Ignari di tutto, risalimmo sul pullman e domandai all’uomo rimasto là dentro a quale ora del pomeriggio del 28 e da dove partisse la corsa Atene-Patrasso. Costui, appena sentì dire “Patrasso”, ripeté a voce alta “Patrasso! Patrasso!” non certo con il tono della ninfa vocale che echeggia i suoni, la resonabilis Echo[1].
Il grido del primo energumeno ne attirò un altro dal ceffo coperto con occhiali scuri; anche costui, appena entrato nel bus si mise a urlare: “Patrasso, Patrasso”, poi chiuse la porta, si accostò a Ifigenia che si era rivolta al primo ciclope con aria interrogativa e con una manata immonda osò profanarne le cosce abbronzate, nude sotto i calzoncini bianchi e talmente succinti da lasciare vedere l’orlo delle mutande celesti. Così acconciata era eccitante anche per me che avevo fatto l’amore centinaia di volte con lei, senza annoiarmi mai, quasi mai. Sia chiaro che non sto giustificando i bruti.
Anzi voglio ricordare che quando la ragazza pedalava sulle salite alzandosi sopra il sellino, i maschi che ci superavano in automobile la applaudivano acclamando, cosa che in quei momenti di fatica poteva averle fatto piacere né dispiaceva a me, però quel pomeriggio nella corriera chiusa la libidine scatenata dalle sue cosce in quei due forsennati diede molto fastidio e fece paura a noi due. Ifigenia così brutalmente toccata si girò con ira e cercò di scagliarsi verso l’uscita, ma il mostro dagli occhialoni neri aprì le braccia immonde per sbarrarle la strada, mentre l’altro, cieco solo di mente, afferrò una chiave inglese e avanzò minacciosi verso di me latrando “Patrasso, Patrasso!”. Seguì una bestemmia poi su`kon, su`kon!!! che non traduco per pudicizia[2]. Il greco e il latino a volte ci consentono di evitare la sconveniente parola italiana.
Mentre mi preparavo a difendermi dal bigliettaio, Ifigenia, con presenza di spirito, fece cadere un pezzo di carta davanti ai piedi del mostro malato di vista oculare e mentale, poi cominciò a chinarsi come se volesse raccogliere un documento importante, sicché quell’animale tratto in inganno, prima calpestò la carta, poi si chinò a sua volta per prenderla: allora la ragazza si raddrizzò, scattò e con un balzo scavalcò la belva ottusa, quindi corse verso la porta anteriore, l’aprì e saltò giù dalla corriera. Quindi cominciò a gridare: polizia!
Il mostro occhialuto, deluso per avere perduto la preda, si mise a sputare sul pavimento tirando fuori la lingua come un serpente; l’altro lasciò cadere la chiave inglese e bestemmiò in italiano; io avanzai verso la porta e quando arrivai vicino al cieco di mente, gli dissi: “scostati, voglio uscire di qua prima che arrivi la polizia”.
Quello latrò ancora “Patrasso, Patrasso, italiano, Patrasso!”, poi mi lasciò uscire.
Per fortuna non era corso del sangue né altro liquido organico a parte lo sputo di quel farabutto.
Ci allontanammo, mentre quei due ciclopi, o Calibano il diavolo incarnato e il buffone Trinculo che fossero, chiamavano i loro colleghi forse per dire che erano stati aggrediti e derubati da noi. Sul ritorno alla nave andammo a informarci in un ufficio. Quindi prendemmo un taxi per piazza Omonoia ossia Concordia, il centro della città. La deriva dello scontento reciproco che ci avrebbe separati per sempre stava crescendo dentro di noi. Era diventato un male incurabile, un tumore in operabile.
Pesaro 26 agosto 2024 ore 10, 52
giovanni ghiselli
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