A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Il 28 giugno andai con Ifigenia a casa di una mia amica che ci aveva invitati a cena con altri suoi conoscenti. Eavamo una decina in tutto. Ci trovammo a passare la sera tra persone medie nella graduatoria socio economica e mediocre in quella culturale: professori, bottegai, proprietari di due o tre appartamenti. Erano infarciti di luoghi comuni e frasi fatte, di pregiudizi e prevenzioni ma credevano di possedere roba, cultura e talento.
Se mi capita ancora, assai raramente, di trovarmi tra persone del genere dichiaro di essere povero, incolto, decrepito, e mezzo pazzo, non senza vantarmi di tanta diversità da quanti sono reputati uomini di successo.
Questa razza priva di stampo buono ignora i classici. Chi li conosce e li ama secondo loro è un antiquato, un rottame. Io li prevengo presentandomi come un rifiuto.
Borghese secondo me non è , come affermano molti, l’uomo o la donna tradizionale che offre e pretede fedeltà: il valore della fedeltà è omerico, è quello della fides latina. Il borghese piccolo è piuttosto
l’ a{mouso~ janhvr, l’uomo privo di bisogni spirituali, l’ostile allo spirito. Questo è forse un mio pregiudizio e lo era già allora. Del resto i borghesi non sono tutti uguali e per giunta oggi la borghesia migliore, quella educata se non pure colta, va sparendo. Il suo posto è preso da una razza di affaristi e profittatori semianalfabeti guardati come modelli da una plebe stracciona, una borghesia infima che teme di essere raggiunta dai più poveri e li odia. In altri tempi costoro sono stati il braccio armato del regime fascista. La borghesia infima dei penultimi scatenata contro il proletariato oppresso che cerca di alzare la testa.
Questi penultimi sono la parte peggiore dell’umanità. I borghesi di quella cena antica era gente mediocre, poco significativa ma innocua. Volevo osservarli e studiarli. Ma Ifigenia fin dall’inizio della serata cercò di impedirmelo richiedendo per sé tutta la mia attenzione: i miei sguardi, il mio udito, senza pause.
Per ottenere alcuni intervalli di quella insania dovevo scontrarmi contro il suo egocetrismo maniacale senza dare in escandescenze. Dovevo limitarmi a muti rimproveri fatti di occhiatacce e altre espressioni di riprovazione della sua inverecondia. Le parole dei commensali a dire il vero non erano interessanti: alcuni dei più loquaci parlavano di una realtà che non è tale.
I meno associati mentalmente agli affari e alla roba parlavano di politica se non di arte, e la politica per loro non era tanto interesse per la polis, quanto per il potere e i potenti.
Ricordai Sallustio che considera l’ambizione un vizio meno lontano dalla virtù rispetto all’avidità: “Sed primo, magis ambitio quam avarizia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat” (Sallustio, Bellum Catilinae, XI), in un primo tempo più che l’avidità tormentava gli animi l’ambizione la quale però era un vizio più vicino alla virtù. Si tratta comunque di virtù senza morale nel senso machiavelliano.
Ifigenia era disinteressata al modo di pensare di quella gente mentre avrebbe dovuto rivolgerle l’attenzione in maniera che la sua insofferenza divenisse un giudizio cosciente che l’avrebbe salvata dal diventare come loro. Io li osservavo perché volevo giungere a convalidare con un giudizio critico l’avversione istintiva che sentivo per quella razza distante da cultura, buon gusto e pietas. Quia religiosi non sunt[1]. Il borghese tipico, il vero borghese non tollera l’assoluto.
Allora questo non mi era del tutto chiaro e volevo studiare quei commensali. Dovevo però lottare con Ifigenia che cercava di impedirmelo. Ho sempre allontanato chi cercava di ostacolare i miei studi, la principale delle opere grandi e laboriose che devo a me stesso. Sicché sfuggendo a Ifigenia che mi incalzava cercando ogni mio sguardo e parola per sé e avendo pure l’impertinenza e di avvertirmi che queste sue richieste erano la mia fortuna, mi sottraevo al tale sfacciata e rivolgevo domande a questo o a quella. Rispondevano ripetendo gli stereotipi allora di moda.
Faccio un esempio: un tale rispose alla mia domanda dicendo che felicità significa vivere e morire senza rimpianti né rimorsi.
“In greco è eujdaimoniva- provavo a ribattere- un buon rapporto con il proprio demone o destino, o carattere”.
“Che cosa c’entra il greco?” obiettava costui, senza capire né chiedere spiegazioni. Che cosa potevo fare? “Niente, dicevo, il geco non c’entra: è solo la mia malattia professionale”.
Le finniche erano interessate al greco e il latino sapevano anche parlarlo. Mi mancava l’educazione accademica delle ragazze dell’Università estiva. Questi personaggi temevano la diversità dalla norma e dovevano mostrare di essere persone a posto.
Il mio essere romito e strano mi è costato molto già fin dagli anni di Pesaro, ma non ho mai voluto rinnegarlo perché fa parte del mio daivmwn appunto, del mio destino e carattere. Come la solitudine.
Prima delle undici Ifigenia volle essere riaccompagnarta a casa. In macchina disse che non ce la faceva più e che io correvo il rischio di assimilarmi a loro. Pensai che una donna benevola non dovrebbe accentuare la mia solitudine ma non glielo dissi. Cominciavo a disperare della sua educazione.
Iniziavo a capire che quella giovane donna si comportava così perché era così e nemmeno Cristo l’avrebbe tenuta dall’agire in quel modo. “Non c’è Cristo che tenga” diceva la madre mia. E’ un toscanismo espressivo. L’ho ritrovato nel Machiavelli “mariolo sì, ma profondo”[2]
Con certe persone c’è poco da fare: possiamo osservarle come un fenomeno della natura e imparare qualcosa da loro. Insegnare, educarle è quasi impossibile.
Rimasi dunque in silenzio fino alla porta di casa sua. Mentre usciva dall’automobile le dissi che il giorno seguente sarei andato nel Veneto a trovare le amiche. Rispose che non poteva né voleva venire a trovare certa gente”. Quindi entrò in casa. “Io non ti avevo invitata” pensai, misi in moto e tornai a casa mia. Mi venne in mente con soddisfazione che in luglio sarei tornato a Debrecen dove avrei conosciuto persone del mio stampo. Quelle che conoscono e respirano kalokajgaqiva. Ne sentivo la mancanza.
Bologna primo gennaio 2024 ore 17, 46
p. s.
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[1] Cfr. Satyricon, 44.
[2] Cfr. Manzoni, I
promess sposi, capitolo XVII.
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