mercoledì 15 febbraio 2023

Osare la trasgressione del conformismo. Nietzsche e Odisseo.


 

 Il conformismo annienta l’identità individuale

 Il conformismo nega l’apollineo, cioè il “conosci te stesso” di Delfi e “diventa quello che sei” di Pindaro[1]. Nega insomma l’identità individuale

“Se l’animale d’armento brilla nello splendore delle più pure virtù, l’uomo eccezionale deve per forza essere degradato a malvagio. Se la falsità pretende a ogni costo che la sua ottica sia chiamata “verità”, l’uomo propriamente veritiero lo ritroveremo sotto i nomi peggiori. Zarathustra non permette dubbi su questo punto: egli dice proprio che la conoscenza dei buoni, dei “migliori”, è stato ciò che gli ha dato l’orrore per l’uomo in genere (…) egli non nasconde che il suo tipo di uomo, relativamente un tipo superumano, è superumano proprio in rapporto con i buoni, e  che i buoni e giusti chiamerebbero diavolo il suo superuomo” (Nietzsche, Ecce homo. Perché io sono un destino 5.

I “buoni”, cosiddetti buoni di oggi sono quelli di sempre: i conformisti che approvano la norma dettata dal potere  qualunque essa sia.

Dove vige il provincialismo, una deviazione anche piccola dal conformismo è considerata un crimine.

 

 “ Questa specie di uomo-considerato quale diavolo dai conformisti- concepisce la realtà come essa è: è abbastanza forte per farlo-non è estraniato, separato da essa, è identico a essa, contiene in sé tutto ciò che la realtà ha di terribile e problematico e ciò solo può fare la grandezza dell’uomo” (Nietzsche, Op. cit).

 

Fa pensare a Odisseo questo trovare in se stesso e osare nei fatti la complicità con la realtà vera, schivando quella finta dei Lotofagi drogati, e delle maghe quale Circe che trasforma gli uomini in porci[2] o delle ninfe come Calipso che  annoia l’amante  al punto da farlo andare a piangere sulla riva del mare  dove non si saziava di lacrime sospirando il ritorno  poiché la ninfa non gli piaceva più ( “novston ojduromevnw/, ejpei; oujkevti h{ndane nuvmfhOdissea, V, 153) . La ninfa ahi quanto spiace!

E’ bene osare  e sostenere la diversità se si affronta la realtà vera e si evita quella falsa dei Lotofagi drogati.  I tre compagni di Odisseo mandati a informarsi su quella gente furono invitati a mangiare il dolcissimo frutto del loto- lwtoi`o melihdeva karpovn (Odissea, IV, 94). Dopo tale pasto gli inviati non volevano tornare indietro ma rimanere con i mangiatori di loto- met j ajndravsi lwtofavgoisi ( 96)  e scordare il ritorno novstou te laqevsqai (97). Ma vennero trascinati per forza nella concave navi, piangenti (klaivonta~ ajnavgkh/). Perché dimenticare il ritorno significa scordare chi siamo, perdere l’identità. Per l’aedo e per il rapsodo dimenticare –laqevsqai- è scordare l’Odissea mentre viene composta o cantate, il verbo più terrificante e proibito. In fondo anche per noi che facciamo lezioni e teniamo conferenze.

Come diranno più tardi Adorno e Horkheimer, l'io occidentale è simboleggiato da Odisseo, che costruisce faticosamente la propria identità ed il proprio dominio-su Itaca, sul suo equipaggio e su se stesso-rinunciando alle sirene, a Calipso e al fiore del loto ossia resistendo alla tentazione di abbandonarsi alla beata indifferenza in grembo alla natura". L'inversione di questo processo cui tende Nietzsche, continua Magris, è "lo scioglimento dionisiaco dell'io". Tale tendenza alla "dispersione dionisiaca dell'io nel fluire sensibile"[3] veramente è ben più antica di Nietzsche, però è condivisibile anzi è ineccepibile la collocazione dell'uomo Odisseo nella categoria dell'apollineo: egli è l'uomo che si individua nella conoscenza e nel dolore, quindi difende e mantiene il principium individuationis  davanti a tutte le lusinghe e contro tutti gli assalti. L'Odissea  è dunque "hjqikhv",  fatta di caratteri, prima di tutto quello del suo protagonista, come la definiva già Aristotele[4], oltre che complessa per via dei numerosi riconoscimenti, a partire dall' ajnagnwvrisi" che di se stesso compie Odisseo. E attraverso la sua lettura tutti noi possiamo riconoscere qualche cosa di quello che siamo, arrivando alla scienza suprema, quella prescritta dall'oracolo delfico. "Conosci te stesso" è tutta la scienza . Solo alla fine della conoscenza di tutte le cose, l'uomo avrà conosciuto se stesso. Le cose infatti sono soltanto i limiti dell'uomo"[5].

