NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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mercoledì 28 agosto 2024

Il ritorno dalla Baviera passando per Moena. La cena a Bologna da Lamma.


 

Sulla via del ritorno, attraversando l'Austria, manifestai il mio

stato d'animo alla compagna muta come un baule. Quel suo viso

da commediante, capace di trasformarsi ad ogni sobbalzo, era

immoto. Allora la provocai: le chiesi perché fosse venuta in

Baviera e continuasse a stare con me, se non muoveva un dito per

aiutarmi quando mi vedeva depresso o preoccupato.

 

 

 

Rispose:"Vengo con te siccome mi porti a vedere bei posti. Sul

lago poi, una volta tanto, abbiamo dormito e mangiato in un locale

come si deve". Quindi aggiunse:"E anche perché tu sei un uomo di

raro valore".

"Che io sia un uomo di qualche valore, può essere, ma ancora non

l'ho dimostrato. Per ora dunque tu mi  segui in quanto ti porto

lontano da casa, e talora ti invito a mangiare, perfino a dormire, in

locali decenti", ribattei.

Quindi pensai:"Appena trova uno più capace e desideroso di

spendere soldi in quantità per  lei, questa mi pianta. Le piacerà come la luce

del sole! E io che ho ancora bisogno di una donna siffatta per

scrivere chissà quale opera d'arte!".

Ifigenia, con calma e tristezza, replicò:"Se mi stimassi, tu non

mi umilieresti con tali rinfacciamenti! Che cosa vuoi sentirti dire?

Che sei un genio? Che scriverai un capolavoro capace di fare

epoca? Lo farai, quando ne avrai sentita la necessità; intanto però

non tormentarti, e soprattutto non danneggiare me: io ho tutta la

vita davanti" Detta questa formula, tacque.

"Cosa vuoi che sia tutta la vita!", pensai. “Il sogno di un’ombra”[1].

Sentivo che non mi amava, né mi voleva bene, né poteva aiutarmi,

siccome non credeva più in me. Fermai la Volkswagen e scesi.

Tirava vento."Io un vecchio. Una testa intronata tra spazi

ventosi"[2] , mi dissi. Nessuno invero, nemmeno il più

 

bene intenzionato, avrebbe potuto aiutarmi se mi arrendevo

all'angoscia. Reagii. Rientrai nell'automobile. Mi rassegnai a

quella donna. Finché c'era. Bastava non lasciarsi distruggere:

presto se ne sarebbe andata per la sua strada di inganni e miserie.

Sarebbe stato il segno che dovevo cominciare a scrivere. La pena

andò via. Sì, avrei scritto qualcosa di grande e meraviglioso contro

il piacere immorale. Che Ifigenia mi amasse non era destino

né era il mio scopo. Avrei vissuto fino in fondo quel fallimento

 


 

 

 

amoroso poiché era rappresentativo dell'infelicità dei rapporti

umani in un'età segnata dall’egoismo e dalla lotta spietata di tutti contro tutti, l’era della totale peccaminosità.

 

 

 

Alle dieci di sera eravamo al Brennero. Il cielo era tutto stellato:

pensammo che il giorno dopo avremmo potuto abbronzarci sulle

nevi del Lusia; perciò ci dirigemmo a Moena. Arrivammo verso la

mezzanotte. Prendemmo la stanza dove avevamo litigato e fatto

l'amore in giugno. Anche questa volta ci fu uno scontro duro,

sebbene non dichiarato. Un cozzo mentale. Ci spogliammo ed

entrammo nel letto. Dopo un poco dissi:"Sei sempre bellissima.

Mi piaci ancora parecchio". Speravo che rispondesse per lo

meno:"Anche tu non sei male".

 Osservandomi nei folti specchi di

Linderhof non mi ero convinto del tutto di non essere ingrassato e

ingoffito. Desdemona non replicò. Allora ripetei le medesime

parole con voce più alta. E lei:"Buonanotte. Adesso voglio

dormire. Ho tanto sonno, tesoro".

"Maledetta-pensai-. Dormi e vai in malora. Presto ne troverò una

non peggiore[3] di te .

