lunedì 11 luglio 2022

"Goethe e Schiller come Moravia e Pasolini: praticamente amici!", di Giuseppe Moscatt

Goethe e Schiller come Moravia e Pasolini: praticamente amici!
di Giuseppe Moscatt
 

I carteggi fra grandi rappresentano per gli storici un immenso patrimonio per conoscere i personaggi e le loro teorie, ma anche per capire il loro secolo. Importantissimo per la cultura europea è quello intercorso fra Goethe e Schiller, non solo per capire i due cc. dd. “Dioscuri” della Germania, ma anche per ricostruire il punto di svolta della cultura europea fra il '700 illuminista e l'800 romantico.  Le relazioni fra i grandi del pensiero letterario non sono mancate nel nostro Paese  a un livello non inferiore, come nel caso della amicizia fra Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, rappresentando di fatto le due sponde di un dialogo foriero di crescita per il nostro patrimonio letterario dopo la catastrofica esperienza nazifascista. Certamente, il paragone fra i due rapporti è analogo perché Moravia e Pasolini furono dei compagni di ideologia e di vita, pur nelle diverse vicende e nel loro porgersi al pubblico; tuttavia vedremo come la preventiva morte di Schiller e di Pasolini, caratterizzarono per Goethe e per Moravia una certa reazione, mai superata e sempre meditata come una forte debolezza, visto che Moravia fin dalla notissima orazione funebre non cessò di onorare la forza poetica dell'amico, scomparso per di più in circostanze misteriose.
Ma come i due massimi tedeschi ebbero a riconoscersi? Goethe rientrava da Zurigo un po' perplesso dall'ultimo incontro con un amico di infanzia, il francofortese Kayser, musicista di secondo piano, col quale invano giocò la carta della amicizia giovanile e della collaborazione professionale. Stanco per il lungo viaggio e lusingato per l'invito del duca di Stoccarda Karl Eugenio, ma anche curioso per la presenza del futuro suo mecenate, il giovane duca di Weimar Karl August, ambedue fedeli lettori del suo Werther; nella fredda serata del 15.12.1775, partecipò alla cena di gala dell'accademia militare e sfiorò un giovane ufficiale cadetto alto e magro, dal naso un po' adunco, un tipo strano, silenzioso e scostante, appena inginocchiatosi di fronte ai Duchi, con a lato il gigante del momento, forse distratto da qualche gentildonna. Pari fu il disinteresse del ventenne Schiller per quel “cicisbeo” d'occasione e per quel romanzetto frivolo che non l'attraeva per la forma e il contenuto, salvo che per il finale che lo aveva sorpreso (cioè il suicidio tragico per amore del protagonista).
Né Goethe ebbe maggiore attenzione sull'ignoto tragediografo di Stoccarda, quando nel 1781 comparve con successo inaspettato un dramma storico - I Masnadieri - che lo lasciò indifferente, se non per una certa curiosità di come quel giovane medico militare avesse contraddetto fortemente l'etica comune per l'aver rappresentato le giustificazioni morali di una banda di briganti. Per un decennio i due si studiarono, fingendo di non conoscersi direttamente: da una parte, Schiller, dopo anni di sofferenza per la vita militare  chiaramente insopportabile per un poeta e libero pensatore qual era, pubblicò ormai in fuga da Stoccarda, poesie, studi storici e filosofici, abbagliato dal Kantismo e dalla cultura classica dove il Titanismo del giovane Goethe non gli pareva estraneo, tanto che fino al 1793 vagherà inquieto per la Germania, diviso fra il sentimento di giustizia e libertà e l'opportunismo politico di parecchi giovani autori legati ormai al consunto “Sturm un Drang” primo fra tutti lo stesso Goethe - che era divenuto ministro alla Corte di Weimar.
Dall'altra parte Goethe era indispettito per quel giovane visionario che in quell'anno aveva magnificato la dignità umana, “l'anima bella”, dichiarandola insopprimibile come un valore umano costitutivo irrinunciabile.
