Sacrifici umani. Tiro, Cartagine e Roma. Galli e Britanni.
I Tirii pensarono di ripristinare i sacrifici umani sacrum quoque, quod equidem dis minime cordi esse crediderim…ut ingenuus puer Saturno immolaretur , IV, 3, 23, cioè di sacrificare a Saturno un fanciullo nato libero. Un sacrilegium, verius quam sacrum (curzio Rufo, IV, 3, 23) più che un sacrificio un sacrilegio, di cui si dice che venne praticato dai Cartaginesi usque ad excidium urbis suae (146 a. C.). Se non si fossero opposti gli anziani “humanitatem dira superstitio vicisset”, una terribile superstizione avrebbe vinto il senso di umanità.
Un post
A proposito degli innumerevoli sacrifici umani perpetrati nelle guerre, sul lavoro, sulle strade, nelle case.
“Sacrilegium verius quam sacrum” (Curzio Rufo, IV, 3, 23)
Credo che gli innumerevoli massacri di militari e civili-bambine, bambini, donne e uomini- praticati soprattutto ma non solo durante le guerre, sempre più spesso dopo la seconda mondiale, non siano sacrifici ma sacrilegi-sacrilegia verius quam sacra.
Curzio Rufo commenta scrivendo: “ quod equidem dis minime cordi esse crediderim”.
Anche io non posso credere che agli dèi siano graditi tali crimini, eppure le propagande imposte dai massacratori giustificano siffatte empità come se fossero opere buone, opere di bene..
Pubblicato il 23 giugno 2024.
In effetti a Roma i sacrifici umani furono praticati. E pure dai Galli e dai Britanni.
Tito Livio racconta che dopo Canne “ex fatalibus libris sacrificia aliquot extraordinaria facta; inter quae Gallus et Galla, Graecus et Graeca, in foro bovario sub terram vivi demissi sunt in locum saxo consaeptum, iam ante hostiis humanis, minime romano sacro, imbutum” (XXII, 57, 6), in un luogo recintato da sassi, già prima insanguinato di vittime umane, con un rito però non romano.
Mazzarino ne ricava una concezione cisappenninica della vera Italia secondo i Romani. In questo caso ne conseguì l’idea della exterminatio dei due popoli transappenninici: Galli e Greci.
Appiano[1] nell’Annibalica (8, 34) introduce il suo racconto della battaglia del Trasimeno e sostiene che la vera Italia è quella tirrenica, mentre quella adriatica e ionica è terra di Galli e di Greci. Nello stesso anno 216 del resto i decemviri sacris faciundis ricavarono dai libri sibillini l’ordine di mandare a Delfi Fabio Pittore.
E’ una contraddizione ma “i fatti della storia non sono sillogismi” (Mazzarino, Il pensiero storico classico, II, 1, p. 216). C’era comunque fino a Canne una questione appenninica: gli antichi intuivano il contrasto fra l’economia padana ed economia appenninica.
Cesare spiega con un chiasmo che i sacrifici umani vengono praticati dai Galli poiché pensano che non si possa placare la maestà dei numi immortali “pro vita hominis nisi hominis vita reddatur “(De bello gallico, 6, 16, 2), se per la vita di un uomo non si paga la vita di un uomo.
Tacito ricorda che i Britanni facevano sacrifici umani: quando venne conquistata da Svetonio Paolino l’isola di Mona (vicina al Galles) vennero abbattuti i boschi, sacri alle loro crudeli superstizioni: excisique luci saevis superstitionibus sacri: nam cruore captivo adolēre aras et hominum fibris consulere deos fas habebant” (Annales, XIV, 30), infatti consideravano cosa santa far fumare gli altari col sangue dei prigionieri e consultare gli dèi con le viscere degli uomini.
La necessitas.
Del resto la necessità suggerì ai Tirii nuovi dispositivi per difesa la, efficacior omni arte necessitas, Curzio, 4, 3, 24.
Il Prometeo di Eschilo sopporta di sapere il suo destino senza venirne schiacciato, ma sa che gli uomini non sarebbero capaci di reggere una simile tensione (Prometeo incatenato v. 514): “ tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ”, la conoscenza pratica è molto più debole della necessità.