 

Alcuni mesi più tardi Desdemona disse che aveva odiato e sofferto

anche lei durante quello scontro assurdo, causato dalla miseria

mentale e morale di entrambi. La ragazza aveva creduto che avessi

voluto significarle:"tu mi piaci ancora, nonostante la tua età non

sia più tanto verde".

La mattina seguente il sole c'era, ma l'aria non ne veniva scaldata a

sufficienza perché Desdemona male attrezzata potesse salire sui

monti dove

comunque l'abbronzatura

è incrementata

dall'altitudine. Restammo nel fondovalle con mio disappunto e

malumore: mi dava fastidio fare una rinuncia qualsiasi per quella

megera. Mi appariva una figura buia, oscurata dalla stupidità. Forse non solo la sua.

Alle tre del pomeriggio partimmo. Arrivammo a Bologna all'ora di

cena e andammo a mangiare da Lamma. Quando ci fummo seduti

entrò Mario , una strana, nota figura di professore anziano

e malato, soprattutto di mente. Un uomo sofferente in quanto

 


 

 

 

convinto di avere sciupato le proprie capacità di scrivere. Io al

genio inespresso non credo, altrimenti dovrei dolermi di essere un

Coppi o uno Zatopek mancato. Sono sicuro che un grande talento,

se c'è, trova il modo di manifestarsi. Bemporad era comunque e persona

sensibile, intelligente a suo modo, e colta, sebbene una malattia,

dice lui, lo avesse inceppato a vent'anni, impedendogli di fare le

letture che avrebbe dovuto per coltivare il suo talento. Da Omero a

T. S. Eliot, tutti gli scrittori classici e neoclassici avrebbe voluto

studiare. Quando ebbi preso una certa domestichezza con i Greci e

i Latini insegnandoli al liceo, una volta gli offrii un aiuto per

riprenderne la lettura diretta, ma egli rifiutò con  voce alta e

sdegnata:"Che cosa vuoi che me ne faccia di Omero, Eschilo,

Sofocle, Euripide, Platone, Catullo, Orazio, Virgilio, Sallustio e

Tacito soltanto? Io voglio leggere tutto, tutto, assolutamente tutto,

oppure, piuttosto che questa poca roba, assolutamente nulla!". Così

non se ne fece niente.

Tale era il tipo. La gente comune, usuale, quella che può ritenersi

normale data l'immensa volgarità dell'epoca, lo disprezzava e

canzonava; alcuni lo maltrattavano anche. Io, oltre rispettarlo

siccome infelice, lo trovavo interessante, talora perfino educativo,

quasi sempre quale contromodello del resto, e per tempi

limitati, in quanto temevo il contagio della debolezza sua.

Comunque, finché lo frequentavo, ero gentile e disponibile ad

ascoltarlo con attenzione: il vecchio sentiva la necessità di

raccontare la pena del suo fallimento. Una volta d’estate lo portai a Pesaro, a casa mia. Una zia quando fu partito mi disse: “è possibile che tu non frequenti mai una persona normale?

“Quelli che a te sembrano normali sono usuali, i conformisti ordinari che a me non piacciono. I miei amici sono degli straordinari riusciti o falliti: da loro imparo di più”.

“Basta che tu sia contento te, però non portarli più in casa nostra, almeno finchè sono viva io”. Ora mi dispiace che questa e le altre guardiane non ci siano più. In ogni caso mi hanno aiutato e io chiedo ancora il loro aiuto nelle mie orazioni.

 

Appena arrivato Mario volle andare a nuotare. Dopo qualche bracciata, tornò a riva e svenne. Disse che non mangiava da due giorni.

 Quella sera di fine vacanze pasquali dunque, entrato

da Lamma,  si diede a girare tra i tavoli con aria esplorativa e

implorante. Guardava se conosceva qualcuno per sedersi vicino e

parlare. Era alto, di età non definibile, con una curvatura

strana in cima alla spalla sinistra. Le labbra esangui

e semiaperte lasciavano intravvedere una chiostra di denti radi,

sbrecciati; lo sguardo degli occhi grandi, scuri conservava un

bagliore fioco e intermittente. Con una mano si appoggiava su un

bastone nodoso, con l'altra di tanto in tanto si toccava la schiena

gemendo. Camminava

in maniera maldestra: barcollava e

sembrava sempre in procinto di stramazzare sul duro pavimento

con tutta la sua affaticata lunghezza; si piegava su un lato, poi si

raddrizzava di scatto, come se un attimo prima di ogni caduta

dolorosa, forse letale, con uno sforzo titanico riuscisse a trovare


 

 

 

energia sufficiente per rialzarsi e procedere lungo il suo faticoso

cammino. Sembrava un eroe bersagliato dai colpi di un destino

tenacemente ostile,  eppure incapace di averla vinta su una pena

così antica e tanto temprata da infinite sciagure.

