Sulla via del ritorno, attraversando l'Austria, manifestai il mio stato d'animo alla compagna muta come un baule. Quel suo viso da commediante, capace di trasformarsi ad ogni sobbalzo, era immoto. Allora la provocai: le chiesi perché fosse venuta in Baviera e continuasse a stare con me, se non muoveva un dito per aiutarmi quando mi vedeva depresso o preoccupato.
Rispose:"Vengo con te siccome mi porti a vedere bei posti. Sul lago poi, una volta tanto, abbiamo dormito e mangiato in un locale come si deve". Quindi aggiunse:"E anche perché tu sei un uomo di raro valore". "Che io sia un uomo di qualche valore, può essere, ma ancora non l'ho dimostrato. Per ora dunque tu mi segui in quanto ti porto lontano da casa, e talora ti invito a mangiare, perfino a dormire, in locali decenti", ribattei. Quindi pensai:"Appena trova uno più capace e desideroso di spendere soldi in quantità per lei, questa mi pianta. Le piacerà come la luce del sole! E io che ho ancora bisogno di una donna siffatta per scrivere chissà quale opera d'arte!". Ifigenia, con calma e tristezza, replicò:"Se mi stimassi, tu non mi umilieresti con tali rinfacciamenti! Che cosa vuoi sentirti dire? Che sei un genio? Che scriverai un capolavoro capace di fare epoca? Lo farai, quando ne avrai sentita la necessità; intanto però non tormentarti, e soprattutto non danneggiare me: io ho tutta la vita davanti" Detta questa formula, tacque. "Cosa vuoi che sia tutta la vita!", pensai. “Il sogno di un’ombra”[1]. Sentivo che non mi amava, né mi voleva bene, né poteva aiutarmi, siccome non credeva più in me. Fermai la Volkswagen e scesi. Tirava vento."Io un vecchio. Una testa intronata tra spazi ventosi"[2] , mi dissi. Nessuno invero, nemmeno il più
bene intenzionato, avrebbe potuto aiutarmi se mi arrendevo all'angoscia. Reagii. Rientrai nell'automobile. Mi rassegnai a quella donna. Finché c'era. Bastava non lasciarsi distruggere: presto se ne sarebbe andata per la sua strada di inganni e miserie. Sarebbe stato il segno che dovevo cominciare a scrivere. La pena andò via. Sì, avrei scritto qualcosa di grande e meraviglioso contro il piacere immorale. Che Ifigenia mi amasse non era destino né era il mio scopo. Avrei vissuto fino in fondo quel fallimento
amoroso poiché era rappresentativo dell'infelicità dei rapporti umani in un'età segnata dall’egoismo e dalla lotta spietata di tutti contro tutti, l’era della totale peccaminosità.
Alle dieci di sera eravamo al Brennero. Il cielo era tutto stellato: pensammo che il giorno dopo avremmo potuto abbronzarci sulle nevi del Lusia; perciò ci dirigemmo a Moena. Arrivammo verso la mezzanotte. Prendemmo la stanza dove avevamo litigato e fatto l'amore in giugno. Anche questa volta ci fu uno scontro duro, sebbene non dichiarato. Un cozzo mentale. Ci spogliammo ed entrammo nel letto. Dopo un poco dissi:"Sei sempre bellissima. Mi piaci ancora parecchio". Speravo che rispondesse per lo meno:"Anche tu non sei male". Osservandomi nei folti specchi di Linderhof non mi ero convinto del tutto di non essere ingrassato e ingoffito. Desdemona non replicò. Allora ripetei le medesime parole con voce più alta. E lei:"Buonanotte. Adesso voglio dormire. Ho tanto sonno, tesoro". "Maledetta-pensai-. Dormi e vai in malora. Presto ne troverò una non peggiore[3] di te .
