Argomenti del capitolo . Il caffé senza zucchero alla Malga Panna. La telefonata del rabberciamento. Le sciate precipitose del Laurino. Le due gommebucate. Il gioco delle bocce. La passeggiata lungo il rio San Pellegrino. Il fortino austriaco negli anni Cinquanta. Il secondo Tramonto osservato dal tinello della casa di via Damiano Chiesa. La zia Giulia, con graitudine
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Chiesi venti gettoni e un caffé all'enorme ragazza addetta alla |
mescita della Malga Panna. Mi domandò come potessi bere quel |
liquido amaro senza addolcirlo. "Perché mi piace assai signorina, e |
non voglio alterarne il sapore", risposi, e pensai che pure la mia |
compagna, se mi piaceva davvero, dovevo sorbirla com'era. |
Poi aggiunsi:"Provi anche lei. Dopo un paio di volte si accorgerà |
che senza zucchero è buono". Da quando la vidi la prima volta, ho |
sperato di educare quella fanciulla ciclopica inducendola a |
dimagrire. Mi fece un sorriso mesto e scosse la testa. Non so se |
volesse negare la gradevolezza del caffé amaro, o mettere in |
dubbio che sarebbe dimagrita bevendolo senza addolcirlo. |
Mi mossi per telefonare. Rispose Ifigenia. Dissi:"Ciao, sono |
gianni, come stai? Se vieni qua volentieri, mi fai piacere". |
"Sei sicuro? te lo chiedo perché tu lì in mezzo ai monti diventi |
strano". |
"Sì è vero, ma devi capire: qui passo tutto il tempo da solo, e a |
lungo andare sto male. Venendo, mi porterai un grande conforto". |
"Va bene. Arrivo domani sera alla stazione di Trento alle nove e |
diciotto. Parto dopo una lezione di Giommi all'Antoniano", disse, |
poi tacque. Allora io, ostentando entusiasmo, feci:" Ho tanta |
voglia di vederti, averti vicina, abbracciarti!". Speravo che |
rispondesse:"Anche io". Invece disse: "D'accordo: alle 21 e 18. |
Ciao". |
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Tornai all’albergo La Campagnola che ero depresso. Avevo fatto un grosso sbaglio |
aggredendola per le sue amiche considerate complici di intrighi dannosi. |
"D'altra parte-pensavo- non sono del tutto cretino né tanto portato |
a commettere errori: quando voglio, li evito. Se non lo faccio, |
significa che intendo utilizzarli per correggere o cancellare una |
situazione malsana. Domani vedremo". |
Dopo questo pensiero mi |
riconciliai con me stesso e mi |
addormentai. |
La mattina del sei marzo andai a sciare sulle piste del Laurino. Salivo con un |
bidone, adagio, tra le gelide ombre di un bosco, poi scendevo a |
precipizio per un pendio scosceso e poco innevato. La pista, ripida |
al pari di un |
tetto aguzzo, è sovrastata dalla Roda di Vael, una |
roccia sottile e appuntita come una guglia. Più volte mi buttai giù |
per la dirupata discesa invocando Ifigenia: se vacillavo perché |
mi aiutasse a non cadere, se scendevo veloce, perché mi infondesse |
la forza e il coraggio di continuare. Sul mezzogiorno, quando il |
sole sembrò sbaragliare le nubi con le quali lottava dalla mattina, |
mi fermai sotto la rupe, tanto affilata e luminosa da sembrare una |
spada. Volevo abbronzarmi mentre mangiavo un panino. Presto |
però la calda luce fu soverchiata dal vento e dalle nuvole; allora |
mi mossi per tornare a Moena. Mentre entravo in paese, forai uno |
pneumatico dell'automobile che dovetti lasciare a un gommista |
poiché era bucata anche la ruota di scorta. Aspettando che la |
Volkswagen avesse le gomme aggiustate, andai al bar Maria per |
vedere il gioco delle bocce, come facevo spesso quando ero |
bambino. Vidi e riconobbi alcune persone di trent'anni prima. |
Erano invecchiati, ma recitavano la stessa parte, dicendo parole e |
facendo gesti simili a quelli di allora. Dopo avere lanciato, o |
lasciato cadere di mano la boccia, la seguivano, la sgridavano, la |
incoraggiavano, come si fa con una creatura. Notevole tra tutti era |
Micelotto che gridava e si agitava in una farsa seguita dal pubblico |
con grande piacere. "L'è bela, l'è bela", diceva spesso della propria |
giocata, consapevole e soddisfatto di essere bravo. |
Lo osservavo con attenzione e simpatia. "Quanti anni può avere?" |
mi chiesi. "Allora era un ragazzo. Adesso una cinquantina. Però |
gli piace sempre farsi guardare". Bocciava e recitava bene del |
resto. La sua parte migliore nel mondo doveva essere quella: fare |
vedere e sentire come sia bello giocare alle bocce. Certo è meglio |
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che giocare con le persone. Ciascuno di noi, quando fa |
qualche cosa con passione e attitudine, dopo molto esercizio sa |
farla bene e vuole darlo a vedere. Micelotto accarezzava ognuna di |
quelle sue creature rotonde, la faceva uscire dalla mano, e la seguiva |
incoraggiandola come un padre amoroso: se gli sembrava corta, |
accennava il gesto di spingerla; se lunga, di trattenerla e |
dissuaderla dal proseguire. Era un attore anche lui. Aveva un |
repertorio limitato ma lo eseguiva con amore e con arte. Quando |
piazzava un tiro ottimo, e gli riusciva spesso, lo ricompensavano |
gli applausi del pubblico e un sorso di vino. |
" Caro, simpatico Micelotto, mi piacevi quando ero un bambino e |
