Il nostro parlare si degradava quasi sempre in un penoso litigare. Astioso del resto era anche il silenzio. Una reciproca competizione cattiva era subentrata all’aiuto che ci si era scambiato nei primi mesi del nostro amore. Di quello ricevuto da lei, ero ancora grato perché l’avevo assimilato e seguitavo a fruirne. Il mio aiuto invece Ifigenia l’ava rigettato e oramai lo cercava in attori famosi come il vecchio gradasso che l’aveva attirata durante le ultime ore del 13 giugno. Pensava che con lui sarebbe stato facile salire sulle vette dell’arte, ma era finita prima dell’alba.
Con me, se pure fossimo arrivati a una meta comune, il cammino sarebbe stato lungo, difficile e faticoso.
Ho sempre pensato e detto che per raggiungere risultati egregi è necessario un grande talento associato a tanta disciplina faticosa per diversi anni; poi, se giungono i risultati, anche gioiosa.
Ma quella cercava scorciatoie ripide, precipitose .
Prendevamo il sole. In cima a un’asta però sventolava uno straccio la cui ombra ogni tanto mi nascondeva la santa faccia di luce. Mi disturbava come un pensiero molesto: il pensiero che stavo tornando nell’Ellade a restituire la donna conquistata nell’autunno del 1978 dopo tre anni di studio continuo, e la pedalata solitaria, quasi eroica, dell’estate precedente su e giù per i monti della Grecia.
In ottobre mi era corsa dietro lei, senza che avessi dovuto corteggiarla.
La borsa di studio conquistata con tanta fatica, mentale e fisica.
Mi vennero in mente diversi elogi della fatica imparati dai classici.
“Davanti al valore gli dei hanno posto il sudore; gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno”1 .
Ifigenia non dava più retta ai classici né a me e cercava sentieri scoscesi in mezzo ai burroni. Bella era bella però. Mi venne in mente l’amasio Lisania di Callimaco 2.
Buttarla in letteratura mi ha sempre aiutato: fin da bambino, quando consolavo e abbellivo la mia solitudine già decretata da sentenze fatali e inappellabili[1], recitando Il passero solitario.
“Io pensoso in disparte il tutto miro” mi dicevo osservando gli altri bambini azzuffarsi e gridare.
Ifigenia era ancora bella nel corpo. Confrontavo la superficie del mare increspato dal vento con la pelle di lei priva di smagliature o altri difetti: i raggi del sole le scorrevano sopra senza inciampare. Esteriormente era più calma del mare quando dorme senza onde disteso nei giacigli meridiani[2]. Tuttavia nel suo sguardo c’era un rancore profondo per l’uomo con il quale negli otto giorni seguenti avrebbe diviso la mensa, la camera, il letto e magari avrebbe anche fatto l’amore. Questo era diventato un problema.
Tra noi ci fu un momento di tregua malsicura quando mi mostrò un altro disegno suo: un uomo che un poco mi assomigliava, quindi disse:”Gianni, tu sei ancora dentro di me, però c’è anche dell’altro che voglio portare alla luce. E tu non mi aiuti”.
Per un istante pensai che potesse essere incinta di me, come Päivi la psicologa fulva, o di un altro, come Helena la bella mora biancovestita, dal grande seno che oltretutto fisicamente era un tipo non tanto diverso da lei. Altre borse di studio.
“Vennero donne con proteso il cuore
Ognuna dileguò senza vestigio”, ricordai
Ma tale pensiero mi faceva soffrire e lo corressi: racconterò le storie grandi e meravigliose compiute da me con queste donne.
Quindi le risposi: “E’ vero il contrario. Io voglio aiutarti. Non ti chiedo di rimanere con me, se non vuoi restare. Ti consiglio di definire bene quello che desideri e puoi fare, per diventare quella che sei. In ogni caso non posso aiutarti se mi consideri malevolmente e sospetti che voglia farti del male”.
Il vento rumoreggiava implacabile e non ero sicuro che avesse sentito.
Perciò la chiesi: “Hai capito?”
Mi ero dimenticato che questa domanda la faceva soffrire oltre misura, come se fosse ingiuriosa. La brevissima dolcezza riesumata dalle sue parole precedenti era un balsamo troppo scarso per lenire il dolore delle nostre reciproche piaghe, sicché Ifigenia gridò con ira furente: “No, quello che dici tu uomo di grande sapere, io non lo capisco. Sono tre anni oramai che non capisco un accidente di quanto tu dici. Va’ all’inferno”.
Note
[1] Esiodo dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'" d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan" (Opere, 289).
Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;" oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.
Nei Memorabili di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi"" (II, 1, 28).
2] In un famoso epigramma (A. P. XII, 43) Callimaco ribadisce questa concezione non popolare dell'arte:
"Odio il poema ciclico, né mi piace
la via qualunque che porta molti qua e là.
Detesto anche l'amante che vaga, né bevo
dalla fonte comune: tutto quanto è popolare mi ripugna.
Lisania, tu bello sì sei bello, ma prima che lo ripeta
con chiarezza l'eco, uno dice-altri lo possiede-".
3] Cfr. Eschilo, Agamennone, 565-566.
Pesaro 24 agosto 2024, ore 16, 31 giovanni ghiselli
p. s
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