Alcuni mesi più tardi Desdemona disse che aveva odiato e sofferto anche lei durante quello scontro assurdo, causato dalla miseria mentale e morale di entrambi. La ragazza aveva creduto che avessi voluto significarle:"tu mi piaci ancora, nonostante la tua età non sia più tanto verde". La mattina seguente il sole c'era, ma l'aria non ne veniva scaldata a sufficienza perché Desdemona male attrezzata potesse salire sui monti dove comunque l'abbronzatura è incrementata dall'altitudine. Restammo nel fondovalle con mio disappunto e malumore: mi dava fastidio fare una rinuncia qualsiasi per quella megera. Mi appariva una figura buia, oscurata dalla stupidità. Forse non solo la sua. Alle tre del pomeriggio partimmo. Arrivammo a Bologna all'ora di cena e andammo a mangiare da Lamma. Quando ci fummo seduti entrò Mario , una strana, nota figura di professore anziano e malato, soprattutto di mente. Un uomo sofferente in quanto
convinto di avere sciupato le proprie capacità di scrivere. Io al genio inespresso non credo, altrimenti dovrei dolermi di essere un Coppi o uno Zatopek mancato. Sono sicuro che un grande talento, se c'è, trova il modo di manifestarsi. Bemporad era comunque e persona sensibile, intelligente a suo modo, e colta, sebbene una malattia, dice lui, lo avesse inceppato a vent'anni, impedendogli di fare le letture che avrebbe dovuto per coltivare il suo talento. Da Omero a T. S. Eliot, tutti gli scrittori classici e neoclassici avrebbe voluto studiare. Quando ebbi preso una certa domestichezza con i Greci e i Latini insegnandoli al liceo, una volta gli offrii un aiuto per riprenderne la lettura diretta, ma egli rifiutò con voce alta e sdegnata:"Che cosa vuoi che me ne faccia di Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Platone, Catullo, Orazio, Virgilio, Sallustio e Tacito soltanto? Io voglio leggere tutto, tutto, assolutamente tutto, oppure, piuttosto che questa poca roba, assolutamente nulla!". Così non se ne fece niente. Tale era il tipo. La gente comune, usuale, quella che può ritenersi normale data l'immensa volgarità dell'epoca, lo disprezzava e canzonava; alcuni lo maltrattavano anche. Io, oltre rispettarlo siccome infelice, lo trovavo interessante, talora perfino educativo, quasi sempre quale contromodello del resto, e per tempi limitati, in quanto temevo il contagio della debolezza sua. Comunque, finché lo frequentavo, ero gentile e disponibile ad ascoltarlo con attenzione: il vecchio sentiva la necessità di raccontare la pena del suo fallimento. Una volta d’estate lo portai a Pesaro, a casa mia. Una zia quando fu partito mi disse: “è possibile che tu non frequenti mai una persona normale? “Quelli che a te sembrano normali sono usuali, i conformisti ordinari che a me non piacciono. I miei amici sono degli straordinari riusciti o falliti: da loro imparo di più”. “Basta che tu sia contento te, però non portarli più in casa nostra, almeno finchè sono viva io”. Ora mi dispiace che questa e le altre guardiane non ci siano più. In ogni caso mi hanno aiutato e io chiedo ancora il loro aiuto nelle mie orazioni.
