giovedì 27 ottobre 2022

Sul Potere. IV parte

Pericle
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“Nulla era più strano di questo popolo sovrano di Atene. Sempre geloso della sua democrazia, sempre febbrilmente ansioso a ogni grido d’allarme contro le minacce oligarchiche e tiranniche, esso si abbandonava ciecamente alla guida capricciosa, interessata e spesso irragionevole dei demagoghi. Così, mentre libertà e uguaglianza valevano al di sopra di ogni cosa, il demos stesso esercitava malignamente l’oppressione più dura e più dispotica sui ricchi e sui nobili, ai quali imponeva senza riguardo liturgie e incombenze d’ogni sorta; anzi il massimo piacere dei giurati era comminare condanne severe, perfino ingiuste, agli imputati più illustri, nonostante la loro nobiltà e la loro ricchezza. Gli ottimati ricorsero allora al mezzo che appariva più a portata di mano: associazioni o eterie furono allargate fino a diventare clubs politici, destinati a promuovere il sostegno reciproco fra i loro membri in caso di elezioni e di processi” (Droysen, Aristofane, p. 114).
Aristofane denuncia ridendo la parzialità, contraria ai ricchi, dei tribunali popolari ateniesi, nella commedia Sfh`ke~ (le Vespe, del 422). Un vecchio giudice dell’Eliea, Filocleone. che prende la modesta paga di tre oboli al mese, esulta per il potere che il suo ruolo gli conferisce: tutti lo adulano e corteggiano, in casa e fuori, e “quando io fulmino-dice- schioccano con le labbra per paura e se la fanno adosso ricchi e nobili (vv. 626-628). E anche tu – rivolto al figlio Bdelicleone - mi temi. Ma il giovane che ha schifo di Cleone lo convincerà che il demagogo usa lui e altri vecchi pazzi compensandoli con una misera paga rispetto ai suoi grossi profitti.
“Si produce, con lo sviluppo della democrazia radicale, una svolta inattesa, pur essa legata ai rapporti di forza. Sorge cioè col tempo, all’interno della città democratica, una polarità o meglio antinomia tra l’idea della superiorità della legge (nucleo di partenza della democrazia stessa contro il sopruso di casta) e l'idea, estrema, che il popolo è esso stesso al di sopra della legge. E' quello che dicono i capipopolo, minacciosamente, durante la prima fase del processo dei generali vincitori alle Arginuse: "qui si vuole impedire al popolo di fare ciò che vuole!" E' il problema che dibattono Alcibiade e Pericle nel dialogo riportato da Senofonte"[1].
 
Nei Memorabili di Senofonte, Pericle tutore di Alcibiade, rispondendo alle domande urgenti del ragazzo non ancora ventenne, ammette che tutto quanto uno costringe a fare senza prima avere persuaso (mh; peivsa~ ajnagkavzei) o con parole scritte, o in altro modo, è piuttosto violenza che legge: "biva ma'llon h] novmo~ ei\nai" (1, 2, 45). Allora, lo incalza Alcibiade, tutti gli ordini che la massa, la quale ha potere sui ricchi, prescrive senza persuaderli, sarebbe violenza piuttosto che legge? Pericle elude la risposta dicendo all'adolescente che sta facendo sofismi tipicamente giovanili: da ragazzo li faceva anche lui (1, 2, 46).
 
Tucidide fa l'elogio finale di Pericle dicendo che era incorruttibile al denaro e teneva in pugno la massa lasciandola libera ("katei'ce to; plh'qo" ejleuqevrw"") e non si faceva condurre più di quanto la conducesse (II, 65, 8).
 