Per tornare ai Masnadieri, la giustizia a tutela dell'uomo poteva albergare anche in un brigante, malgrado le leggi siano vincolanti e esclusive. Come sarà per Don Carlos e Maria Stuarda, il dono della grazia individuale è il Sublime Estetico per cui ogni uomo deve vivere. Di qui, il rigetto dei poeti che guardavano alla Natura come regola assoluta cui obbedire, anche a discapito del Sentimento. Circostanza che Goethe aveva studiato e che nella sua tesi, ”sulla metamorfosi delle piante”, aveva rielaborato a favore della lenta vittoria dell'uomo sulla Natura, procedimento in cui la Ragione era stato uno strumento privilegiato. Qui il pensiero dei due confliggeva a più non posso, perché la lotta sul male secondo Schiller non sarebbe stata mai vinta. Furono altri due grandi del pensiero tedesco, amici di entrambi, ad aprire  la strada per un confronto diretto: Herder e Wieland, già colleghi a Weimar di Goethe, che invitarono Schiller a un incontro personale, a uno scambio di idee su ciò che li divideva. Non dissimile furono le occasioni di incontro fra Pasolini e Moravia. Questi, era già famoso a 22 anni per il provocatorio Gli indifferenti (1929), un romanzo centrale nella letteratura italiana del Novecento, che come il Werther, dissacrò la morale conformista all'interno di una famiglia di primo '900. Moravia infatti attraversava la crisi di quella società quando mise il dito sulla ideologia reazionaria fascista, specchio della società industriale del primo dopoguerra. Pasolini, dal canto suo, negli anni del Regime, giovanissimo, partecipò ai Littoriali della cultura, lesse Montale e Quasimodo e decise di essere poeta attraverso le tradizioni classiche di Ungaretti, che onorò fino alla morte. Nei primi anni '40 militò insieme al fratello Guido nella colonna partigiana “Osoppo”, mentre Moravia già trentenne fuggì a Parigi dove conobbe la dirigenza comunista in esilio, aderendo al Partito e collaborando alla propaganda antifascista. La comune appartenenza ideologica e l'amore per la scrittura - poesia e romanzo di impegno sociale - trovarono nel critico Gianfranco Contini un comune amico ed estimatore, quasi come quel Wieland che fece da ponte fra Goethe e Schiller.
La poetica dialettale friulana del primo Pasolini, dove la sua omosessualità emergeva di giorno in giorno, si evidenziò anche nel primo romanzo La meglio gioventù (1949), dove abbandonò la collocazione locale per accedere ad un romanzo di formazione di alcuni giovani contadini e dei loro scontri  con la polizia nelle campagne dell'Udinese, in quella Casarsa dove aveva passato le vacanze e dove insegnava. La militanza comunista ed episodi di amori illeciti con ragazzi di quei luoghi, non solo lo esclusero dalle scuole pubbliche, ma lo portarono ad essere emarginato dal P.C.I. Nel frattempo, nei primi anni del dopoguerra, l'appartenenza al PCI di Moravia, quasi una purezza intellettuale, alternativa alle vicende romane dei successivi romanzi - Agostino (1944) e La Romana (1947) di stampo neorealistico; lo portò ad essere collaboratore del Corriere della sera (1948) e dell'Espresso, mentre continuava l'impegno politico e sociale partecipando nel maggio del 1949 a Parigi al Congresso Mondiale della pace dove finalmente conobbe Pasolini.
Ma la freddezza di quell'incontro fra un devotissimo discepolo di Togliatti e un eretico visionario alla Wilde. pur dalla parte degli umili e dei bisognosi; non sortì nulla di pratico, se non generici apprezzamenti per essere sotto l'unica bandiera di riscossa culturale del popolo delle borgate. Come poteva un poeta maledetto avere udienza presso lo scrittore più acuto del Partito, eticamente simile a quella classe dirigente democristiana che aveva cacciato l'immorale professore? Similmente, il razionalismo morale di Kant non poteva divergere dall'individualismo passionale di Schiller; mentre la classe dirigente di Weimar era più che aperta alle iniziative burocratiche ed efficentiste di un Goethe ormai integrato nell'etica deista dei salotti letterari illuministi. Allora Gianfranco Contini ed Elsa Morante convocarono Moravia e Pasolini nel loro salotto letterario per un confronto diretto, nella Roma degli anni '50 di Scelba e di De Gasperi. La rivista letteraria di Moravia - Nuovi argomenti, in libreria dal 1953 - però insisteva sui profili  letterari di un particolare realismo di origine cinematografico, dove lo scrittore di Partito si poneva come osservatore esterno di una degenerazione di un mondo borghese privo di idealismi, peraltro deluso dal sesso e schiavo del suo successo economico, interessi spesso sovrapposti e vicari dell'uno e dell'altro. Analisi di un nuovo romanziere che si ripeterà con L'amore coniugale (1949), La ciociara (1957), La noia (1960), L'uomo che guarda (1985). Dal canto suo, Pasolini dava dimostrazione di una versatilità inusitata nel panorama italiano di quel momento: limitandosi agli anni '50 per la poesia vanno citate Le ceneri di Gramsci (1958) e per la narrativa, Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1960).  Merita poi l'attività teatrale specialmente legata in quel periodo alla traduzione di Eschilo, con la sua Orestiade del 1960, a cura dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico per le rappresentazioni classiche nel Teatro Greco di Siracusa. Un breve elenco di opere miliari per la cultura italiana, peraltro flagellata da una serie di denunzie penali che mai cesseranno di abbattersi ad ogni momento su di lui, dove spesso la sua natura omoerotica divenne facile bersaglio per chi  non sopportava le sue verità sulla società  borghese, mentre perfino il suo sodale Moravia non mancava di sferzarle in tono apparentemente più morbido, ma che a ben guadare non erano meno penetranti.