Appena arrivato Mario volle andare a nuotare. Dopo qualche bracciata, tornò a riva e svenne. Disse che non mangiava da due giorni. Quella sera di fine vacanze pasquali dunque, entrato da Lamma, si diede a girare tra i tavoli con aria esplorativa e implorante. Guardava se conosceva qualcuno per sedersi vicino e parlare. Era alto, di età non definibile, con una curvatura strana in cima alla spalla sinistra. Le labbra esangui e semiaperte lasciavano intravvedere una chiostra di denti radi, sbrecciati; lo sguardo degli occhi grandi, scuri conservava un bagliore fioco e intermittente. Con una mano si appoggiava su un bastone nodoso, con l'altra di tanto in tanto si toccava la schiena gemendo. Camminava in maniera maldestra: barcollava e sembrava sempre in procinto di stramazzare sul duro pavimento con tutta la sua affaticata lunghezza; si piegava su un lato, poi si raddrizzava di scatto, come se un attimo prima di ogni caduta dolorosa, forse letale, con uno sforzo titanico riuscisse a trovare
energia sufficiente per rialzarsi e procedere lungo il suo faticoso cammino. Sembrava un eroe bersagliato dai colpi di un destino tenacemente ostile, eppure incapace di averla vinta su una pena così antica e tanto temprata da infinite sciagure. Una sera d’inverno uscìi da Lamma con lui e qualcun altro. Nevicava e mi sembrava di vedere la disfatta dei tedeschi a Stalingrado. L’amico Claudio disse: “seguiamo Von Marius verso la resa ai Russi, così forse ci salveremo”. Maio lo sentì e ne rise. Era comunque una cara persona. Temo che non ci sia più, siccome saranno venti anni che non lo incontro. Come ci vide quella sera di primavera, si mosse verso di noi: sapeva che non sarebbe stato respinto né trattato con scortesia. Può sembrare ovvio: il minimo dovuto a un infelice, eppure a Bologna in tanti gli davano noia in molte maniere. Alcuni lo umiliavano, altri lo picchiavano addirittura. Fin da quando ero matricola l'avevo notato quale "ecce homo" vilipeso e deriso negli ambienti accademici e studenteschi della città. Già in quel tempo lontano provai compassione per lui e sdegno per i suoi persecutori sadici e vili: goliardi e fannulloni vari che bivaccavano presso l'Università. Anche i camerieri di Lamma del resto non gli risparmiavano dosi massicce di motteggi e gomitate. Come fu giunto vicino al nostro tavolo, l'infelice mi salutò, poi, invitato, sedette. Sebbene digiuno, non volle mangiare. Lo feci parlare, ponendogli diverse domande, poiché sapevo che di questo aveva bisogno, e anche perché da lui potevo imparare qualcosa. Le sue frustrazioni di fondo erano due: non avere scritto un capolavoro e non avere mai baciato una donna. Del resto non sapeva che cosa avrebbe dovuto scrivere e quale femmina umana avrebbe voluto baciare. Disse che quando era studente nel Liceo classico di Ferrara, in italiano scritto superava di gran lunga Bassani:"Altro che Giorgio ero bravo a scrivere io!" "Poi che cosa è successo?" domandai incuriosito. "A vent' anni mi è caduta la mannaia sul collo". Proseguì Accusando, oltre le persecuzioni razziali, i parenti che non gli volevano bene e non lo hanno aiutato. Tutto questo gli aveva spezzato il talento e la vita. Il vecchio amico non assolse neppure se stesso: il colpo di grazia se lo era dato da solo. "Sono io l'omicida di quest'uomo" disse indicandosi con dito tremante. Si era ucciso moralmente quando aveva messo in mani cattive il potere sulla propria persona. "Tu non farlo mai. Mai!", gridò con tono ieratico, mentre mi fissava con occhi ispirati. Trasfigurato, sembrava più grande a vedersi, e parlava come ispirato dalla potenza molto vicina di un dio, al pari della Sibilla cumana[4]:"Qualunque disgrazia possa