 

I drogati di oggi sono quelli di sempre: i conformisti che approvano il potere qualunque esso sia. Il protagonista del romanzo di Moravia e del film di Bertolucci: l’eterno conformista Marcello Clerici.

Quelli che applaudivano Mussolini poi hanno approvato piazzale Loreto, quelli che erano comunisti a milioni nei primi anni Settanta e ora dicono che il comunismo è stato peggiore del nazismo. E così via.

 

 L’ansia del conformismo è tipico dell’uomo molto debole  e insicuro, capace solo di identità gregaria e scimmiescamente mimetica.

Troviamo un' interpretazione malevola dei fanatici dell'ordine imposto da “chi che sia”  nello Zibaldone  di Leopardi. Costoro vengono accusati di viltà.

" Sono moltissimi che amano, predicano, promuovono, ed esercitano esclusivamente la giustizia, l'onestà, l'ordine, l'osservanza delle leggi, la rettitudine, l'adempimento de' doveri verso chi che sia, l'equa dispensazione de' premi e delle pene, la fuga delle colpe; ma ciò non per virtù, né come virtù, non per finezza o grandezza o forza o compostezza d'animo, non per inclinazione, non per passione, ma per viltà e povertà di cuore, per infingardaggine, per inattività, per debolezza esteriore o interiore, perché non potendo (per debolezza) o non volendo (per pigrizia) o non osando (per codardia) né provvedersi né difendersi da se stessi, vogliono che la legge e la società vegli p. loro, e provvegga loro e li difenda senza loro fatica...." (3316).

Il conformista sta sempre dalla parte del vincitore e non è capace di approvare nessuna delle azioni del vinto: se ha perso non poteva che avere tutti i torti.   

 Orazio che pure esulta per la sconfitta e la morte della nemica dei suoi committenti, deve riconoscere il coraggio di questa donna nelle tre strofe[6] conclusive dell'Ode I, 37: " Fatale monstrum: quae generosius/perire quarens nec muliebriter/expavit ensem nec latentis classe cita reparavit oras,/ Ausa et iacentem visere regiam/vultu sereno, fortis, et aspera/tractare serpentes, ut atrum/corpore combiberet venenum,// Deliberata morte, ferocior:/saevis Liburnis scilicet invidens/privata deduci superbo,/non humilis mulier, triumpho" (vv. 25-32), il mostro del destino; ella che cercando una morte più nobile, non ebbe, da donna, paura della spada, né con la flotta veloce cercò in cambio lidi nascosti, osando anzi osservare la reggia prostrata con sguardo sereno, e con coraggio, maneggiare i serpenti feroci, per bere il nero veleno con il corpo, più fiera dopo avere deciso la morte: rifiutando evidentemente alle crudeli imbarcazioni liburniche di essere trascinata, come una qualunque, dietro al superbo trionfo, lei donna non ordinaria.

 

Apprezzare almeno un aspetto particolare del nemico fa parte di quella obiettività epica della storiografia antica che parte dal proemio di Erodoto  Il quale indicava sia gli Elleni sia i barbari, gli agonisti della grande guerra quali autori delle opere grandi e meravigliose compiute da entrambi, e  il suo racconto darà visibilità e gloria tanto ai vincitori quanto ai vinti.  Plutarco nel De Herodoti malignitate, Peri; th`~   JHrodovtou kakohqeiva~  ( 857a)  accusa lo storiografo  di essere filobavrbaro".

Questo non significa che fosse “miselleno”.

 

Bologna 15 febbraio 2023 ore 17, 08 giovanni ghiselli

p. s.

Sempre1323842

Oggi304

Ieri393

Questo mese5439

Il mese scorso11301

 



[1] gevnoio oi|o~   ejssiv” (Pitica II  v. 72),

[2]hJ suw`n morfwvtria-Kivrkh ” Euripde, Troiane, 437-438

[3]L'anello di Clarisse , p. 6.

[4]Poetica  , 1459b.

[5]Nietzsche, Aurora , p. 40.

[6] Alcaiche

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