Rosso Fiorentino, Morte di Cleopatra |
La bellezza nella morte
Il kalovn, il bello
che giustifica esteticamente tanto la vita quanto la morte
La bellezza
e la dignità della morte vengono anteposte alla degradazione della vita da
Cleopatra, l'ultima dei Tolomei: lo capisce l'ancella Carmione la quale, al
soldato che, vedendo il cadavere della regina, le ha domandato : "kala; tau'ta
Cavrmion ;"
è bello questo?, risponde con il suo ultimo fiato: "kavllista me;n
ou\n kai; prevponta th'/ tosouvtwn ajpogovnw/ basilevwn" (Plutarco, Vita di Antonio, 85, 8), è bellissimo e si
confà a una donna che discende da re tanto grandi.
Lo stesso
personaggio (Charmian) dell'Antonio e Cleopatra di Shakespeare, all'ottuso
guardiano (First Guard) che le ha posto la medesima domanda retorica (Charmian,
is this well done?), replica: "It is well done, and fitting for a
princess - Descended of so many royal kings. Ah, soldier! (V, 2)", è ben fatto e adatto a
una sovrana discesa da tanti nobili re. Ah soldato!
Alfieri nel
1770 tornò a Berlino e andò a vedere il luogo dove si svolse una battaglia
della guerra dei sette anni (1756 - 1763): "Passando per Zorendorff,
visitai il campo di battaglia tra’ russi e prussiani, dove tante
migliaia dell’uno e dell’altro armento rimasero liberate dal loro giogo
lasciandovi l’ossa. Le fosse sepolcrali vastissime, vi erano manifestamente
accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente
terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era cresciuto misero e rado. Dovei
fare allora una trista, ma pur troppo certa riflessione; che gli schiavi son
veramente nati a far concio (Vita,
3, 9).
La riflessione impietosa, quasi empia, non annulla la
positività della vita che trionfa sulla morte dalla quale rinasce sempre in forme
rinnovate, nella folta e
verdissima bellezza del grano.
Si può estendere a questo pensiero quanto scrive Steiner di Omero e di Tolstoj: “Perfino nel mezzo della carneficina la vita si leva a sovrastare tutto il
resto. Attorno al tumulo sepolcrale di Patroclo i capi greci lottano,
gareggiano e lanciano il giavellotto a celebrazione della loro forza e della
loro vitalità. Achille conosce il destino che incombe su di lui, ma
"Briseide guancia graziosa" lo raggiunge ogni notte. La guerra e la morte
seminano distruzione nel mondo di Omero come in quello di Tolstoj, ma il centro resiste: ed è l'affermazione che
la vita è, in se stessa, un avvenimento di bellezza, che le opere e
i giorni degli uomini sono degni di essere ricordati e che nessuna catastrofe -
neppure l'incendio di Troia o di Mosca - è mai definitiva. Poiché oltre le
torri fumanti e oltre la battaglia rolla il mare color del vino, e quando
Austerlitz sarà dimenticata le messi torneranno, per usare un'immagine di Pope,
"a imbiondire il pendio". Questa cosmologia è riunita tutta intera
nell'ammonimento di Bosola alla Duchessa di Malfi [1] che maledice la natura in un
estremo impeto di ribellione:"Guarda, le stelle brillano ancora".
Sono parole tremende, piene di distacco e dell'aspra consapevolezza che il
mondo fisico contempla impassibile i nostri dolori. Ma superiamo la crudeltà
dell'impatto e vedremo che esse contengono l'assicurazione che la vita e la
luce delle stelle dureranno al di là di qualsiasi momentaneo caos"[2].
L’ ejxochv di Saffo, la sua eccellenza, La bellezza
nel Sublime
Il fr. 2D è la parte dell'ode conservata dall'Anonimo trattato di
estetica Sul sublime. del I secolo d. C. E' forse la poesia più
nota di Saffo poiché è stata tradotta da Catullo nel carme 51. Cominciamo con
il darne una traduzione nostra:
" Quello mi sembra pari
agli dei
essere l'uomo che davanti a te
sta seduto e da vicino ti ascolta
dolcemente parlare
e sorridere amabilmente, cosa che a me certo 5
sconvolge il cuore nel petto:
appena infatti ti guardo per un momento, allora
non
è permesso più che io dica niente
ma la lingua mi rimane spezzata
un fuoco sottile subito corre sotto la pelle
e con gli occhi non vedo nulla e mi
rombano le orecchie
e un sudore freddo mi cola addosso, e un tremore
mi prende tutta, e sono più verde
dell'erba, poco lontana dall'essere morta
appaio a me stessa
ma bisogna sopportare tutto poiché..."
