco: dovevano essere assiderate pure

le lingue. Le cattiverie che avevamo da dirci le tenemmo in serbo

per la sera. Ricordo soltanto una mia osservazione che a lei

piacque. A un certo momento soffrivamo l'aria raggelante al punto

che pregavamo le nuvole

di nasconderci il sole

e darci

l'autorizzazione a entrare nel rifugio senza rimorso. Ma quelle, pur

assediandolo, non arrivavano a coprirlo, e il dio luminoso

continuava a irradiare proprio soltanto nel luogo dove eravamo

seduti noi, senza intiepidirci del resto.

Dissi:"Questo sole, come il nostro amore è algido, scontato e

noioso siccome c'è da tanto tempo e sembra che non voglia

sparire. Ma se dovesse eclissarsi o tramontare, ci lascerebbe sotto

un povero cielo senza colori , in un buio infernale privo di vita. Se

non ci fosse lui, a stare alle altre stelle sarebbe sempre notte[3] .

 

Ifigenia trovò interessante la mia osservazione. Disse che ci

avrebbe pensato sopra.

 

 

 

 

Pesaro 29 agosto 2024 ore 16, 40 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Cfr.Seneca, Ep., 121, 8 Nullum tormentum sentit supinata testudo, inquieta est tamen desiderio naturalis status nec ante desinit niti, quatere se, quam in pedes constitit” (Seneca Ep. 121, 8)

 

 

[2] Ha perduto la sua passione. Cfr. T. S. Eliot, Gerontion, 61.

 

[3] Cfr. Eraclito, fr.44 Diano

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