sabato 23 luglio 2022

E. Levinas Il Tempo e l'Altro. Postfazione di Francesca Nodari. Quarta parte.


Levinas Il Tempo e l’Altro

Capitolo terzo.

La morte e l’avvenire (pp. 64-67)

Levinas confuta “l’adagio antico –‘Se ci sei tu, non c’è la morte; se c’è la morte, non ci sei tu”.

 

Sentiamo alcune parole di Epicuro

Abituati a pensare mhde;n pro;" hjma'" ei\nai to;n qavnaton siccome ogni

bene e male sta nella sensazione ejn aijsqhvsei della quale la morte e

stevrhsi" (A Meneceo, 124), privazione. Il saggio non rifiuta la vita e non teme la morte che non ci riguarda.

 

Questo suggerimento dunque “che aveva lo scopo di dissipare il timore della morte, se ne lascia sfuggire senza dubbio tutto il paradosso, perché cancella la nostra relazione con essa, che è una relazione unica con l’avvenire. Ma almeno questo adagio ha il merito di insistere sull’eterno avvenire della morte” (p. 64).

 

Infatti la morte è uno di quegli eventi che entrano nella categoria profetica del "to; mevllon h{xei", il futuro accadrà. Lo dice Cassandra nell’Agamennone di Eschilo (v. 1240).

 

 “la morte è inafferrabile (…) essa segna la fine della virilità e dell’eroismo del soggetto.

 

 Achille nella Nevkuia dice al figlio di Laerte " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io preferirei, essendo un uomo che vive sulla terra, servire un altro,/presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488-491).

Vediamo anche una formulazione dostoevskijana di questo rovesciamento dll’eroismo e della sapienza silenica : “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere!...Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “ aggiunse subito dopo”[1].

 

“La mia sovranità, la mia virilità, il mio eroismo di soggetto non possono essere virilità né eroismo in rapporto alla morte- e ancora sul piano del fenomeno- c’è questo rovesciamento dell’attività del soggetto in passività” (p. 65)

 

Si può avere una prefigurazione di questa passività anche durante la vita:  Edipo di Sofocle prima è l’uomo attivo che erra,  poi diventa l’uomo dalla passività benefica: “ ejpei; tav g j e[rga me-peponqovt j i[sqi ma`llon h] dedrakovta” (Edipo a Colono, 266-267), poiché, sappilo, le mie opere sono state piuttosto subite che fatte.

 

Il lunatic king Shakespeare dirà parole simili: E il lunatic king: “I am a man/more sinned against than sinning” (King Lear, III, 2), io sono un uomo contro il quale si è peccato , più che un peccatore.

 

Questi personaggi hanno anticipato la morte negando la responsabilità del proprio agire.

“Morire significa tornare a questo stato di irresponsabilità, significa identificarsi con la scossa infantile del singhiozzo”. (p. 65)

Quindi Levinas ricorda il Macbeth di Shakespeare. Il re di Scozia giunge alla passività quando sente che le profezie delle streghe di fatto non escludevano la sua sconfitta e dice a Macduff “non combatterò con te”

“Ecco la passività di cui si parlava, che appare quando non c’è più speranza. Ecco ciò che ho chiamato la fine della virilità. Ma immediatamente la speranza rinasce ed ecco le ultime parole di Macbeth (…) : tenterò tuttavia la mia ultima possibilità” (p. 66)

“C’è sempre, prima della morte, un’ultima possibilità (…) l’eroe è colui che riesce a vedere sempre un’ultima possibilità; è l’uomo che si ostina a trovare delle possibilità. La morte non è  dunque mai assunta; essa viene”.

 

Achille nell’Iliade mostra la dimensione eroica dell’esistenza umana attraverso l’ ouj lhvxw[2]  il “non cederò” detto da Achille  al cavallo fatato Xanto che gli preannunciava la morte.

E’ il  Pelide cedere nescius [3].

 

“Nel presente dove si afferma la sovranità del soggetto, c’è speranza (…)

Di questa impossibilità di assumere la morte , Amleto è precisamente una lunga testimonianza. Il nulla è impossibile. Esso avrebbe lasciato all’uomo la possibilità di assumere la morte, di strappare alla schiavitù dell’esistenza una sovranità suprema.

“To be or not to be” è una presa di coscienza di questa impossibilità di annientarsi” (p. 67).

 

E’ pure la presa di coscienza della predestinazione: “there is a special providence in the fall of a sparrow" (Amleto, V, 2), c'è una provvidenza speciale perfino nella morte di un passero.

 

Leggiamo e commentiamo ora alcune pagine della postfazione di Francesca Nodari: “Il se stesso mortale, radicalmente posto , può solo o ‘disperato essere se stesso’ oppure ‘disperato, non essere se stesso’[4]. Il se stesso, che quindi cerca se stesso in assoluta autonomia, si trova imprigionato in un incatenamento incondizionato causato da se stesso, un  ‘akeda’ in cui rispetto alla libertà ottenibile solo nell’ ‘in-stant’  di una ‘stance’, paralizza sempre se stesso” (p. 134).

 

Questa chiusura, questo legarsi dell’individuo a se stesso richiama un aspetto della tirannide denunciato da Solone

Il saggio Solone nella Vita scritta da Plutarco(14, 8) definisce la tirannide un bel castello, ma senza uscita:"kalo;n me;n ei\nai th;n turannivda cwrivon, oujk e[cein d j ajpovbasin".

 

“Questo se- stesso metaetico che sussiste nella sua pura autorefenzialità, è necessariamente muto, e, alla domanda di Dio: ‘Adamo dove sei?’[5], può rispondere solo con un silenzio testardo[6]

‘Il se stesso è ciò che nell’uomo è condannato a tacere’[7] (p. 135).