Nondimeno nell'incontro a Weimar, il razionale Goethe e il sentimentale Schiller come il lucido Moravia e il “Corsaro” Pier Paolo dopo lunghe discussioni sul ruolo dell'intellettuale organico o libero, ruppero il ghiaccio e raggiunsero una maggiore maturità spirituale. Compresero cioè che ognuno era necessario per l'altro e diventarono amici proprio perché coerenti nelle loro posizioni. Insomma la frequenza delle loro discussioni sul mondo che andava mutando sarà una linfa vitale per il decennio successivo, quando l'Italia acquisirà una fase innovativa di trasformazione culturale oggi rimpianta. Per un ventennio marciarono insieme ormai chiarificatesi senza alcun infingimento. Goethe e Schiller si superarono solo per morte del secondo nel 1805, quando una pleurite mal curata stroncò Schiller mente preparava il Demetrio, ultimo testo teatrale dove sembrava accogliere il nuovo verbo romantico. In realtà, al ritorno dal viaggio in Italia, Goethe non riuscì più tanto facilmente a vivere nel clima freddo del nord e soprattutto non ritornò in quella Corte che era restata quel nido di vipere da cui sia fuggito. Non gli restò che dimettersi, rinchiudendosi nella direzione del Teatro Reale.
La nostalgia dell'Italia si trasfigurò nella mitica “età dell'oro” e la semplice contadina e serva Christina Vulpius, una ragazza di campagna poco più che ventenne - diventò la sua amata convivente. Tornò per un po' ad essere lo scapestrato “Werther” di Strasburgo. Gli bastava la protezione del Granduca Carl August. Ma nel 1789 due eventi lo sconvolsero, mentre Schiller, dopo un breve soggiorno a Weimar, su raccomandazione di Goethe  che non stava nella pelle di comprimario accanto al giovane piuttosto esuberante, ma anche un po' censore delle “monellerie” dell'italiano “redivivo”: vale a dire la nascita del figlio maschio, August, battezzato non a caso col nome del suo alto produttore e la Rivoluzione Francese. Wolfgang non fece salti di gioia, rispetto all'amico Wieland. Diffidava dei valori di libertà, uguaglianza e al massimo, concesse alle masse popolari la domanda di solidarietà, dato che da responsabile delle miniere del Ducato, aveva conosciuto le difficoltà della vita operaia. Comunque da una parte raccolse la conversione dei tanti profughi francesi e tedeschi che fuggirono a Weimar incalzati dalle truppe rivoluzionarie, poi pubblicate nel 1795 sulle “Ore” la rivista di Schiller nel 1795. Ma fu anche il corrispondente di guerra, accanto all'esercito austro-prussiano al seguito dell'amico Granduca. Qui, malgrado la leggenda dica della sua gioia a Valmy - “Oggi è l'alba del nuovo mondo”, come si disse avesse affermato di fronte alla vittoria dell'armata repubblicana. Però i dubbi sulla Grande rivoluzione, crescevano sempre di più, perché affermò anche - ma siamo nel 1824! - che della Rivoluzione non poteva essere amico, specie di fronte al Terrore: fui sempre convinto che questa come le altre non nasceva per colpa del popolo affamato e vessato, ma da governi incappaci e dediti solo ai loro interessi di parte. Intanto, mentre Schiller da storico della guerra e dei trenta anni e delle guerre di liberazione dell'Olanda dalla Spagna cattolica, cresceva in popolarità presso i primi romantici; Goethe sembrò ristagnare, dedicandosi alla raccolta e al coordinamento degli innumerevoli appunti, diari di viaggi e di idee di lavoro, per il primo frammento del Faust e gli Epigrammi veneziani, abbozzati in uno dei suo nuovi viaggi in Italia. Una certa attenzione per le scienze lo attrae: formula la teoria dei colori che addirittura sembrava criticare le tesi di Newton; mentre espone la famosa “metamorfosi delle piante” che divenne oggetto di una conferenza a casa di Wieland il 20 