Il potere assoluto dell' jjjjAnavgkh viene apertamente affermato da Euripide nell'Alcesti. Nel terzo Stasimo della tragedia più antica (è del 438) tra le diciassette a noi pervenute, il Coro eleva un inno alla Necessità vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:
"Io attraverso le muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n jAnavgka"-hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali afflitti dalle malattie"(vv. 962-972). Da questi versi si vede che la Necessità è più forte del lovgo" , della poesia, dell'arte medica.
Prometeo si lamenta, ma rivendica a sé la capacità di prevedere[2] tutto e di capire la forza ineluttabile della necessità :"Eppure che dico? Conosco in anticipo tutto (pavnta proujxepivstamai)/esattamente come accadrà, né alcuna pena mi/raggiungerà inaspettata (oujdev moi potaivnion-ph'm j oujde;n h{xei): ma il destino assegnato è necessario/ sopportarlo il più facilmente possibile, sapendo che/la forza della necessità è ineluttabile (to; th`~ ajnavgkh~ e[st j ajdhvriton sqeno~)"(Prometeo incatenato, vv.101-105)- dhrivomai, contendo.
Alessandro voleva proseguire verso l’Egitto, ma si vergognava (pudebat, 4, 4, 2) tanto di fermarsi lì, quanto di andare avanti senza aver concluso niente. Civiltà di vergogna. Temeva la reputazione , l’infamia, che gli sarebbe giunta da Tiro non conquistata : “quasi testem se posse vinci reliquisset”.
Quindi conquistò la città e ne massacrò gli abitanti. Molti però furono salvati dai suoi mercenari di Sidone: “quippe utramque urbem Agenorem condidisse credebant” (IV, 4, 15), credevano che Tiro e Sidone fossero state fondate da Agenore
Agenore era il padre di Cadmo (cfr. Edipo re, 268).
Nell’Eneide, Venere dice a Enea che Cartagine è Agenoris urbem (1, 348). Agenore, fratello di Belo, re d’Egitto, passò in Fenicia dove fondò un regno la cui città principali erano Tiro e Sidone.
Comunque seimila Tirii furono ammazzati e duemila crocifissi. Risparmiò i legati Cartaginesi ma aggiunse una dichiarazione di guerra che la necessità della situazione presente ritardò.
“La storia della civiltà, dalla distruzione di Cartagine e Gerusalemme fino a quella di Dresda, Hiroshima e del popolo, della terra e degli alberi del Vietnam[3], è un documento tragico di sadismo e distruttività"[4]
L’invenzione della scrittura alfabetica
Il mito nella tragedia
Nel Prometeo incatenato du Eschilo il protagonista eponimo rivendica, tra le altre invenzioni sue, quelle dei numeri e delle lettere “kai; me;n ajriqmovn, e{xocon sofismavtwn,- jexeuvron aujtoi`~, grammavtwn te sunqevsei~-, mnhvmhn ajpavntwn, mousomhvtor j ejrgavthn- (459- 461)
E ho trovato per loro il numero, egregia tra le scoperte, e le combinazioni delle lettere, memoria di ogni cosa, operosa madre delle muse.
La storia
Erodoto scrive che i Fenici venuti con Cadmo ad abitare la Beozia polla; ejshvgagon didaskavlia ej~ tou;~ {Ellhna~ kai; de; kai; gravmmata (V, 58, 1), introdussero molte cognizioni e in particolare l’alfabeto.
La fenicia Tiro era antica, fondata da Agenore, e la sua gente fu la prima ad insegnare o imparare l’alfabeto ( haec gens litteras prima aut docuit aut didicit , Curzio Rufo, IV, 4, 19).
Colonie di origine fenicia: Tebe in Beozia, Cartagine e Cadice.
