Dopo avere coperto le nostre nude scelleratezze con stracci sbrindellati uscimmo di corsa. Seguendo le indicazioni dateci dal portiere andammo a cambiare le lire in una strana banca ipogea aperta fino alle ventidue.
Quindi facemmo una pace precaria. Ci diede argomenti comuni e una schiarita all’umore il cibo gustoso preparato e servito da un cuoco epicureo di ottimo umore. Poi andammo nel teatro di Erode Attico situato sotto l’acropoli e la luna che la rischiarava. L’orchestra suonava la musica rasserenante di Mendelsshon. Questa fu il secondo alimento che ristorò le nostre persone sfinite dalle schermaglie di amanti falliti. Sicché potemmo tornare nell’albergo e metterci a letto abbastanza concordi per augurarci la buona notte con carezze e sorrisi. Tuttavia evitammo di fare del sesso. Ci sapeva di ybris che prima verdeggia poi diventa una spiga di acciecamento che, appena falciata, dà una messe di lacrime[1].
Spenta la luce e rimasto solo con il tempo di concedermi un poco di otium cum dignitate, cioè con pensieri forse non sciocchi del tutto, mi domandai come avessimo fatto a trasfigurare il nostro amore che era bello, gioioso e variopinto come una festa panatenaica, riducendolo a un susseguirsi di lamenti e gemiti intervallati da esplosioni di rabbia. C’erano state offese reciproche anche gravi, egoismi sesquipedali, indifferenze da cozza dell’uno alle umane sofferenze dall’altro. Avevamo perduto del tutto la fiducia reciproca. Ifigenia cercava altre guide, altri modelli nell’ambiente dello spettacolo. Io dubitavo della mia identità di educatore visto il risultato di questa relazione nata con l’intento della paideia reciproca. Mi tornò in mente con brivido di raccapriccio e spavento la crisi di identità sofferta fino a volerne morire quando ebbi terminato il liceo. Quasi due anni durò. Non sostenevano più la mia vita lo studio e lo sport: le due colonne che l’avevano sostenuta dai 6 ai 19 anni.
All’università la buona riuscita negli esami dipendeva da un sapere mnemonico di manuali e appunti presi a lezione su un corso monografico molto particolareggiato e isolato da tutto il resto, compresa la vita. Dovevo imparare una congerie di nozioni slegate tra loro: un sapere senza sapienza [2]che conferisce bellezza e potere alla vita.
Ho sempre avuto una memoria straordinaria, ma usare soltanto quella non mi bastava più: avrei voluto avere una visione d’insieme della letteratura, della storia, della filosofia e a quell’età avevo bisogno di una guida, per lo meno di un metodo per fare ricerca. Ma tutto si riduceva ai tecnicismi delle lingue, alla visione molto psarticolareggiata di alcune parole isolate dal contesto. La sinossi panoramica della cultura adulta non me la faceva intravedere nessuno, a parte il professore di lingua e letteratura inglese, Carlo Izzo che ricordo con stima e affetto, ma la sua disciplina nel mio corso di studi era solo complementare.
Il corso di letteratura latina, un esame invece fondamentale, tanto per fare un esempio, verteva su “La corrispondenza poetica di Dante e Giovanni del Virgilio”. Quando iniziai a insegnare latino non avevo mai sentito nominare Lucrezio né Lucano. Sentivo che la preparazione richiesta per gli esami non era adeguata al lavoro che avrei voluto fare: non bastava a informare, e, tanto meno a educare. Sicché studiavo malvolentieri solo per superare gli esami.
Cercavo consolazione nel cibo, ingrassando e perdendo tanto la lena necessaria per gli agoni quanto la voglia. Insomma la mia per un paio di anni fu una vita da aspirante suicida. Avevo perduto la mia fierezza di adolescente per quanto ero diverso dalle persone mediocri, uniformate all’insignificanza, e, anzi cercavo di conformarmi a loro, assai goffamente oltretutto, senza riuscirvi, per cui venivo disprezzato da quelli che un tempo ero io a disistimare. Nel 1981, passati i trentacinque non sarei certo ricaduto nell’errore che mi aveva azzerato tre lustri prima , però temevo che sbagli del genere potesse farli Ifigenia. Io a ventun anni per fortuna, per il risveglio della mia coscienza e con l’aiuto di Euripide citatato sopra e di Fulvio ora amico celeste, avevo capito che alla gente usuale non mi sarei mai potuto assimilare, né del resto sarei stato accolto bene da quanti erano troppo diversi da me[3], sicché iniziai a recuperare la mia vera natura fisica, culturale e morale. Il movimento del ’ 68 mi diede altro aiuto, poi gli scolari della scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta e la collega umanissima Antonia, vicepreside una mamma vicaria.
Divenni capace di solitudini anche lunghe e paurose eppure sempre meno difficili e dolorose dei tentativi maldestri di riuscire gradito a gente cui non piacevo e che non mi piaceva.
Temevo però che Ifigenia non fosse capace di tanto e che si imbrancasse con gente avvezza al male più che al bene
Pensavo all’incirca queste parole: “Anche Ifigenia dovrà passare una crisi di progresso, o, dio non voglia, di regresso, sulla nuova strada che ha preso. Se mi chiederà aiuto, glielo darò. Ha dieci anni meno di me e la sento anche come una figlia. Ci siamo pure amati e perfino educati, reciprocamente, in questi tre anni. C’è del vero in quanto mi ha rinfacciato oggi. Non è falso che io mi guardo dall’irrazionale perché ce l’ho dentro e mi spaventa, che coltivo maniacalmente l’ordine e la disciplina perché temo di ricadere nel caos. E’ vero che noi detestiamo con forza gli orrori presenti e vivi, e attivi dentro di noi. Ciò che è estraneo alla nostra natura non ci fa tanto ribrezzo. Perciò i monchi minacciano i monchi, gli orbi detestano gli orbi e gli storpi sputano in faccia agli storpi.
Con queste immagini di stampelle, di occhi spenti e di sputi che turbinavano davanti a me, mi addormentai,
Pesaro 27 agosto 2024 ore 10, 36 giovanni ghiselli
p. s
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