luglio 1794. In questa occasione era presente Schiller. Questi da poco tempo per malattia aveva abbandonato l'Università e aveva sposato la colta Carlotta von Lengenfeld, nella cui casa di Jena viveva la giovane sorella Carolina, la cui doppia convivenza fece rinascere Friederich e lo fece riavvicinare alla letteratura (doppiezza di convivenza e di amori che lo esporrà alle malelingue di Corte a Weimar, nondimeno delle chiacchiere sulla vita “more uxorio” di Goethe). Proprio in quella conferenza scientifica, emerse ancora una volta la differenza metodologica dei due: Wolfgang partiva dall'idea circolare di una pianta matrice di un successivo suo spargersi in natura e del ritorno alla pianta originaria. Friederich ribatteva, con Kant alla mano, quali prove avesse a riguardo. L'Olimpico si bloccò e Wieland con saggia prudenza chiuse i lavori. La rottura, come si disse sembrò insuperabile.
Da quel 20 luglio si dovette arrivare ben presto a un rovesciamento improvviso della relazione: potevano i due geni restare indifferenti, se non addirittura rivali? Schiller, educato alla pace da Kant, secondo la leggenda quotidiana aprì la via del riavvicinamento: con un'improvvisa lettera offrì a Goethe di collaborare con lui e altri intellettuali, fra cui Fichte e von Humboldt, nonché alla redazione di una rivista nuova per argomenti e di stampo neoclassico, sulla scia del pensiero di Winckelmann. Era forse una ciambella di salvataggio per Goethe in quella fase di stallo? Oppure, era lo stesso Schiller a capire che i suoi eroici furori morali e le sue teorie estremiste in estetica non andavano di fronte a un pubblico borghese moderato? Sia come sia, Goethe a sorpresa accettò per la rivista “Xenia”, dove la filosofia e la storia non potevano restare isolate. Del resto, la poesia e la prosa dovevano essere del pari presenti e la nuova scienza di Goethe rendeva oggettiva il soggettivismo ormai presente nelle analoghe riviste romantiche di Jena e Berlino. Dunque un matrimonio di valori, fra idea ed esperienza, fra ragione e sentimento, che nel decennio successivo, fra il 1795 e il 1805, unì la tendenza manipolativa e unilaterale dell'Olimpico, con lo spirito creativo e umanitario di Schiller. Il  loro carteggio segnò una svolta fondamentale per entrambi: il Faust è completato nella sua prima parte, Gli anni di noviziato di Wilhelm Meister e il poemetto Ermanno e Dorotea, subirono l'iniezione di inventiva alla loro produzione. E lo steso dicasi per Schiller, autore eccelso della trilogia del Wallenstein; della Maria Stuarda e del Guglielmo Tell. Il carteggio costituisce una stupenda testimonianza di amicizia e di reciproco riconoscimento di percorsi diversi, ma rivolti ad un unico fine: favorire la creazione di una classe dirigente moderata che riprendesse le fila di una riforma sociale lontana dagli eccidi del Terrore, un neorealismo postrivoluzionario che limitasse gli eccessi del Capitalismo e che sviluppasse una borghesia produttiva tesa a superare le ineguaglianze sociali senza morti  per le strade, escludendo ideologie massimaliste, contro la cieca mobilitazione delle masse, come era avvenuto sotto gli occhi di Goethe a Magonza; o come si era verificato a Parigi sotto Robespierre. Goethe accettò quindi il modello democratico inglese, che il suo protettore Carl August aveva anticipato in parte a Weimar. Dove proprio per quell'alleanza di spiriti la  renderà la “Firenze” della Germania e che non per caso diede nel 1919 i natali alla Costituzione più democratica del '900. Moravia e Pasolini nei diversi incontri con Elsa Morante e i suggerimenti di Contini, costruivano un'amicizia ben più solida e più umana, consacrata nella condirezione di Nuovi Argomenti nel 1953.