Tacito ricorda che gli Egizi attribuiscono a se stessi l’invenzione dell’alfabeto successivo ai geroglifici, ma poi furono i Fenici potenti sul mare a rivendicare questa invenzione (Annales, XI, 14)
Igino [5] riferisce l'opinione di alcuni che attribuiscono l'invenzione delle lettere dell'alfabeto a Mercurio il quale ne avrebbe tratto il suggerimento ex gruum volatu, quae cum volant litteras exprĭmunt (277) dal volo delle gru che volando significano delle lettere.
"L'idea che il volo degli uccelli potesse funzionare come un codice di scrittura sarà stata suggerita anche dall'abitudine alla "lettura" divinatoria di questo volo: se gli uccelli, attraverso caratteristiche e posizioni nel cielo, sono capaci di trasmettere signa, perché non pensare che tutto ciò funzioni come un vero e proprio alfabeto?"[6].
Critiche di Polibio ai colleghi
La presenza delle genealogie attirò la critica di Polibio: all’inizio del IX libro lo storiografo del circolo degli Scipioni dichiara di sapere bene che la sua opera presenta una certa secchezza di stile ("aujsthrovn ti" IX, 1, 2) e potrà ottenere l'approvazione di una sola classe di lettori: non dei dilettanti che cercano storie genealogiche, nè di coloro che amano i racconti straordinari come quelli che trattano di colonie, fondazione di città e rapporti di parentela.
La sua storia invece è prammatica, ossia tratta azioni politiche, narra avvenimenti contemporanei, e mira non tanto allo svago dei lettori quanto all'utilità di quanti vogliono riflettere seriamente ("hJmei'" oujc ou{tw" th'" tevryew" stocazovmenoi tw'n ajnagnwsomevnwn wJ" th'" wjfeleiva" tw'n prosecovntwn" IX, 2, 6).
Ora, conclude Curzio, Tiro sta bene sub tutela Romanae mansuetudinis (IV, 4, 21).
IV, 5 Dario mandò ad Al. un’altra lettera: gli offriva la figlia Statira e la Lidia in dote. La fortuna è mutevole e attira l’invidia, scriveva. Temeva che Al. facesse avium modo (4, 5, 3) e salisse troppo in alto.
E’ il topos che si trova nell’Ode I 3 [7] di Orazio :"nil mortalibus ardui est;/caelum ipsum petimus stultitiā neque/per nostrum patimur scelus/iracunda Iovem ponere fulmina" ( vv. 37-40), niente è difficile per i mortali; attacchiamo il cielo stesso nella nostra follia, e con i nostri delitti impediamo a Giove di deporre i fulmini dell'ira.
Tanta fortuna poteva essere troppo grande per l'età del giovane re macedone.
Pesaro primo agosto 2024 ore 10, 04 giovanni ghiselli
p. s
C’è ancora un bel caldo per fortuna ma il sole si è già abbassato di molto e la luce declina ogni giorno. Si avvicina l’umido equinozio che offusca l’oro delle nostre spiagge, sbiadisce i nostri volti e scolorisce anche il mare. E mi si stringe il cuore, quasi si ferma .
Ma si riprende tosto quando mi vengono in mente i frutti che porterà l’autunno, e non penso tanto alle caldarroste roventi e al ribollire dei tini con l’aspro odor dei vini, quanto agli impegni lavorativi, alle conferenze che sto preparando con buona lena, alle persone che posso educare e dilettare scrivendo e parlando.
[1] Contemporaneo di Arriano scrisse una Storia di Roma in greco. Sono conservati alcuni libri con il prologo, la vicenda di Annibale, le guerre civili
[2] Il suo nome significa quello che pensa in anticipo, al contrario del fratello Epimeteo che"non era saggio per niente" secondo il Protagora di Platone, 321b-c, e favoriva gli animali privi di ragione.
[3] Aggiornerei l'elenco con New York, l’Afganistan, l'Iraq, l’Ucraina e la Palestina.
[4] E, Fromm. Anatomia della distruttività umana, p. 212.
[5] Autore dell'unico manuale mitologico latino composto di due libri: Genealogiae e Fabulae. Visse tra il II e il III sec. d. C.
[6] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Einaudi, Torino, 2000, p. 12.
[7] In sistema asclepiadeo IV.
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