 

Anche il tacere può è talora considerato una caratteristica del tiranno il quale toglie la facoltà di parlare dando un esempio con la popria riluttanza a parlare.

La mania della distruzione delle intelligenze fa parte della mente tirannica:  e tale  la distruzione inizia dall’annientare o sconciare la parola.

 Sappiamo da Erodoto  che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. Periandro di Corinto, quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era  scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale:"oiJ uJpetivqeto(...)tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie , V, 92 h) . Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano. Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità (" ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").

Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga risposta senza parole:" rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse "(I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri[8]. 

 

Ma torniamo alla postfazione di Francesca Nodari

“Da questa ‘prigionia’ e ‘carcerazione’ da questo ‘essere rinchiuso’ [9], in cui è condannato alla morte per soffocamento come in una camera a gas, può essere liberato solo da un Altro che  si trovi assolutamente al di là di tutte le sue possibilità, un Altro che lo chiama incondizionatamente e con ciò rompe il muro della sua autoreferenzialità. Solo grazie a questo ‘avvenimento avvenuto’ dell’essere-chiamato da colui che è totalmente Altro, trova la via del ‘linguaggio’ al suo ‘realissimo esser-parlato’[10], e alla domanda : ‘Adamo, dove sei?’ può rispondere : ‘Hinneni’[11], “Sono qui!’.

Trovo un’analogia di questo aprirsi della pigione che viene dalle parole di un Altro nella storia erodotea di Creso e Solone.

Lo straricco e pacchiano re di Lidia aveva congedato  Solone che non gli era gradito e non lo teneva in nessun conto. Creso era convinto che quell’ospite ateniese fosse un ignorante, poiché trascurava i beni che gli erano stati mostrati e lo invitava a guardare la fine di ogni cosa" (Erodoto, I, 33).

 

Però quando i Persiani occuparono Sardi e Ciro Il Vecchio fece salire sul rogo Creso sconfitto, a questo venne in mente il detto di Solone:"che nessuno dei viventi è felice"

Allora ne invocò tre volte il nome (Erodoto, I, 86, 3)..

  Ciro che assisteva all'esecuzione si incuriosì e volle sapere chi fosse costui. L'ex  re di Lidia raccontò al grande re di Persia quello che aveva sentito dire dall'Ateniese quando era suo ospite.

 

Plutarco racconta che Creso sul rogo capì che aveva sbagliato per il fatto di non avere ascoltato Solone e non avere imparato ciò di cui aveva bisogno, quindi si rammaricava di non avere capito che il suo bene lovgo~ h\n kai; dovxa (Vita di Solone, 28, 5), era solo fama e reputazione.

 

Sentiamo ancora Francesca Nodari

“Questo ‘avvenimento avvenuto’ , massimamente originario, che rende l’uomo un  ‘essere che parla’ (…) è definito da Rosenzweig ‘la seconda nascita’[12], la sua ‘rinascita’[13] che lo rende del tutto uomo.

 

La saggezza solonica produsse educazione anche nell'animo del vincitore:"E Ciro, ascoltato dagli interpreti quello che Creso aveva detto, cambiato parere e considerato che, essendo anch'egli uomo, dava alle fiamme un altro uomo vivo che non era stato inferiore a lui per fortuna, e oltre a questo temendo il castigo (th;n tivsin) e avendo compreso che nessuna delle cose umane è sicura, ordinò di spegnere al più presto il fuoco che ardeva e di fare scendere Creso e quelli che erano con lui "(Erodoto, I, 86, 6).

 

Concludo questo capitolo della postafazione di Francesca Nodari

“La questione è se i passaggi del primo dei Carnets in cui Levinas, discostandosi dal mero pensare l’essere e aprendo un passaggio verso la vera libertà, utilizza in modo rilevante la parola tedesca Wiedergeburt (=Rinascita-n. d. t.), non debbano essere letti in collegamento con questi passi tratti dalla Stella della redenzione: ‘Pertanto la libertà di me stesso nei confronti del mondo e riguardo a sé-non è l’essere ma l’evasione dall’essere-la possibilità di essere come se non si fosse ancora stati.. Rinascita (Wiedergeburt)’ [14][15]

Pesaro 23 luglio 2022-  ore 21, 56 giovanni ghiselli

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[1] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.

[2] Iliade , XIX, v. 423.

[3] Cfr. "gravem-Pelidae stomachum cedere nescii ", Orazio, Odi , I, 6, vv. 5-6

 

 

[4] Cf- S. Kierkegaard, La malattia mortale, a cura di c. Fabro, SE, Milano 2008, pp. 31-71.

[5] Gen. 3, 9.

[6] Cfr. Rosenzweig. La stella della redenzione , cit., p. 188.

[7] Cfr. Ivi, p. 85

[8] Il tiranno è invidioso. Infatti L'Invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.

[9] Cfr. anche la parola italiana “plaustro-phobia”.

[10] Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit,. p.186. Rosenzweig, nomina questo “realissimo esser-parlato del linguaggio” il “punto centrale di tutta l’opera”, cioè de La stella della redenzione

[11] Cfr. Oevreus I, p. 68 dove Levinas usa questa espressione che significa “Me voici, con riferimento a 1Sam 3, 4-10, per indicare la struttura profetica della soggettività.

[12] Cfr. E. Levinas , TA, p. 79 : “Il tempo è essenzialmente una nuova nascita”

[13] Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, pp. 425 ss.

[14] Euvres, 1, p. 59.(c.vo dell’Autore)

[15] B. Casper, Levinas pensatore della crisi dell’umanità, cit., pp. 35-39

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