I
Appena mi sono disteso ho pregato il signore di Olimpia e di Delfi: “Dio della bellezza che giustifica questa nostra vita mortale e la emancipa dal triste orrore della sapienza silenica, Dio del principium individuationis che mi hai distinto dalla gente priva di stile e di morale, ti prego, fammi guarire.
Non chiedo né denaro successo.
Procedetti ricordando Catullo con qualche adattamento
“me miserum aspice et, si vitam puriter egi,
eripe hanc pestem perniciemque mihi,
quae mihi subrepens imos ut torpor in artus
expulit ex omni pectore laetitias.
Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa Bononiensis,
aut, quod non potis est, esse pudica velit:
ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum.
O deus, rede mihi hoc pro pietate mea ”.
Lo sforzo di ricordare ogni parola e il dovere compiuto ha conciliato il sonno. Alle sei però, verso l’alba, mi sono svegliato con un gran male e con tanto spavento. Sono tornato nel bagno per osservare la gamba dall’osso offeso: la ferita sembrava palpitare.
Fui quasi certo di averlo incrinato. In assenza della mamma mia santa mi diedi del bischero da solo. Poi dell’imprudente, quindi del deficiente per assecondare le zie nutrici.
Subirò la giusta lezione: “ dovrò andare un tetro ospedale, poi forse mi metteranno in un manicomio per autolesionismo: perderò il sole con tutte le bellezze della Grecia e i sorrisi di tante donne. Ben mi sta”. Tornai nel letto strisciando come un serpente. Restava una sola speranza; un miracolo. Aggiunsi altre preghiere a Zeus, a Dioniso, all’onesto Giovanni Battista, a Santo Francesco. Dei e santi pagani. Anche Cristo per tanti versi lo era ma la pretaglia lo ha calunniato per secoli .
Chiesi a tutti i miei protettori vivi e morti di farmi guarire. Se no, sarei diventato un inutile peso alla terra, penoso per i miei cari e per me. Mi rivolsi alla crescente luce del giorno: la pregai di ricordarsi quanto l’avevo onorata con i miei studi, l’educazione dei giovani, le corse serali inseguendo e adorando il sole, i monti sacri scalati con la bicicletta, promettendo che a quelli italiani avrei aggiunto il Parnaso, l’Olimpo e il Taigeto nei miei pellegrinaggi annuali e non mi sarei fermato prima dei novanta anni se fossi guarito”.
Infine feci una promessa da religione romana con il do ut des: “Dei della mia speranza desiderosa e bisognosa di grazia, fate che io possa narrare la guarigione di giovanni, il peccatore miracolato, nel grande epos che scriverò in vostro onore”
La mattina mi svegliai soltanto alle dieci. Quel giorno non si doveva partire prima di avere desinato dal tocco alle due. Si doveva andare solo a Capo Sunio distante circa 40 chilometri. Scostai la coperta leggera e guardai la gamba che non mi faceva male. Né si vedeva più niente di brutto. Possibile? Era proprio quella battuta? Ma sì, proprio la destra. Me la sono toccata. Non faceva punto male. Forse sognavo la guarigione. Mi pizzicai una guancia. Ma no, ero sveglio. Feci subito altre prove: mi alzai, camminai poi saltai su tutte due le gambe. Funzionavano entrambe. Quindi feci un balzo di gioia e gridai. “Grazie Apollo peana, dio dall’arco d’argento e dalle frecce d’oro che colpiscono i mali e i mascalzoni mettendoli in fuga. Tu sei un dio grande, uno di quelli che non tramontano mai, non invecchiano e io ti sarò sempre devoto”.
Excursus sulla mia famiglia materna
Ringraziai anche la mamma da cui avevo preso la grande salute e la zia Rina chiamata badessa da sua madre e sbirra da suo padre.
Ci voleva: era imperiosa e Metteva ordine nelle cose di casa. Quando andava in campagna disciplinava i mezzadri della madre che le obbedivano come si fa con un generale, pur chiamandola “signureina”, siccome romagnoli. La zia comandante mi intimava di non parlare mai come loro bensì di usare la lingua parlata in casa nostra: quella di Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli
In effetti quando arrivato al ginnasio trovavo in questi autori espressioni di uso comune in casa nostra ne ero fiero.
Mi piaceva però la musica della parlata pesarese che allunga le vocali: avevo imparato a usarla giocando per strada e ne rivendicavo l’uso biasimato e schernito invece dai miei parenti toscani: tutti tranne la nonna pesarese, derisa dagli altri per come pronunciava le vocali: non distingueva vénti da vènti o pèsca da pèsca. Prendevo quello che mi piaceva da ciascuno di loro.
Ho voluto perfino rivendicare la mia mancanza di spirito pratico. affaristico ed esserne fiero.
Autorizzo ancora tale presunta deficienza con queste parole del Vangelo secondo Matteo:"Et de vestimento quid solliciti estis? Considerate lilia agri quomodo crescunt: non laborant neque nent. Dico autem vobis quoniam nec Salomon in omni gloria sua coopertus est sicut unum ex istis" (N. T. 6, 28), e quanto al vestire perché vi affannate? Considerate come crescono i gigli dei campi: non si affaticano e non filano. Eppure vi dico che neppure Salomone in tutta la sua gloria è stato coperto come uno di loro.
La mancanza di senso pratico l’ho presa dal nonno Carlo Martelli che vendette il quattrocentesco palazzo avito di sansepolcro per 100 mila lire alla fine della guerra. Poi non le ha investite e non gli è rimasto niente. Il palazzo però porta ancora il suo nome e a me ha lasciato il suo talento ciclistico, la sua educazione e la sua bontà.
La nonna pesarese Margherita Scattolari che aveva ereditato settanta ettari dal padre invece non ha venduto mai niente e tale attitudine l’ho presa da lei: dei miei 1 ettari non ho voluto venderne nemmeno uno a un costruttore di Montegridolfo. Sono certo che la terra valga più dei miseri quattrini. Vivo da povero ma non mi manca niente di quanto mi serve e mi piace: ho già preso i biglietti per Il barbiere di Siviglia e l’Ermione del festival rossiniano. Senza indebitarmi.
Concludo questo excursus sulla famiglia citando Thomas Mann, uno dei miei maestri preferiti tra i moderni: “Figli e nipoti guardano padri e nonni per ammirare e ammirano per imparare e perfezionare quello che è già predisposto dall’ereditarietà”. (La montagna incantata, secondo capitolo. p.36)
Pesaro 8 agosto 2024 giovanni ghiselli ore 18, 11
p. s.
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