Pasolini accoglieva il progetto di Alberto: diffondere una rivista di sinistra analoga a quella di Sartre - Tempi moderni - che illuminasse la realtà italiana  del dopoguerra, in modo oggettivo e non teorico. Cioè, lo stesso fine dei due tedeschi a fine '700: rinsaldare l'alleanza fra produttori, consumatori e popolo con la nobiltà terriera, senza il pathos rivoluzionario che portava lutti e guerre, fino a nuove tirannidi, come avvenne con Napoleone e poi avverrà in Russia con la dittatura dei Soviet. Un comunismo non aggressivo, dal volto umano, democratico, sul modello prefigurato dell'ultimo Gramsci. Moravia volle fin dal principio riconoscere un nuovo poeta, Pasolini; che da allora fu considerato l'unico grande poeta del dopoguerra, tanto da fare pubblicare sulla rivista tutte le poesie in lingua friulana della c.d. Arcademinta (brevi poesie popolari raccolte nelle campagne di Casorsa), fino alle citate Le Ceneri di Gramsci. Contemporaneamente - ricorda Moravia nel 1985 a 10 anni dalla tragica morte di Pier Paolo divenimmo molto amici... fu il mio amico principale per buona parte degli anni  '60... abbiamo fatto molti viaggi insieme in Africa … comprammo persino un terreno a Sabaudia dove passavamo insieme i fine settimana in una casa comune e dunque lo difesi varie volte, da amico dalle accuse infamanti che spesso lo colpirono. Infatti, Alberto, dopo l'accusa di vilipendio alla religione opposta al film La ricotta del 1962, ribatté che meglio sarebbe stato se lo si fosse incolpato per aver vilipeso i valori della piccola e media borghesia italiana.
Come Goethe e Schiller, Moravia e Pasolini non collaborarono direttamente in nessuna opera, perché erano di carattere diverso. Come si disse di loro, Moravia era un “integrato”, un moderato critico della società borghese per bene, ma capace di eroderne ai fianchi le evidenti conflittualità, aprendo addirittura alla società industriale che giudicava come la soluzione al blocco culturale della società contadina italiana. Pasolini invece temeva che il consumismo avrebbe divorato l'originale comunismo della campagna, che il Sud industrializzato sarebbe stato un rimedio peggiore del male. Idee alternative che Moravia consentì di pubblicare su Nuovi Argomenti, in varie occasioni, cozzando con le idee estetiche non localistiche ed esterofile di buona parte dei letterati italiani del '68. Qui, scoppiò l'unica polemica fra i due: in quell'anno, la classe dirigente comunista di partito non sembrò apprezzare il suo film più polemico, Teorema, rivolto contro le pecche narcisiste di una famiglia borghese di stampo esplicitamente democristiano, ma sottilmente estendibile a una famiglia comunista. Il fatto che qualche mese dopo Pasolini, in occasione dei tumulti  studenteschi di Villa Giulia, avesse fraternizzato con i poliziotti che caricarono gli studenti di architettura, facendo uscire una poesia rivolta al PCI e ai giovani contestatori, pubblicando sull'Espresso e non su Nuovi Argomenti; raffreddò di un tratto il loro rapporto, che per i successivi anni sembrò scemare.