tu un giovane uomo, quasi un ragazzo ancora, un pò rincagnato a |
dire il vero, ma dallo sguardo vivace, e mi piaci adesso, dopo che |
sono passati trent'anni intorno a noi, come le nuvole sopra la valle |
di Fassa”. |
Tornai dal gommista: l'automobile non era pronta. |
Per far passare il tempo necessario, mi incamminai verso |
Someda, sopra il rio San Pellegrino. Dall'altra parte del torrente |
che scorre nel fondo della convalle stretta come una gola, c'è “La |
Campagnola” |
e la strada del passo San Pellegrino che porta a Belluno. Da |
bambino, appena la zia Giulia mi dava il permesso, camminavo per di |
là, in direzione del valico. Prima passavo davanti a una cisterna |
d'acqua che rumoreggiava. Fantasticavo che fosse un deposito di |
armi degli Austriaci, i nemici della mia |
patria, come mi |
insegnavano i maestri dell’epoca posfascista , invece di parlarmi di Mozart, di |
Musil, di Freud, o almeno dell'ottima amministrazione asburgica |
nel Lombardo-Veneto. Giravo con un ramo in mano, |
impugnandolo come un fucile, che tuttavia non bastava per |
conquistare l'armeria sorvegliata da una decina di quegli odiosi |
soldati in divisa bianca; allora pensavo di farla saltare con delle |
mine. Ma poi ci ripensavo, poiché ammazzare in maniera così |
vigliacca, sebbene coloro fossero tanto crudeli, mi ripugnava. |
Allora proseguivo finché vedevo la fortezza nemica sorgere sulla |
strada di fronte. Decidevo di minarla mentre era sguarnita del |
presidio, uscito per vessare il paese italiano. |
Però dovevo superare il vuoto compreso tra le due pareti della |
stretta convalle. Scendevo a precipizio per un burrone ripido e |
tetro, tutto ombreggiato da fitti rami di abeti. Arrivato in fondo, |
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guadavo il torrente saltando sui sassi emergenti dall'acqua gelida e |
cupa nel pomeriggio inoltrato di fine agosto, quindi risalivo su per |
l'altro pendio, altrettanto scosceso ma soleggiato poiché volto a |
occidente e privo di alberi. Però c'era l'erba alta, dove potevano |
stare nascosti in agguato serpenti e scorpioni. Tutto questo mi |
faceva paura, mi emozionava, salvandomi dalla noia della gran |
solitudine, mi spronava a ribellarmi alle zie che mi volevano |
sottomesso a qualsiasi forma di autorità. |
Quando arrivavo in alto, osservavo la valle di Fassa. Facevo |
attenzione all'ombra del Sas da Ciamp che sovrasta la malga |
Panna: appena aveva oscurato il prato di Sorte e la chiesa con il |
cimitero, dovevo tornare di corsa, poiché la zia voleva vedermi |
prima del tramonto, sennò telefonava al soccorso alpino che |
rintracciava i bambini dispersi-diceva- e li salvava dalla morte per freddo |
o per lupi, ma li picchiava anche, e con mano pesante. Ero stato |
avvertito. Andavo comunque di fretta fino al fortino austriaco per |
farlo saltare in aria e liberare intanto i Moenesi. |
Quando lo vidi da vicino la prima volta, rimasi deluso: invece di |
mitragliatrici e cannoni, nel prato antistante c'erano pacifici arnesi |
da contadino, tanto sterco di mucca, e un cartello con la scritta |
"Proprietà privata ". Ad ogni buon conto io lo minavo e fuggivo a |
gambe levate finché la strada era piana. Poi ripercorrevo le due |
pareti della |
convalle: |
una scivolando sull'erba, l'altra |
inerpicandomi tra |
le ombre del bosco e della sera, |
non senza paura. |
Quando arrivavo alla Campagnola, la zia Giulia diceva: |
"Dove sei stato per conciarti in quella maniera? Quando ti metterai |
tranquillo come i bambini normali? Oramai le vacanze sono finite! |
Non sei ancora sazio di correre, scalmanarti, azzardare? Non sei |
mai stato prudente!". Non aveva avuto figlioli e vedeva in me la sua discendenza umana e professionale. Quando insegnavo nel Veneto mi pagava l’affitto, poi mi comprò la casa a Bologna. Dovevo dedicarmi tutto alla scuola come aveva fatto lei. Credo di non averla delusa: aveva investito su di me senza sbagliare. Ma torniamo ai miei dieci anni. |
Per fortuna la zia non aspettava che rispondessi, ma continuava a |
rimproverarmi per un pezzo; sicché non dovevo dirle la verità, né |
una bugia. Quando si era placata, tornavamo a casa, in via |
Damiano Chiesa 11. In agosto, alle sette di sera, dalle finestre del |
tinello, se non c'erano nuvole, si vedeva ancora un poco di luce |
solare sulle rocce più alte. Era fredda e leggera, come se vi fosse |
stata dipinta, o cosparsa, quale polvere rosa. Più a lungo che |
altrove resisteva sulla cima del Sassolungo, in fondo al Catinaccio. |
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Osservare gli ultimi raggi raccolti dalle vette infreddolite, era |
come fruire di un secondo tramonto. |
La luce trascolorante tardava a scomparire tutta, e mentre |
assumeva le tonalità più delicate, sembrava intenerire le aspre |
pietraie dove i palpiti estremi del dì indugiavano come bambini |
che non vogliono andare a dormire, o come vecchi renitenti a |
morire. |
Tali ricordi rimuginavo il 16 marzo del 1981 mentre camminavo |
sopra il rio San Pellegrino, dalla parte illuminata.
Pesaro 29 agosto 2024 ore 11, 56 giovanni ghiselli
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