capitarti, tu non tradire te stesso e non cedere ai mali!” Aveva ragione. Lo capivo bene. Non glielo dissi, siccome non mi avrebbe ascoltato, ché la disgrazia vera di tali infelici è la perdita dell’attenzione per ogni cosa e persona tranne il proprio dolore. Anche io, vent'anni prima, avevo fatto uno sbaglio quasi mortale. Invece di potenziare le mie qualità tenendo gli occhi aperti sul mondo, mi ero lasciato avvilire da persone di formato men che mediocre. Mi giudicavano brutto e incapace. In effetti di una vita da servo e ripetitore dei luoghi comuni del borgo, non ero, non sono capace. Sapevo fare di più e di meglio, ma non ne avevo coscienza. Ero diventato brutto poiché non credevo in me stesso. Dopo il liceo, avevo perso la soddisfazione, l’orgoglio di essere raro, diverso dalla gente usuale. La sfiducia partiva da un indebolimento mio, contagiava le donne di casa, incoraggiava la malevolenza di quanti avevano sofferto i miei successi sportivi e scolastici. Mi massacrarono finché lasciai fare. Mi addentarono, mi squarciarono, come una muta sbrana l'animale più forte quando sanguina e perde vigore. Ma dopo un paio di anni ho reagito, con uno sforzo titanico mi sono rialzato e ho cominciato a recuperare le forze per risalire sopra la china della sventura. Mi aiutò il grande movimento del '68. Viaggiai, mi sprovincializzai, incontrai qualche persona per bene: diverse donne e Fulvio, l’amico più caro che ora mi protegge dal cielo. Che Dio benedica i miei salvatori, insieme con tutti i miei alunni, poiché la salvezza definitiva venne dal rapporto vivo con loro. Dopo il primo anno di insegnamento avevo recuperato il favore di me stesso, e l'autogestione della mia vita. L'amico anziano invece si accusava da solo di avere sotterrato i suoi talenti[5] , commettendo
peccato contro se stesso. Mi faceva bene incontrarlo e ascoltarlo. Mi metteva in guardia contro le mie debolezze. Mario dunque parlava ricordando i suoi martìri che mi rendevano triste e pio. Desdemona invece non lo ascoltava né gli rivolgeva lo sguardo. Quanto diceva non la interessava: lei non temeva di sciupare i talenti. Forse perché sentiva di non averli. Guardava in giro cercando di farsi guardare. Io ne soffrivo e la disprezzavo. Trovavo più interessante e pregevole il vecchio. Mi venne in mente una sera del giugno del '78. Stavo cenando da Lamma con Luciana l’ex scolara diventata ventenne, quando entrò Mario con aria
implorante, ci vide e, invitato, venne a sedersi con noi. La ragazza lo ascoltò con attenzione, lo guardò con simpatia, gli chiese di rimanere quando lui accennò ad alzarsi; poi, come fummo rimasti soli, disse che quell'uomo le aveva fatto compassione: che bisognava aiutarlo. A casa ci pianse. E' di un'altra stoffa spirituale l'amica veneta. Sa provare pietà in quanto è dotata di immaginazione. Finita la cena, riportai Desdemona dai suoi genitori e tornai a casa mia. Scrissi qualche parola sul viaggio. Mi tormentava il pensiero che avrei potuto fallire i miei bersagli, l'arte e l'amore, come Ludwig secondo di Wittelsbach-Baviera e come Mario, ebreo di Ferrara. Due personaggi che mi piacevano molto poiché avevo non poco in comune con loro. Andai a letto promettendomi l'amore, necessario a me stesso, e l'opera letteraria che dovevo all'umanità. Però prima bisognava conoscere una donna di grande formato spirituale e trovare qualcosa di interessante per tutti da raccontare. Spero che questo capitolo lo sia stato per voi che mi leggete. Voi molti, voi fortunati molti che mi rendete felice!
Bologna 28 agosto 2024 ore 19, 23 giovanni ghiselli
|
[1] Pindaro chiama l'uomo"sogno di ombra" (skia'" o[nar/a[nqrwpo"", (Pitica 8, vv. 95-96).
[3] C'è il ricordo del
tovpo"
letterario antieroico dello scudo abbandonato. Il
prototipo, che io sappia, è Archiloco. Dopo avere confessato di averlo lasciato
presso un cespuglio, il poeta di Paro esclama:"
ejrrevtw: ejxau'ti" kthvsomai ouj
kakivona
", vada in malora, al posto suo me ne procurerò un altro, non peggiore.
[4] Cfr. Virgilio, Eneide, VI, 45 sgg.
[5] Cfr. Vangelo secondo Matteo, 25, 25:"et timens abii et abscondi talentum tuum
in terra", ebbi paura e andai a nascondere il tuo talento sotto terra.
Nessun commento:
Posta un commento