Allora “l’istanza fatta valere dalla demoktratia ateniese (“ il popolo sia al di sopra di tutto col suo deliberare (boulesthai) viene in parte vanificata (o contenuta) attraverso il meccanismo della circolarità masse-capi. E’ Teramene il grande regista del processo delle Arginuse! Il demo crede di imporre il proprio volere ma è lui che lo pilota, anche attraverso i “retori minori”…Quella circolarità riemerge, sulla scala dei millenni, ogni volta che un moto di popolo, un ridestarsi del “popolo”, prende corpo e dà forma a uno Stato”[2].  
 
   Il buleuta Callisseno presentò l'accusa formulando una proposta di condanna a morte. La difesa degli strateghi fatta da Eurittolemo mise in rilievo l’illegalità della proposta di condannare a morte gli strateghi senza distinguere le responsabilità individuali e denuncia Teramene come colui che avrebbe dovuto raccogliere i naufraghi e che poi invece nell’assemblea precedente il processo aveva accusato gli strateghi (o{~ ejn th'/ protevra/ ejkklhsia/ kathvgorei tw'n strathgw'n, Senofonte, Elleniche, 1,7, 31)
 
Sentiamo quindi Polibio: “paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (6, 4 , 4), similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è  quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare democrazia. Il fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli  erano pochi (ojlivga me;n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~ nel primo periodo della democrazia radicale.
 
 In Cicerone leggiamo: “Si vero populus plurimum potest omniaque eius arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia” ( de rep., 3, 23), se poi il popolo ha il massimo potere e tutto viene retto secondo il suo arbitrio, quella si chiama libertà, ma è piuttosto licenza.
Democrazia e isonomia dunque non coincidono: “Demokratìa” implica, nella terminologia politica greca, anche “isonomìa”, certo; ma evidentemente deve comportare pure qualche cosa di diverso… qualche cosa, appunto, che isonomìa non è sufficiente a significare, e che è significato invece dalla parola che vuol dire “potere del popolo”. Non soltanto liberté ed égalité dovevano costituire dunque il motto della democrazia ateniese; in esso avrebbe dovuto figurare qualche altra cosa, che non solo ad un Platone, ma anche ad un Isocrate o ad un Aristotele poteva non andare a genio: e non già perché essi fossero nemici della libertà e dell’uguaglianza, bensì forse proprio perché erano troppo amici di esse. E appunto qui riesce opportuna la lettura diretta e attenta dei testi: perché ne risulterà che la democrazia della quale parlano gli scrittori greci del V e del IV secolo non è quella democrazia che consiste nel regime di libertà e di uguaglianza, bensì quella  che ci rappresenta efficacemente Aristotele quando la definisce il governo dei poveri nel loro particolare interesse. Dei poveri, si badi, e non, come si ode spesso ripetere a proposito di questa definizione aristotelica, dei molti o della maggioranza…Ora, è perché la democrazia è il governo di classe nel quale i poveri-noi oggi diremmo il proletariato- hanno il potere, che Aristotele la considera forma di governo degenere: e non certo perché in essa regnino la parrhesìa e l’isonomìa, la libertà e l’uguaglianza. Anzi, ciò che Aristotele deplora nella democrazia è che il popolo - cioè, ripeto, il proletariato - vi tenda ad essere “kuvrio~ tw'n novmwn” (Politica, 1298b), padrone delle leggi e non soggetto ad esse, e conseguentemente non vi siano la libertà e l’uguaglianza, che soltanto dall’assoluta sovranità della legge, e non da quella di un uomo o di una classe, sono assicurate. In altre parole, Aristotele condanna la demokratìa perché è un regime di classe socialistico, e contrappone ad essa come corrispondente forma retta di governo quella-la politèia- in cui governa la maggioranza sì, ma sono sovrane le leggi: lo Stato di diritto insomma, lo Stato di democrazia liberale”[3].
 
Invero Aristotele nel passo citato sopra da Fassò “kuvrio~ tw'n novmwn” (Politica, 1298b), non si riferisce alla democrazia ma a un ordinamento oligarchico estremo (ojligarcikwtavth tavxiς)
Vedi piuttosto dove Aristotele dà ragione a chi dice che siffatta dhmokrativan non è una politeivan poiché dove non comandano le leggi non c’è costituzione ( o[pou ga;r mh; novmoi a[rcousin, oujk e[sti politeiva, Politica, 1292a).
 