Strofe saffiche
Qui finisce
la citazione dell'Anonimo Sul
Sublime il quale si chiede (10) dove stia la grandezza di Saffo e
risponde: “Saffo prende le sofferenze che capitano nelle follie amorose dai
fatti conseguenti e dalla verità stessa in ogni occasione. Dove mostra la sua
capacità? Nel fatto che è straordinaria nello scegliere e collegare tra loro i
vertici e gli aspetti di massima tensione”.
Quindi cita
l'ode e ripete che il capolavoro è prodotto dalla scelta dei momenti più
intensi e dal loro collegamento. “ h J lh'yi~ d j wJ~ e[fhn tw'n a[krwn
kai; hJ eij~ taujto; sunaivresi~ ajpeirgavsato th;n ejxochvn”, la scelta, come dicevo, dei
vertici e la loro concentrazione nello stesso componimento nel medesimo punto
ha prodotto l’eccellenza”.
Ogni
capolavoro presenta tale eccellenza ossia questo tipo di bellezza.
La bellezza dunque può incutere paura
Leopardi, quando tratta di bellezza
nello Zibaldone (pp. 3443 - 3444), cita, in greco, i vv. 5 - 6
dell’ode di Saffo , dopo avere riportato questi della Canzone XIV[4] di
Petrarca ( Rime , CXXVI, 53 - 55):
"Quante
volte diss'io
allor pien
di spavento/
"Costei
per fermo nacque in paradiso!".
Quindi
fa seguire un commento relativo a entrambi gli autori:" E' proprio
dell'impressione che fa la bellezza...su quelli d'altro sesso che la veggono o
l'ascoltano o l'avvicinano, lo spaventare, e questo si è quasi il principale e
il più sensibile effetto ch'ella produce a prima giunta, o quello che più si
distingue e si nota e risalta."
Leopardi del
resto riconosce il fatto che la bellezza è associata alla bontà
dalla kalokajgaqiva greca: Quello dei Greci era : “un popolo che, eziandio nella lingua, faceva
pochissima differenza dal buono al bello” (Leopardi, Operette morali, Detti
memorabili di
Filippo Ottonieri ).
Per questo
la bruttezza di Socrate gli era di non piccolo pregiudizio in un popolo che per
giunta “era deditissimo a motteggiare”.
Sicché Socrate
“impedito di aver parte, per dir cosi, nella vita (…) si pose per ozio a
ragionare sottilmente (…) nel che gli venne usata una certa ironia, un’ironia
che “non fu sdegnosa e acerba, ma riposata e dolce”. Socrate parlava con le
persone giovani e belle “piu volentieri che cogli altri” poiché da questi
avrebbe voluto essere amato. L’Ottonieri concludeva che “ l’origine di quasi
tutta la filosofia greca, dalla quale nacque la moderna, fu il naso rincagnato,
e il viso da satiro, di un uomo eccellente d’ingegno e ardentissimo di cuore”.
Dunque Socrate, come Ulisse. “non formosus erat, et tamen… citato sopra.
Nello Zibaldone il
Recanatese presenta una riflessione sul modo dei greci “intendentissimi
del bello” di
considerare la bellezza, quella degli occhi in particolare.
“Le Dee e specialmente Giunone, è chiamata spesso da Omero bow'pi" (bowvpido") cioè ch' ha occhi di bue . La
grandezza degli occhi del bue, alla quale Omero ha riguardo, è certo sproporzionata
al viso dell'uomo. Nondimeno i
greci intendentissimi del bello, non temevano di usare questa
esagerazione in lode delle bellezze donnesche, e di attribuire e appropriar
questo titolo, come titolo di bellezza, indipendentemente anche dal resto, e
come contenente una bellezza in sé, contuttoché contenga una sproporzione. E in
fatti non solo è bellezza per tutti gli uomini e per tutte le donne (che non
sieno, come sono molti, di gusto barbaro) la grandezza degli occhi, ma anche un
certo eccesso di questa grandezza... Dalle quali cose deducete
1°. Quanto sia vero che gli occhi sono la principal parte della sembianza
umana, e tanto più belli quanto più notabili, e quindi quanto più vivi. E che
in essi veramente si dipinge la vita e l'anima dell'uomo (e degli animali); e
però quanto più son grandi, tanto maggiore apparisce realmente
l'anima e la vitalità e la vita interna dell'animale. (Né quest'apparenza è
vana). Per la qual cosa accade che la grandezza loro è piacevole ancorché
sproporzionata, indicando e dimostrando maggior quantità e misura di
vita"(2546 - 2548).