Una sera d’inverno uscìi da Lamma con lui e qualcun altro. Nevicava e mi sembrava di vedere la disfatta dei tedeschi a Stalingrado. L’amico Claudio disse: “seguiamo Von Marius verso la resa ai Russi, così forse ci salveremo”.

Maio lo sentì e ne rise. Era comunque una cara persona.

Temo che non ci sia più, siccome saranno venti anni che non lo incontro.

Come ci vide quella sera di primavera, si mosse verso di noi: sapeva che non sarebbe stato

respinto né trattato con scortesia. Può sembrare ovvio: il minimo

dovuto a un infelice, eppure a Bologna in tanti gli davano noia in molte maniere.

 Alcuni lo umiliavano, altri lo picchiavano addirittura. Fin

da quando ero matricola l'avevo notato quale "ecce homo" vilipeso

e deriso negli ambienti accademici e studenteschi della città. Già

in quel tempo lontano provai compassione per lui e sdegno per i

suoi persecutori sadici e vili: goliardi e fannulloni vari che

bivaccavano presso l'Università.

 Anche i

camerieri di Lamma del resto non gli risparmiavano  dosi

massicce di motteggi e gomitate. Come fu giunto vicino al nostro

tavolo, l'infelice mi salutò, poi, invitato, sedette. Sebbene digiuno, non volle mangiare.

 Lo feci parlare,

ponendogli diverse domande, poiché sapevo che di questo aveva

bisogno, e anche perché da lui potevo imparare qualcosa. Le sue

frustrazioni di fondo erano due: non avere scritto un capolavoro e

non avere mai baciato una donna. Del resto non sapeva che cosa

avrebbe dovuto scrivere e quale femmina umana avrebbe voluto

baciare. Disse che quando era studente nel Liceo classico di

Ferrara, in italiano scritto superava di gran lunga Bassani:"Altro

che Giorgio ero bravo a scrivere io!"

"Poi che cosa è successo?"  domandai incuriosito.

"A vent' anni mi è caduta la mannaia sul collo". Proseguì

Accusando, oltre le persecuzioni razziali, i parenti che non gli volevano

bene e non lo hanno aiutato. Tutto questo gli aveva spezzato il

talento e la vita. Il vecchio amico non assolse neppure se stesso: il

colpo di grazia se lo era dato da solo. "Sono io l'omicida di

quest'uomo" disse indicandosi con dito tremante. Si era ucciso

moralmente quando aveva messo in mani cattive il potere sulla

propria persona.

"Tu non farlo mai. Mai!", gridò con tono ieratico, mentre mi

fissava con occhi ispirati. Trasfigurato, sembrava più grande a

vedersi, e parlava come ispirato dalla potenza molto vicina di un

dio, al pari della Sibilla cumana[4]:"Qualunque disgrazia possa


 

 

 

capitarti, tu non tradire te stesso e non cedere ai mali!”

  Aveva

ragione. Lo capivo bene. Non glielo dissi, siccome non mi avrebbe

ascoltato, ché la disgrazia vera di tali infelici è la perdita

dell’attenzione per ogni cosa e persona tranne il proprio dolore. Anche io, vent'anni prima, avevo fatto

uno sbaglio quasi mortale. Invece di potenziare le mie qualità

tenendo gli occhi aperti sul mondo, mi ero lasciato avvilire da

persone di formato men che mediocre. Mi giudicavano brutto e incapace. In

effetti di una vita da servo e ripetitore dei luoghi comuni del borgo, non ero, non sono

capace. Sapevo fare di più e di meglio, ma non ne avevo

coscienza. Ero diventato brutto poiché non credevo in me stesso.