Dove non vengono osservati i Princìpi fondamentali della Costituzione questa è annullata
 
La nostra Costituzione è democratica ma così inattuata, inapplicata e tradita com’è  nei fatti non è nemmeno una Costituzione poiché dove sussistono tali  e tanti ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana” alla maggior parre dei cittadini non c’è costituzione oujk e[sti politeiva (cfr. Arisytotele, Politica, 1292 a, 32)
E non c’è costituzione in questo paese dove la quasi totalità dei parlamentari non ripudia, la guerra anzi parla e agisce in  modo di rinfocolarla e prolungarla.
  
Isocrate nell’Areopagitico (del 356) ricorda con nostalgia il tempo dei larghi poteri dell’Areopago malamente esautorato dalla riforma di Efialte nel 461. Dai tempi di Solone  questo era una sorta di Tribunale Supremo e di Corte Costituzionale che  esercitava la nomofulakiva, la custodia delle leggi, garantendo un indirizzo politico stabile. Questo consesso si prendeva cura anche del decoro dei cittadini. La paideiva infatti non deve limitarsi al pai'".
Nel passato agli adulti si dedicavano cure più attente che ai ragazzi. L'Areopago vigilava sulla eujkosmiva, il buon contegno della cittadinanza. Potevano entrarvi solo persone di ottima nascita e che avessero dato prova di un carattere irreprensibile. Le buone leggi non bastano se nella polis non ci sono buoni costumi. Il progresso della virtù non nasce dalle leggi ma dalle abitudini giornaliere:" ejk tw'n kaq j  eJkavsthn th;n hJmevran ejpithdeumavtwn" (40). A Sparta la condotta dei cittadini era buona e assai modesto il numero delle leggi scritte.
 
Tacito nella Germania nota:"paucissima in tam numerosa gente adulteria ", quindi aggiunge:"nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur " (19), e conclude polemicamente il capitolo:"plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges".  
 
 Una sua nota conclusione “Corruptissima re publica plurimae leges" (Tacito, Annales, III, 27), quanto più è corrotto uno Stato, tanto più numerose sono le leggi.
“E si può fare questa conclusione: che dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono; dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano”[4].
  
L'età giovanile, continua Isocrate, è quella della torbidezza spirituale: i ragazzi sono pieni di desideri e devono educarsi prendendo buone abitudini e compiendo fatiche che comportano gioia (Areopagitico, 43). Attività buone che costino fatica e diano soddisfazione. La paideiva va conformata ai mezzi di cui ciascuno dispone. I più poveri venivano indirizzati all'agricoltura e al commercio:" ejpi; ta;" gewrgiva" kai; ta;" ejmporiva"" (Areopagitico, 44). Gli abbienti invece si dedicavano alla ginnastica, all’ ippica, alla caccia, e alla filosofia. 
Di qui si vede come studiare e fare sport siano privilegi. Chi li considera fatiche non se ne intende.
Del resto non credo che psagare di più uno che ha studiato di più sia razionale né morale: si aggiunge privilegio a privilegio.
 