Alla bellezza si associa l’amore prima della
paura.
L’amore suscitato dallo sguardo
Cfr.
Properzio: Si nescis, oculi sunt in amore duces "[5].
La potenza
dello sguardo della donna può tuttavia avere anche effetti paralizzanti, non
senza vaghi echi catulliani: "ov'ella passa, ogn'om ver lei si gira,/e cui
saluta fa tremar lo core,/sì che, bassando il viso, tutto smore,/…" (Ne
li occhi porta, vv. 3 - 5. Gli echi catulliani e,
indirettamente da Saffo, sono più evidenti nel sonetto Tanto gentile del
XXVI capitolo: "Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia
quand'ella altrui saluta, / ch'ogne lingua deven tremando muta, / e li occhi no l'ardiscon di guardare…
Mostrasi sì piacente a chi la mira, / che dà per li occhi una dolcezza al
core" (vv. 1 - 4, 9 - 10).
Sant' Agostino personaggio del Secretum di Petrarca, ricorda a Francesco la
pericolosità dello sguardo femminile: se contemplare un bel corpo infiamma la
lussuria, un leggero volger d'occhi risveglia l'amore che si era assopito:
"spectata corporis species, luxuriam incendit; levis oculorum flexus, amorem dormitantem
excĭtat " ( III, 50).
Il tovpo" dell'amore ispirato solo o
soprattutto dagli occhi si trova anche in Pene d'amore perdute di Shakespeare[6]:
Byron in preda a un amore "pazzo
come Aiace" cerca di resistergli per non finire ammazzato come una pecora,
ma nella donna che lo ha stregato, Rosalina,
c'è qualche cosa di irresistibile: "Oh, ma il suo occhio... per la luce
del giorno, se non fosse per il suo occhio io non l'amerei; sì, per i suoi due
occhi!... Dagli occhi delle donne io
traggo questa dottrina: essi
scintillano senza posa di un vero fuoco prometeico, e rappresentano i libri, le arti, le
accademie che mostrano, contengono e alimentano il mondo intiero;
senza di loro nessuno può eccellere in cosa alcuna" (IV, 3).
T. Mann (1875 - 1955) spiega, a ragione, che l'amore è
suscitato e mantenuto soprattutto dall'attrazione del volto, e in questo degli
occhi, siccome significativi del carattere della persona: "C' era stato uno
spazio non più lungo di due palmi fra il suo viso e quello di lei, quel viso
dalla forma strana eppure nota da tanto tempo, una forma che gli piaceva come
null'altro al mondo, una forma esotica e piena di carattere...ciò che lo aveva
colpito ancora maggiormente erano stati gli occhi, quegli occhi sottili, quegli
occhi da Kirghiso dal taglio schiettamente affascinante, occhi d'un grigio
azzurro o d'un azzurro grigio come i monti lontani, che, a volte, con un
curioso sguardo di traverso non destinato certo a vedere, potevano oscurarsi,
fondersi in una tinta velata notturna"[7].
Molto più avanti si legge: "Quando il desiderio carnale... s'è fermato
sopra una persona con un determinato viso, allora si parla d'amore. Io non
desidero soltanto il suo corpo, la sua carne; anzi dico che se nel suo viso
qualche cosa anche piccola fosse diversamente conformata, probabilmente non
desidererei più neppure il suo corpo... Questo dimostra che amo l'anima sua e
l'amo con l'anima. Poiché l'amore per il viso è amore spirituale"[8].