Dopo il liceo, avevo perso la soddisfazione, l’orgoglio di essere raro, diverso

dalla gente usuale. La sfiducia partiva da un indebolimento mio,

contagiava le donne di casa, incoraggiava la malevolenza di quanti

avevano sofferto i miei successi sportivi e scolastici. Mi

massacrarono finché lasciai fare. Mi addentarono, mi

squarciarono, come una muta sbrana l'animale più forte quando sanguina

e perde vigore. Ma dopo un paio di  anni ho reagito, con uno sforzo titanico

mi sono rialzato e ho cominciato a   recuperare le forze per risalire sopra la china della sventura. Mi aiutò il grande

movimento del '68. Viaggiai, mi sprovincializzai,  incontrai qualche

persona per bene: diverse donne e Fulvio, l’amico più caro che ora mi protegge dal cielo.  Che Dio

benedica i miei salvatori, insieme con tutti i miei alunni, poiché la salvezza

definitiva venne dal rapporto vivo con loro. Dopo il primo anno di

insegnamento avevo recuperato il favore di me

stesso, e

l'autogestione della mia vita.

 L'amico anziano invece si

accusava da solo di avere sotterrato i suoi talenti[5] , commettendo

 

peccato contro se stesso. Mi faceva bene incontrarlo e ascoltarlo.

Mi metteva in guardia contro le mie debolezze.

Mario dunque parlava ricordando i suoi martìri che mi rendevano triste e pio. Desdemona invece non lo ascoltava né gli

rivolgeva lo sguardo. Quanto diceva non la interessava: lei non

temeva di sciupare i talenti. Forse perché sentiva di non averli.

Guardava in giro cercando di farsi guardare. Io ne soffrivo e la

disprezzavo. Trovavo più interessante e pregevole il vecchio. Mi

venne in mente una sera del giugno del '78. Stavo cenando da

Lamma con Luciana l’ex scolara diventata  ventenne, quando entrò Mario con aria


 

 

 

implorante, ci vide e, invitato, venne a sedersi con noi. La ragazza

lo ascoltò con attenzione, lo guardò con simpatia, gli chiese di

rimanere quando lui accennò ad alzarsi; poi, come fummo rimasti

soli, disse che quell'uomo le aveva fatto compassione: che

bisognava aiutarlo. A casa ci pianse. E' di un'altra stoffa spirituale

l'amica

veneta. Sa

provare

pietà in quanto è dotata di

immaginazione. Finita la cena, riportai Desdemona dai suoi

genitori e tornai a casa mia. Scrissi qualche parola sul viaggio. Mi

tormentava il pensiero che avrei potuto fallire i miei bersagli, l'arte

e l'amore, come Ludwig secondo di Wittelsbach-Baviera e come

Mario, ebreo di Ferrara. Due personaggi che mi piacevano molto poiché avevo non poco in comune con loro.

 Andai a letto promettendomi

l'amore, necessario a me stesso, e l'opera letteraria che dovevo

all'umanità. Però prima bisognava conoscere una donna di grande

formato spirituale e trovare qualcosa di interessante per tutti da

raccontare.

Spero che questo capitolo lo sia stato per voi che mi leggete. Voi molti, voi fortunati molti che mi  rendete felice!

 

Bologna 28 agosto 2024 ore 19, 23 giovanni ghiselli


 

 



[1] Pindaro  chiama l'uomo"sogno di ombra" (skia'" o[nar/a[nqrwpo"", (Pitica 8, vv. 95-96). 

 

[2] Cfr. T. S. Eliot, Gerontion, 15-16:"I an hold man,/ A dull head among windy

spaces".

 

[3] C'è il ricordo del

tovpo"

letterario antieroico dello scudo abbandonato. Il

prototipo, che io sappia, è Archiloco. Dopo avere confessato di averlo lasciato

presso un cespuglio, il poeta di Paro esclama:"

ejrrevtw: ejxau'ti" kthvsomai ouj

kakivona

", vada in malora, al posto suo me ne procurerò un altro, non peggiore.

 

[4] Cfr. Virgilio, Eneide, VI, 45 sgg.

 

[5] Cfr. Vangelo secondo Matteo, 25, 25:"et timens abii et abscondi talentum tuum

in terra", ebbi paura e andai a nascondere il tuo talento sotto terra.

 

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