In sostanza, il travaglio emotivo di Pier Paolo sull'Italia del boom divenne il chiaro rifiuto di un'alleanza politica con la democrazia cristiana. A suo dire, in uno scritto del 1° febbraio del 1975 sul Corriere della sera, si contestava al Partito Comunista di aver accettato di fatto la continuità tra il regime primo democristiano col Fascismo e poi di subentrare alla seconda democrazia cristiana mantenendo valori non più validi perché ormai corrotti irreversibilmente: la Chiesa, la Patria e la famiglia, istituzioni sane eticamente, divenute nell'età dello sviluppo economico dell'Italia repubblicana un luogo marcio di privati interessi disumani. Moravia, che taceva da tempo sul suo grande amico, proprio al momento della sua tragica morte, avvenuta dopo poco tempo dalle citate gravissime riflessioni sulla realtà italiana e proprio sul giornale della grande borghesia italiana; ruppe il silenzio un po' colpevole. Lesse un'orazione funebre fra le più sentite condoglianze di un amico a un altro. Moravia gridò infatti al popolo sgomento che Pasolini era stato un gigante della poesia, del romanzo, del cinema, geniale, unico, il cui unico fine era stato l'amore evangelico – quasi luterano! - per i poveri e per il mondo popolare. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta … romanziere  delle borgate, romanziere dei ragazzi di vita, della vita violenta... realistico  sulle soluzioni linguistiche… fra il dialetto e la lingua italiana... soluzioni che erano nuove … un realista mitico per i suoi film, dove era grande il suo mito, il mito del sottoproletariato, portatore di un'umiltà che potrebbe riportare a una poligenesi del mondo...
In una parola, Moravia  lo accomunava a se stesso, nella misura in cui due amici guardavano spaesati un mondo in trasformazione. Non avevano ormai alcuna verità da dare, ma avevano la semplice capacità di assistere ai fatti della loro epoca, dove per dirla con Pasolini, stavano scomparendo le lucciole. La classe politica che aveva ricostruito l'Italia stava ora alla sbarra, quando si stava compiendo una mutazione antropologica, dove si vedeva uno sviluppo senza progresso causato da forme di un neocapitalismo puramente finanziario senza produzione di beni essenziali, dove addirittura l'ambiente non era più sano e riproducibile, mentre una pandemia oggi mina la stessa vita umana... E tutto ciò avvenne pure alla morte dell'amico Schiller, per Goethe. Quali furono le sue parole? “Fu un vero amico!” Va detto che già  nel 1788. cessata l'adesione alla rivista Le Ore, i due germanici si diedero a un nuovo obiettivo più prestigioso, combattere una guerra senza frontiere ai romantici nazionalisti entrambi contro un loro ex amico passato dalla parte avversa, Johann Fichte. Schiller e Goethe propagavano ancora il ritorno agli ideali artistici della Classicità. Il titolo - Propyläen della nuova rivista - ribadiva e rinforzava l'ideale classico, punto di partenza per il futuro progetto di letteratura mondiale, nei fatti già operativo per il loro ideale cosmopolita e libertario diretto a tutti i popoli. Nel contempo il messaggio avrebbe rinnovato il progetto educativo dell'umanità intera.
L'ultima idea di Schiller, prima di morire, derivava dalla costruzione di un ideale non più solitario, ma umanitario: ora la funzione dell'etico primeggiava sull'estetico e avrebbe modificato quegli eccessi del capitalismo borghese ormai prevalente nella società europea, dall'Inghilterra di Smith alla Francia di Napoleone già primo console. Forse Schiller influenzò Goethe nel rielaborare un romanzo di formazione, dal titolo Gli anni di noviziato di Wilhelm Meister del 1795, derivato a sua volta da una precedente bozza del 1777, La Missione teatrale di Wilhelm Meister, fino alla stesura definitiva nel 1829, Gli anni di peregrinazione di Wilhelm, dal significativo sottotitolo coloro che rinunciano, cioè l'uomo che da una concezione della esistenza come vita e teatro, prima compie  un'esperienza di carattere più ampio di vita, fino a rinunziare a sé e di vivere negli altri. E' questo il senso più alto che Schiller donò a Goethe nel momento del passaggio dalla società agraria alla società industriale, quando l'Io finalmente abbandonava se stesso e si versava nel grande mare della vita del mondo. Due secoli dopo, sarà questa il messaggio di Pasolini a Moravia e che Moravia realizzerà nel suo ultimo periodo, in cui il realismo critico della maturità votata alla lotta di classe e alla dittatura del proletariato, si tramutava in una forte rampogna alle convinzioni della società borghese italiana, alla crisi dell'ideale industriale, fino ad auspicare una società molto più egualitaria ormai quasi inevitabile, stante il fallimento dell'utopia industrialistica, futuro già preconizzato dell'amico Pasolini. Infatti, la rilettura dagli ultimi suoi saggi, a quasi trent'anni dalla morte, rivela quanto sia stata altrettanto rilevante la figura imponente dell'amico Pasolini. Brevità, incisività e serena coscienza della propria  passata esistenza che ereditò fin dal 1971, quando Moravia ritornò proprio su Nuovi Argomenti a versificare, dando un titolo da cui emergeva un suo cambio di passo frutto della convinzione che fosse molto arduo per l'Uomo  adattarsi alla società, alla certezza responsabile che non si può vivere da soli. Come Pasolini andò verso una poesia prosasticamente elaborata; così Moravia dimenticò di essere uno scrittore per diventare un poeta esistenziale.
