Il sole finalmente riuscì a svilupparsi dal mare cupo e fremente, ma la fine della stagione meno dolente era vicina.
Non ci eravamo detti ancora nulla e pensai che fosse già tempo di tentare uno scambio di parole: nel girare la testa verso la compagna di viaggio, la vedevo immusonita: poteva essere soltanto assonnata, ma pure scontenta di andare in Grecia con uno che non si impegnava a dire qualcosa di significativo.
Le feci segno di accostarsi, poi cominciai “Ifigenia, guarda il sole che si riflette nel mare raddoppiando il suo fuoco: non sembra una bomba atomica appena scoppiata, l’inizio della grande conflagrazione ignea che tutto distrugge, poi tutto rinnova?”. Intendevo farle capire che speravo in un salutare rinnovamento tra noi. Ma quella, sgradevolmente colpita dall’idea apocalittica, non tenne conto dell’auspicata catarsi seguita da una palingenesi: mi guardò con rancore, fece un gesto di scongiuro e disse: “le tue fantasie catastrofiche d’ora in avanti, poeta, tielle per te”.
Non risposi. Mi vennero in mente altri suoi atti e parole di questo genere alquanto ignobile, se non anche triviale.
Gleli suggeriva la superstizione. Un segno di debolezza, di scarsa autostima.
Sul nostro fallimento meditavo con dolore attraversando Fano ancora addormentata. Pensavo alla bellezza corporea di Ifigenia ancora non prossima alla china da dove non si risale.
“La magnificenza somatica-dicevo a me stesso che pure da anni curavo molto il mio aspetto con l’ascesi sportiva, il mangiare limitato al necessario e l’abbronzatura- se è scompagnata dall’intelligenza e dalla virtù sfiorisce presto e lascia nell’invalidità chi ha sperato di conquistare il mondo brandendo il proprio corpo quale arma inoppugnabile e irresistibile. Ifigenia ha cambiato i modelli e rifiuta con odio la mia educazione, quindi commette l’errore di attribuire alla propria venustà un valore assoluto, preponderante su tutti gli altri e capace di farle raggiungere qualsiasi meta.
Ma la bellezza da sola è un bene fragile e assai per tempo caduco. E’ come un ramo fiorito che il vento di aprile disfiora, è come il fiammeggiante papavero che la calura di giugno scolora, è come il grano giallo che brilla nella luce lunga dei giorni più belli dell’anno, finché la falce lo miete spietata e l’avido agricoltore lo chiude nel buio di un sacco. E’ come la fragile foglia che il primo temporale di agosto strapazza, stacca dal ramo e trascina nella fangosa pozzanghera.
Soltanto i fiori dell’anima diventano i frutti che il volgere dei mesi e delle stagioni non possono portare via.
Questi vivono eterni: il Bene che fai, l’Amore che dai e ricevi, la Giustizia che rendi, il Bello che crei, il Vero che trovi.
Ifigenia mi ha aiutato in questa ricerca, ma non posso dirglielo perché prenderebbe la gratitudine rivolta a quanto ha fatto per l’elevazione dell’anima mia come un giudizio limitativo della parte fisica, epidermica del nostro rapporto e della propria magnificenza corporea. Il fatto è che io per fruirne al massimo grado ho voluto trarne la spinta a indagare e migliorare me stesso. Facendo l’amore con lei, mi sono spuntate le ali necessarie per elevarmi dalla bellezza terrena a quella celeste”.
Questo sarebbe stato il riconoscimento più pieno di quanto e quale bene mi aveva fatto quella giovane donna, ma non potevo dirglielo, siccome le sue mire puntavano su bersagli bassi oramai, e io che seguitavo a percorre una strada in salita per potenziarmi e raffinarmi l’anima, non avevo più alcun credito presso di lei.
Provai a interessarla citando Dante che un tempo non le spiaceva.
“Ho io grazie grandi appo te?”
Ma quella ringhiò: “Sta’ zitto, letterato da strapazzo, pedala e lasciami pedalare!”
Aveva smesso di leggere e non riconosceva le mie citazioni, oppure le davano noia. In Grecia però voleva arrivare e io, pure in quella situazione penosa, avrei imparato dell’altro da lei. Soffrendo molto dopo avere molto gioito.
Pesaro 23 agosto 2024 ore 18, 43 giovanni ghiselli
giovanni ghiselli
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