Aveva già scagliato diverse frecce
ma non aveva colpito il bersaglio. Le era sfuggita un’ occasione: lasciato il
marito, aveva avuto una relazione con un danzatore famoso che dopo pochi passi
fatti insieme l’aveva lasciata per un collega più famoso di lui. Nel
raccontarmi questi fatti Ifigenia temeva il mio giudizio, ma senza ragione. Le
dissi che io procedevo per la mia strada dove pure non mancavano ostacoli.
“Tu sai superarli” fece lei,
benevolmente. “Finché non inciampo e vado a sbatterci contro” replicai.
Sorrise.
La osservavo e la ascoltavo.
Parlavamo senza infingimenti, come nel tempo dell’amore che pure era finito da
tempo. Le proposi un giro sui colli.
La notte, stranamente, era dolce:
soffiava uno scirocco caldo, quasi afoso e innaturale per l’ultimo giorno
dell’anno
“Nell’aria c’è qualche cosa di
magico” disse.
“Sì, andiamo sul monte Donato,
quello della nostra salita ciclistica. Là potremo sentire meglio gli
odori di questo vento fatato”. Salimmo per via Siepelunga con la bianca
Volkswagen. Arrivati sul colle, uscimmo dall’automobile e camminammo un poco
nell’oscurità afosa e bagnata. Il cielo era marrone e striato di bianco,
sebbene assai buio: potevamo vedere soltanto alcuni alberi lungo la strada.
“Sembrano soldati in marcia verso
un massacro” disse.
La guardavo intensamente per
vederla e comprenderla il più possibile prima di perderne la visione reale per
chissà quanto tempo, magari per sempre. Le correnti della vita ci avevano
allontanati già molto l’uno dall’altro e ci stavano portando in direzioni
diverse, né potevano essere fermate.
Mi piaceva ancora, sebbene fosse
molto lontana dalla sua forma migliore
Il vento sciroccale le aveva
appesantito i capelli che si trovavano schiacciati nella faccia e sul cranio,
simili ad alghe marine. L’umidità della notte le aveva reso viscide e lucide le
guance imbellettate, mentre la bocca, grande e amara, vistosamente dipinta,
semi aperta, sembrava vicina a disfarsi. Tutto il suo volto ai miei occhi e al
mio sentimento appariva come una maschera tragica.
“Dio salvala tu - pregavo
- dalla rovina. Ti ho voluto bene, creatura, ho fatto tutto quanto potevo per
aiutarti. Troppo poco. Tu non sei diventata la donna geniale e sicura che
promettevi, non ti sei realizzata in maniera artistica come speravi: adesso,
arrivata vicino ai trent’anni mi fai l’impressione una proletaria sviata. Nella
tua debolezza, nei tuoi fallimenti però, conservi comunque qualche
cosa di bello”. Questo pensavo mentre la riaccompagnavo a casa. Poi sono
tornato a casa mia, sono andato a letto e ho pensato con dolore e rimorso
al patrimonio di forza, di salute, di intelligenza, di gioia che avevamo
sciupato e perduto negli anni passati insieme e finiti per sempre
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