Scambio finale di reciproca amicizia cui non si sottrasse neppure Goethe, quando alla morte di Schiller, scrisse un'orazione funebre per l'amico mai più ritrovato, ma sempre presente nel suo cuore, dimostrando ancora una volta l'interpretazione di Croce, che aveva intravisto fra le righe del Vate una umanità accentuata da un'estetica magniloquente e narcisistica solo in superficie, ma che si disperdeva in occasioni centrali del vivere quotidiano. Invero, Goethe scrisse l'ode in memoria del suo “fratello” della sua “coscienza”, come i primi storici della letteratura tedesca mai negarono di Schiller, malgrado non poche volte i due palesemente divergessero e fu solo dal principio di non avere concordato pienamente. Al di là di qualche benevolo consiglio che il riflessivo Schiller dava all'esuberante Goethe in merito a limitare alcune intemperanze erotiche con la romana Faustina nelle relative “elegie”, da pubblicare nei primi numeri della rivista Le Ore (dialogo epistolare narrato da Roberto Zapperi nel suo pregevole saggio Una vita in incognito, Goethe a Roma, del 2000); resta una prova indelebile del loro rapporto di virile amicizia e di solidale rispetto per la relativa autorevolezza culturale: L'epilogo alla Campana di Schiller, ode declamate a 10 anni dalla morte del grande tragediografo. I biografi dell'Olimpico parlarono di un gravissimo momento di crisi, “di pianti e stridori di denti”. Dissero gli epigoni più stretti, e i maliziosi tirarono fuori le non poche differenze, se non i tragici silenzi quando ambedue stavano in cattive condizioni di salute, come capitò fra l'aprile e il maggio del 1809, fino all'epilogo mortale e del 1810. Alcuni elementi però fanno pensare ad uno stato di estrema prostrazione di Goethe che durerà fino al 1826, quando di fronte alla riesumazione del teschio di Schiller proruppe nel celeberrimo verso, o segreto cranio che ci regalasti profezie poi avveratasi! Come potrei essere degno di tenerti in mano! Subito, appena avuto la ferale notizia, aveva sentito che qualcosa di sé era già perduto.
“Perdo un amico e con lui la metà della mia vita”, disse in un breve messaggio al comune amico Wilhelm von Humboldt. E le crisi di pianto non mancarono di nuovo nel 1822, quando il giurista Gruer  lo trovò a casa, ormai vecchio e quasi pronto a dettare le sue memorie all'ultimo discepolo, Johann Peter Eckermann, mentre leggeva La guerra dei 30 anni, di Schiller e  pronto a respingere ogni vera lite con Lui, rimpiangendo che vi erano state delle brevi incomprensioni solo iniziali. Ma già nel 1815, due operazioni a cuor non leggero, gli erano costate una certa fatica intellettuale: dapprima aveva commentato il frammento del Demetrio, la tragedia appena iniziata dell'amico, che gli servì a non dimenticare. Anzi, attorno al 1815, caduto il suo ultimo mito - Napoleone! - e dopo aver letto il 5 Maggio di Manzoni - che di quel mito  aveva fatto una seria critica.
Goehte aveva maturato che il ruolo di Schiller nella sua carriera letteraria era stato essenziale nel riattivare quell'ideale cosmopolita che bruciava nel suo cuore  fin dal Werther. Qui sgorgano quei supremi versi che suonarono, forse all'inizio poco compresi, rivolti all'epoca alla vita che non alla morte. “Goethe insiste per tre volte, chiamando nostro Schiller, un ritornello verso per verso. Le vite intellettuali di Goethe e di Moravia continuarono, ma la realtà artistica dei due rimase profondamente incisa dall'amico, perché la loro cometa brillò e scomparve insieme alla luce  dei loro amici. Chi leggerà l'uno, non potrà dimenticare l'altro.

Giuseppe Moscatt

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