 Pure il Protagora, il sofista eponimo e personaggio del dialogo platonico (326c) fa dipendere la durata dell'istruzione dai mezzi dei genitori. Lo studio della poesia, della musica e la pratica della ginnastica li fanno oiJ mavlista dunavmenoi-mavlista de; duvnantai oiJ plousiwvtatoi- i più ricchi che hanno possibilità maggiori mandano i figli a scuola prima e li fanno uscire dopo. E quando hanno lasciato la scuola, devono imparare le leggi perché non vivano a proprio arbitrio e a casaccio 
 
Isocrate non vuole eliminare le differenze economiche. Il difetto dell'educazione moderna è la mancanza di ogni pubblico controllo, sostiene. Una volta l' ajkosmiva, la condotta disordinata, veniva deferita all'Areopago che cominciava con l'ammonizione, poi passava alla minaccia, quindi alla punizione. Prima c’era lo qewrei'n, l’osservare, poi il nouqetei'n, l’ammonire, quindi l' ajpeilei'n, il minacciare, infine il kolavzein, il punire. L'Areopago insomma katei'ce, teneva a freno i cittadini con sorveglianza e punizioni. Allora la gioventù non sciupava il suo tempo a oziare in locali da gioco o con le flautiste. Ogni giovane si atteneva all'attività dove era stato posto e cercava di imitare gli uomini che vi primeggiavano. Nel comportamento con gli anziani i ragazzi osservavano le regole del rispetto e della cortesia.
Isocrate ricorda il dittico a contrasto dell'antica e nuova paideia disegnato da Aristofane nelle Nuvole . I giovani non andavano nelle osterie, non facevano i buffoni: quei canzonatori di professione che ora chiamano ingegnosi allora li consideravano dei disgraziati:" ejkei'noi dustucei'" ejnovmizon tou;" skwvptein dunamevnou" ou}" nu'n eujfuei'" prosagoreuvousin"(Areopagitico, 49). Il concetto di aijdwv" era un retaggio dell'antica etica e della formazione nobiliare.
 
Nella Politica Aristotele afferma che dove le leggi non sono sovrane appaiono i demagoghi, beniamini della folla. Un popolo del genere diventa dispotico in quanto non è governato dalla legge. In questa situazione sono reputati gli adulatori, e una democrazia di tale fatta corrisponde alla tirannide tra le forme monarchiche. Infatti le decisioni dell’assemblea corrispondono agli editti del tiranno e il demagogo corrisponde all’adulatore. Il popolo è sovrano di tutto, il demagogo lo è dei sentimenti del popolo. Dunque ha ragione chi dice che tale democrazia non è una costituzione, poiché non c’è costituzione dove non comandano le leggi ( o[pou ga;r mh; novmoi a[rcousin, oujk e[sti politeiva, 1292a). Nella democrazia radicale c’è l’oppressione sui migliori attraverso i decreti (yhfivsmata) che prevalgono sulle leggi (novmoi). Così nella tirannide gli editti ejpitavgmata prevalgono sulle leggi.
Nella Costituzione degli Ateniesi , scritta negli ultimi anni di vita, Aristotele  (384-322 a. C.) passa in rassegna gli 11 regimi che si sono succeduti ad Atene e nota gli errori seguiti alla riforma di Efialte, il settimo cambiamento, che abbatté il potere dell’Areopago: da allora il governo commise più errori a causa dei demagoghi dia; th;n th'~ qalavssh~ ajrchvn (41, 2), per il potere sul mare. Poi ci fu la costituzione dei Quattrocento, l’ottavo cambiamento, il ritorno alla democrazia, il nono, e la tirannide dei Trenta, il decimo,  quindi, con la restaurazione democratica l’undicesimo, il popolo si è reso padrone assoluto di ogni cosa: “aJpavntwn ga;r aujto;~ auJto;n pepoivhken oJ dh'mo~ kuvrion” e amministra tutto con decreti e i tribunali- yhfivsmasin kai; dikasthivoi~, infatti le attribuzioni giudiziarie dal consiglio sono passate al popolo(41, 2). Il filosofo di Stagira preferisce un governo affidato al ceto dei possidenti.

 
Bologna 27 ottobre 2022 ore 19, 15
giovanni ghiselli

p. s
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[1] Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS BASILEUS, p. 58.
[2] Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS BASILEUS, p. 59
[3] G. Fassò, La democrazia n Grecia, p. 11.
[4] Machiavelli, discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, 17.

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