“Gli uomini
di sentimento sono pieni di espressione, perché l’espressione nasce dal bisogno
del sentimento di farsi valere, un bisogno che si mostra senza inibizioni,
apertamente…Rachele era bella e
graziosa. Lo era in una maniera nello stesso tempo mansueta e birichina,
che veniva dall’anima, ma si vedeva - e anche Giacobbe lo vedeva perché lei lo
guardava - che spirito e volontà trasformati in senno e coraggio muliebri,
erano le segrete sorgenti che alimentavano quella grazia; tanto espressiva era
la sua persona, tanto aperta e pronta alla vita nella fermezza dello sguardo
(…) la cosa più bella e graziosa
era il suo modo di guardare, era lo sguardo dei suoi occhi neri, dal taglio lievemente
obliquo, uno sguardo che la miopia stranamente trasfigurava e addolciva,
in cui, lo diciamo senza esagerazione, la natura aveva raccolto tutte le
attrattive che essa può dare a uno sguardo umano: una notte profonda, liquida,
mite, dolcissima, una notte eloquente, piena di serietà e di ironia, uno
sguardo che Giacobbe non aveva o credeva di non avere ancora mai visto (…) Era
giunto alla meta, e la fanciulla con gli occhi pieni di dolce oscurità che
pronunciava il nome di suo padre lontano era la figlia del fratello[9] di
sua madre[10] (…) Quanto a Lia, non appariva meno ben
formata di Rachele, era anzi più alta e imponente, ma offriva un esempio
caratteristico di quel singolare deprezzamento che una figura perfetta subisce
quando si accompagna a un volto brutto. Aveva bensì abbondantissimi capelli
color cenere (…) Ma i suoi occhi
di un verde - grigio convergevano malinconicamente strabici in direzione del
naso lungo e rosso, e arrossate erano anche le palpebre colpite da
infezione, arrossate le mani che cercava di nascondere , come pure lo sguardo
strabico su cui abbassava continuamente le ciglia con una specie di dignità
pudica. ‘Ecco qua’, pensò Giacobbe osservando le due sorelle, ‘la luna scema e
la luna piena!’”[11].
Gli occhi
delle donne che ci attirano non
sono solo delle cose belle secondo Proust (1871 - 1922) insomma non sono soltanto materia:"Se pensassimo che gli occhi di una
ragazza come quella non sono che una brillante rotella di mica, non saremmo
così avidi di conoscere e di unire a noi la sua vita. Ma sentiamo che quel che
riluce in quel disco pieno di riflessi non è dovuto unicamente alla sua
composizione materiale; che sono, ignote a noi, le nere ombre delle idee che
quell'essere si fa a proposito delle persone e dei luoghi che conosce…le ombre,
anche, della casa in cui rientrerà, i progetti ch'essa fa o altri han fatti per
lei; e soprattutto che è lei, con i suoi desideri, le sue simpatie, le sue
repulsioni, la sua oscura e incessante volontà"[12].
Anche Svevo (1861
- 1928) ha capito che
l'attrazione più forte esercitata dalla donna deriva dal fulgore dei suoi
occhi: "Quand'egli le parlò, essa levò rapidamente gli occhi e glieli
rivolse sulla faccia così luminosi, che il mio povero principale ne fu proprio
abbattuto…Non so se a questo mondo vi siano dei dotti che saprebbero dire
perché il bellissimo occhio di Ada adunasse meno luce di quello di Carmen e
fosse perciò un vero organo per guardare le cose e le persone e non per
sbalordirle"[13].
Gli occhi sono comunque legati all'amore e al sesso
Gli occhi che Edipo si colpisce da solo sono, secondo Freud, il simbolo dei genitali: "l'accecamento con cui Edipo si punisce dopo
aver scoperto il proprio crimine è, a quel che testimoniano i sogni, un sostituto simbolico dell'evirazione"[14].
"Si deve tenere presente che, nella mitologia classica, gli occhi
presentano spesso un legame con l'amore e con la sessualità, e in particolare
con i genitali maschili: numerose sono le rappresentazioni vascolari di falli
con occhi. Forse il gesto dell'autoaccecamento di Edipo racchiude anche un
significato di simbolica castrazione, di autopunizione per i delitti sessuali
commessi. Infliggendo una punizione ai suoi occhi, Edipo punisce la parte del
suo corpo che si è macchiata di colpa nei confronti della madre"[15].
Non solo nel campo amoroso è capitale l'importanza degli occhi: nel De
oratore di Cicerone, Crasso afferma che ogni forza espressiva sta nel
viso e in esso appunto la supremazia è tutta degli occhi:"in ore sunt
omnia, in eo autem ipso dominatus est omnis oculorum " (III,
221). I nostri vecchi, continua l'oratore, non approvavano che si mascherasse
neppure Roscio[16]:"animi
est enim omnis actio et imago animi vultus, indices oculi", infatti
ogni gesto viene dall'animo e il volto è l'immagine dell'animo, e gli occhi
sono i rivelatori
[3] Cfr. Miles gloriosus di Plauto
l’ancilla paraninfa dice al Miles:"dum te obtuetur, interim linguam
oculi praeciderunt" (v. 1271), mentre Acroteleuzia ti guardava nel
frattempo gli occhi le hanno tagliato la lingua.
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